Letter from Lhasa, number 344. El especialista de Barcelona
by Roberto Abraham Scaruffi
Busi, A., El especialista de Barcelona, Dalai Editore, Milano, Italy, 2012.
(Busi 2012).
Busi Aldo
Per quanto non
letterariamente rilevanti, le dediche iniziali fanno..., ...come dire in
linguaggio elegante che..., che fanno..., sì, insomma, ...fanno pisciare. Dato
che le dediche che possono eccitare qualcuno farebbero inevitabilmente pisciare
qualche d’un altro, non è che le specifiche dediche facciano necessariamente
pisciare tutti... In realtà, si potrebbe generalizzare che qualunque tipo di
dedica, forse non solo le dediche a persone, faccia pisciare. Un autore serio
che volesse mantenesi serio se le eviterebbe. Sono probabilmente un cedimento
psicologico e culturale del Busi personaggio mediatico al Busi scrittore.
È un’insicurezza
caratteriale coprirsi dietro al lustro, o supposto tale, di altri. Gli
adolescenti lo amano. Crogiolarsi in tali pratiche nella senilità non sembra
scelta matura e saggia. Beh, Busi ha conservato l’irruenza di un bimbo ribelle,
per quanto possa poi mai essere davvero ribelle un bimbo....
Esprimersi
attraverso il prodotto-narrazione dovrebbe forse indurre ad estraniarsi da
proclamazioni di fede immediate ed al di fuori del testo stesso, di qualunque
genere esse siano. È comunque ancor più pericoloso affidarsi a personaggi
correnti. A questo punto qualunque bandiera, personaggio o concetto, esterno
alla narrazione stessa, lancia un messaggio magari inessenziale, e magari pure
ingiustificato, rispetto all’intrinsecità dei contenuti un autore veicola o
costruisce colla sua opera. Chessò, io autore potrei proclamarmi qualunque
cosa, colla tecnica della appropriazione di contenuti di valore altrui, pur poi
esprimendo contenuti intrinseci del tutto differenti. Un po’ è quello fa Busi. Meglio,
ma anche più sicuro (da un punto di vista etico ed artistico, o scientifico),
veicolare tutto attraverso la narrazione, nel momento in cui si fa lo
scrittore, dunque si produce un pezzo letterario.
Beh, ognuno fa poi
quel che crede. Lui si schiera lì, con quelli lui cita, e lo fa con una
dichiarazione di fede [non partitica nel senso corrente, e pure piuttosto
eterogenea] affidata a ciò correntemente sono ritenuti i quattro citati, o tre
di loro dato che del quarto viene usata una riflessione esistenziale
apprezzabile o meno anche da chi non abbia una qualche conoscenza od opinione
dell’opera ed autore da cui essa è tratta. Un’alternativa all’omissione avrebbe
potuto essere un ‘subdolo’, ma pure ben più sostanziale, inserimento nella
narrazione. In fondo, uno scrittore, nel momento in cui è tale, parla
attraverso i suoi scritti. Lui sente il bisogno delle bandiere fuori
dall’uscio. Un ‘fascista’ [tale lo definirebbero i compagnuzzi sulla sola base
di ciò e di come scrive Busi] che deve fare l’inchino, o qualche inchino, a
sinistra, o a quella viene ritenuta la sinistra inventata, o fatta inventare,
dagli inglesi, a Salerno, nel 1944, dal loro Palmiro Togliatti, per la loro
Italiozia in via d’occupazione.
A parte questa
divagazione iniziale (quattro immagini di pochissime o poche parole uno
potrebbe anche non notare - beh, anche le bandiere fuori da un edificio
qualcuno potrebbe non notarle, a parte chi del mestiere o dei mestieri di
mettere il naso nella coscienza altrui), se non altro l’autore ti porta subito
nel discorso, in un qualche discorso che comincia a snocciolarti sotto il naso,
negli occhi e nella mente. Anche quando tenti di attardarsi in descrizioni
barocche, una benefica logorrea prende subito il sopravvento e con essa ti
sommerge.
Si è vero, la
soluzione sta dentro di te ed in quello che tu fai, non nella retorica della
crisi, del “se c’è la crisi, io che posso fare?”. ...C’è sempre la crisi,
secondo le propagande ufficiali, secondo i media, d’Italiozia... Appunto, non è
vero e lui te lo dice. Tu sei tu, ed inizia dunque da te, anziché buttarti via
ulteriormente! Busi è un individualista e lo conclama in continuazione. Non ti
imbroglia coi collettivismi per cui la soluzione starebbe sempre altrove, cioè
da nessuna parte. Le masse non hanno mai risolto alcun problema, a parte per
gli imbroglioni o gli affaristi sappiano e vogliano manipolarle.
Il richiamo a
Joseph Marie de Maistre indica [forse... ...andrebbe esaminato e riesaminato quel
che Busi snocciola sul personaggio, ed anche così non se ne caverebbe nulla,
data l’ambiguità sulle sue vere intenzioni magari neppure vi sono!] un Busi che
si muove fuori dalle convenzioni ipocrite e false, connettendosi alle
permanenze storiche del mondo e delle cose. In effetti, si dice e ridice, si
dicono e ridicono mille balle ‘democratiche’ e libertarie, ma il mondo è
restato fermo alle subordinazione alle gerarchie di sempre, anche se ora con
nome cambiato e tanta tantissima propaganda per mascherare che non è cambiato
nulla nelle interazioni tra soggetti e classi, o categorie. Allo stesso tempo,
citare de Maistre, forse per ridicolizzarlo, è pure esibire l’idiozia savoiarda
di fatto nobilitandola. No, de Maistre non è “la reazione”. È solo non pensiero.
Un ometto di regime che ha scritto e che qualcuno ha pubblicato perché non
avevano di meglio. Il che è tutto dire, sui domini dei Savoia, sui loro
funzionari, sui loro intellettuali. Lo si compari, fosse mai possibile una
qualche comparazione, con l’intellettualità inglese, dell’Inghilterra sceglie
di rompere col sottosviluppo ed imboccare un corso sviluppista. Appunto...
chissà perché il Busi lo tira fuori. Meglio di quelli che dovevano almeno
nominare Gramsci per ingraziarsi un PCI che di gramsciano non ha mai avuto
nulla. O conosce bene la materia, oppure casualmente si era imbattuto nel
savoiardo e lo ha citato per imbastirci sopra un pezzetto della sua narrazione.
Busi non è di quelli abbiano bisogno di nominare Gramsci. I tempi sono altri. E
poi ha già messo sulla porta, o sul davanzale, pur dopo un’oligarca burmese
tanto adorata dall’Impero (almeno in apparenza), un giudice della Corona
ispanica, e prima di un sognatore anarco-libertario statunitense, un Ingroia. I
gusti sono gusti. Anche i tempi.
Nella sua scrittura
torrenziale, Busi passa con naturalezza dello “specialista di Barcellona” (che
è un professore universitario specialista di madrigali portoghesi, di una
sessantina d’anni, che l’autore disprezzava e ne era incomprensibilmente, dice,
ricambiato, in procinto di sposarsi con un giovanotto di 28 perché questi
potesse subentragli, un giorno, nel vantaggioso contratto d’affitto
dell’alloggio dove convivevano da sei anni) all’arte di pisciare per strada,
nei giardino, contro od in prossimità degli alberi.
Sì, Busi decide,
alla fine, masochisticamente di andare ad alloggiare da questi e convivente,
anziché in albergo, per quel suo soggiorno a Barcellona. Gli costa ben di più,
ma ciò è quello il Busi vuol fare e fa, far loro la domestica, la
domestica-mamma ed a proprie spese ovviamente, visto che i padroni di casa sono
piuttosto esigenti oltre che dei perfetti pezzi di merda. Dovrebbe essere una
caldissima primavera del 2010, se sono riuscito a districarmi nelle sue
tutt’altro che lineari torrenziali e divertenti elucubrazioni. La data non è
comunque importante. Siamo ai giorni nostri, non decenni o secoli fa.
Scene da un
matrimonio tra il suo specialista e la moglie anch’essa professore, anzi
professora, d’università, di matematica, d’una decina d’anni più di lui. Lui
che si scopre, o forse solo si disvela, gay e lei che non vuole il divorzio ma
solo un appartamento più grande perché lì lui possa gayeggiare nella casa
comune, coi due figli. Poi, accettato il divorzio, lei si procura uno ricchissimo
di una ventina d’anni più vecchio di lei. Beh, le donne cercano la sicurezza,
per quanto non è affatto detto che pure lo spirito maschile la disdegni.
All’Especialista e famiglia aggiunge, come
ulteriore protagonista del suo scritto, una vicina di casa, Hada Espejismo, la Fata della candeggina, con cui lui,
l’autore, fraternizza. Tra donne... Anzi, tra donne ed aspiranti donne, come
Busi si presenta nella sua relazione con la vicina di casa dell’Especialista.
E ci si trova in
un’altra opera sociologico-filosofica dell’autore che fa costantemente lezione
sul suo modo di vedere le cose, con la trama solo come pretesto per tali
disquisizioni.
Stile eccessivo?!
Quando l’autore fa un po’ il gradasso e lo fa vedere, è facile definire uno
stile come eccessivo.
Più che aforismi e
battute, per quanto abbondino, il suo è uno stile torrentizio senza l’italiano
da maestrine ma, al contrario, sufficientemente libero come si confà a tal modo
di scrivere. Beh, uno potrebbe scrivere denso pure secondi i canoni della
grammatica e della sintassi. È questione di esserne capaci e di volerlo. Spesso
si fa di necessità virtù. Quando uno si è fatto un nome, dunque è entrato od è
stato fatto entrare nei giri commerciali, poi gli incensatori di vocazione o
per interesse compaiono come i funghi dopo la pioggia.
Il presente
compulsivo della scrittura?! Beh, lo stile torrentizio tende ad essere
presente, visto che ti scorre impetuoso sotto il naso, qualunque siano i tempi
dei verbi.
Fondazione del
punto di vista?! Perché, il punto di vista, necessita di essere fondato?
Scheletri luminosi
del metalinguaggio? Metalinguaggio o proprio linguaggio come linguaggio oggetto
definito attraverso la supposizione di una lingua italiana come metalinguaggio?
Od il proprio linguaggio come metalinguaggio avente come linguaggio oggetto la
propria visione del mondo? O, più banalmente, uno stile espositivo
sufficientemente libero senza attenersi ai formalismi della lingua. Ciò che
rende il tutto sia più ostico che più denso, o più denso ma meno scorrevole se
non abbandonandosi ad una lettura torrentizia senza porsi troppi problemi di
comprensione razionale nutrendosi invece dei suoni che si creano nella proprie
mente che scorre le parole e le frasi del testo.
Lo stile messo in
esercizio, o lo scrivente o scrittore che si diverte, sembra, con le stesse
ambiguità escono dallo scrivere? Ma anche l’affermazione di un linguaggio
espositivo costruito con parole ed espressioni che si sovrappongono e cozzano
tra di loro, che non si riesce a superare o semplicemente non lo si vuole, non
lo si vuole nel senso che proprio non l’autore non ci prova, non ci vuole
provare o non riesce.
Alterità
linguistica?! Giochetti di parole, battute, trasformati in letteratura. In
effetti sono letteratura, essi stessi quando fatti testo scritto. Cosa è altro
e cosa è identico quando si scrive? Quali linguaggi sono identici e quali
altri?
Il ludo verbale?! È
che magari non sa scrivere in altro modo. Si può fingere diletto perché manca
la policromicità espressiva di un vero scrittore, sempre che esistano i “veri
scrittori”. In Busi, l’immaturità espressiva è evidente. Non è costruita, come
lo sarebbe in un “vero scrittore”. Ma alla fine uno scrive come sa, e viene
apprezzato o meno su questa base, per quanto l’industria culturale segua
proprie logiche ed imponga gli autori.
Realtà manipolate?!
È la logica della scrittura crearsi le realtà si desiderano o si desidera
rappresentare. La scrittura, come qualunque linguaggio, è manipolazione. Fa
esistere quel che vuole per il solo fatto di raccontarlo, di dirlo.
Sociologo e
filosofo ma non scrittore?! Quale è poi la differenza, salvo forzare le
conoscenze nei cunicoli ristretti delle discipline formalizzate?
Modo di scrivere
manierato?! Forse è l’autore ad esserlo, per cui si limita ad esprimere sé
stesso con naturalezza.
Pagliaccio
delirante ed arrogante?! Che scrittore ‘serio’ non lo è?
Busi, A., El especialista de Barcelona, Dalai Editore, Milano, Italy, 2012.