Letter from Lhasa, number 319. Le boiate della Turchetto
by Roberto Abraham Scaruffi
Non che l’autrice
si distingua dalla vulgata marxista solita. Ci è capitata. Ve ne sono a
centinaia così.
Non abbiamo nulla
contro Karl Marx, personalità complessa ed autore variegato, di cui qui non
discuteremo realmente. Coloro che hanno usato il suo nome con -ismo, sono
quello che sono e per fini che sono quelli che sono. Partiti e sindacati di
parastato e di Stati, sovversioni di potere, Stati etc ne hanno usato
l’etichetta, spesso con contenuti radicalmente differenti tra di loro, per
ragioni di marketing.
“Che cosa significa
“scienza della storia”?” La Turchetto si muove in maniera catechistica e la
risolve con “una teoria materialista della storia” per individuare “come
oggetto della storia le “formazioni sociali”: ossia insiemi di relazioni
sociali relativamente stabili (capaci di auto-riprodursi) strutturate “in
ultima istanza” a partire dai “rapporti di produzione”, cioè da quelle
relazioni sociali che si instaurano nel ricambio organico con la natura.”
La cosa non si
ferma qui. Con un netto salto logico, “la storia” diviene, per la Turchetto,
non differentemente dalla scolastica cosiddetta ‘marxista’, “una storia dei
rapporti sociali conflittuali”, ““storia di lotte di classe””.
Se fosse storia
dovrebbe includere tutto, non darsi il programma di scovare e rappresentare le
“lotte di classe” che, ovviamente, possono esserci come non esserci. Od anche
assunte sempre, possono pur essere o non visibili, o non deducibili, o non
rappresentabili. Diviene il gioco dei cappelli, indossare il cappello
materialista e rinvenire sempre lotte di classe, ed indossare il cappello
non-materialista e rifiutare aprioristicamente qualunque lotta o conflitto di
classe o categoria. Ovviamente, sia coprirsi dietro alle lotte di classe od
inventarsele, che negarle e cercare altro o solo altro, apre la via alla storia
favoletta di parte o di partito. In realtà, qualunque limitazione della ricerca
storica al servizio di storielle opportune od opportuniste conduce a
rappresentazioni del tutto fantasiose e di convenienza.
Invero, nella
visione della storia come lotta, non è affatto detto che al ‘conflitto’
dialettico-teorico debba poi corrispondere una lotta di una classe contro
un’altra. Lo stesso conflitto non è affatto necessario, indispensabile, perché
vi sia combinazione di fattori produttivi e produzione. Un’opposizione o
differenza concettuale non è detto sia conflitto o conduca a conflitti. Gli
stessi conflitti od attriti sono fattori di aggiustamento o di rottura per
generare altre combinazioni. Le propagande sul punto hanno fatto dare per
scontato cose che non lo sono per nulla quando si esca dalla formuletta
ripetuta ed inculcata.
L’
auto-organizzazione di sistemi caotici, per esempio, rappresenta la realtà
meglio di una aprioristica assunzione di lotte di classe. Ad ogni modo,
qualunque l’assunto, forse decisamente meglio non assumere nulla, la
rappresentazione storica dovrebbe fondarsi su tutto quel che si scopre, che può
tranquillamente contraddire eventuali aspettative.
In una officina,
anche grande, gli uffici non sono differenti, la maggior parte dei soggetti
della classe salariata andrà tranquillamente a fare lecchinaggio relativamente
alle impersonificazioni della parte padronale, sempre che altri non appaiano
più forti, e di certo lo appariranno se sostenuti, magari sotterraneamente o
mediatamente, dal padrone fingono di avversare. A quel punto, il lecchino, ed
il leccato, lo farà il sindacalista od altro intermediario.
La storia reale
delle organizzazioni ‘proletarie’ è molto meno fantasiosa della favoletta dei
proletari che si organizzano per opporsi alla classe od alle classi
suppostamente avverse. Nella storia reale, lo Stato, “la polizia”,
eventualmente pure quella di Stati avversi o meno, crea organizzazioni operaie
contro “i capitalisti”. Sono meccanismi di controllo sociale e statuale. È il divide
et impera di chi abbia il potere reale. Certo, anche lo Stato di classe si
autonomizza dalla classe dominante rappresenta, od almeno dai singoli
componenti di essa. Lo Stato è di classe proprio perché va oltre gli interessi
immediati se lo comprano, ma fino ad un certo, seppur spesso grande, punto.
Gli esecutori
burocratici interagiscono sempre in qualche modo con chi li comandi. Il servo
dipende dal padrone. Ma anche il padrone dipende dal servo, dall’esecutore,
tanto più esso lo serva. È per questo che corpi militari o con poteri speciali
possano divenire più forti chi, civile, li comandi. Oppure no, se un cassiere
esterno possa annichilirli non pagandoli. La proliferazione burocratica
relativizza molto di quel si possa dire a livello teorico di cosa sia uno
Stato. O si ricostruiscono e seguono le catene di comando, e come il comando
sia eseguito, o si fantastica su cose immaginarie. Se non esistono forti
oligarchie interne o padroni esteri che guidano uno Stato, esso vive di forze e
debolezze proprie, essenzialmente burocratiche, magari avvitandosi verso
l’autodistruzione.
È vero che lo Stato
sia, nella sua essenza, una banda di soggetti armati. È meno semplice definire
chi e cosa serva, o se serva solo sé stesso. Solo con analisi specifiche lo si
può definire.
Per esempio,
l’attuale crisi fiscale dei molti Stati sviluppati riflette eccessi
rilevantissimi di proliferazione burocratica e macchine statuali fuori controllo.
Non è tanto che lo Stato spenda troppo ma che spende soprattutto per sé stesso.
E quando si tenta di tagliare costi, sono di fatto le stesse burocrazie
pubbliche che tagliano flussi ad altri ma non costi propri. Alla fine non si
taglia nulla a livello di uscite complessive ma solo a livello di servizi resi.
Che tali macchine statuali possano essere davvero funzionali alle classi
suppostamente dominanti è davvero un assunto arduo. Nel contempo,
generalizzazioni eccessive sono del tutto fuori luogo, perché per esempio il
Regno Unito sembra godere della sua solita flessibilità burocratica per cui è
capace di liquidare fette di burocrazie. Licenzia. Gli Stati Uniti, dove lo
Stato sembra in espansione, fanno pagare loro costi ad altri mentre altri pagano
costi altrui. Altri ancora, come i tedeschi, usano la crisi fiscale per
aumentare la propria egemonia sulla Grande Germania, alias la UE,
soprattutto la UE-euro. Inoltre, una cosa sono macchine burocratiche costose ma
di una qualche efficienza nel senso che rendono i servizi sono state create per
produrre, altra sono macchine burocratiche all’italiota dove i costi aumentano
pur con i servizi, già scarni e scarsi, tagliati ulteriormente. Tali Stati, o
molti di essi, servono realmente supposte loro classi dominanti o loro
rilevanti classi dominanti sono loro stesse caste burocratiche?
Assumere una
filosofia della storia, e pure di partito, è la negazione dell’analisi onesta e
dettagliata degli eventi. Si tenderà a cercare di far vivere la propria visione
dunque addomesticando la realtà che si rappresenta. Si rappresenterà solo
quello che è funzionale alla propria filosofia della storia. Un metodo
scientifico è altro, per quanto tutti i metodi siano forieri di trappole
euristiche.
Il proletario,
tanto più è tale, tanto più obbedisce al potere. Esiste solo nelle fantasie
interessate che tanto più vi sia oppressione tanto più vi sia rivolta. La
rivolta inizia quando vi sia una qualche eccedenza di tempo e di denaro. Chi
non abbia il sufficiente per vivere non è affatto detto che si rivolti, o se lo
fa lo fa individualmente come delinquere et similia. È quando si abbia
una qualche eccedenza che sorge il desiderio di avere ancora di più o magari
tutto. Non a caso, definito il proletariato teorico, Marx quello reale non lo
trova pressoché in nessun luogo. Tra aristocrazia operaia e sotto-proletariato,
il proletario perfetto (quello che non abbia né più né meno dell’altro
proletario ‘perfetto’) sfugge e gli sfugge. Engels invece se lo immagina e si
convince di averlo trovato, nella sua visione idealistica della storia.
Capitale e lavoro
si combinano e reificano nel prodotto. Se c’è lotta non c’è prodotto. Il
prodotto è la reificazione della cooperazione. Se lotte vi sono, vi sono al di
fuori del processo produttivo. Possono verificarsi prima e dopo, od
interromperlo, intervallarlo. Ma senza cooperazione non v’è prodotto.
Il plusvalore è
immanente, nella storia universale. Se si produce meno delle energie immesse
nella produzione, meglio far nulla. Solo producendo di più si riproducono sia
lavoro che capitale e si ha un qualche margine di sicurezza. Non solo. La
riproduzione diviene allargata, per cui si ha sviluppo. Se il proletario deve
almeno riprodursi come tale, pure il capitale lo deve. Tra l’altro, con la
teoria e la realtà del lavoro composto (e retribuito come tale), ecco spiegate
materialisticamente pure le differenziazioni dello stesso proletariato. Non è
solo il proletariato ad essere differenziato. Neppure i capitali sono tutti
identici quando si passi dall’astrazione monetaria all’investimento
concreto.
Cosa siano “le
classi” non è cosa per nulla assodata, quando si passi dalle generalizzazioni e
semplificazioni, o complessificazioni, teoriche alla materialità e varietà, o a
volte semplicità, della realtà. Magari facile definirle con una formuletta
teorica, esistono poi nella pratica grandi diversificazioni che dipendono da
tanti fattori che possono determinare livelli di reddito familiare molto
differenti, dunque auto-percezioni ed identificazioni diverse, anche tra
proletari omogenei nel momento del lavoro e della retribuzione formali.
Il proletariato
puro lo creano proprio, per via burocratica, gli Stati “proletari”, alias
economie di guerra e casermoni alla sovietica. Creato il proletariato puro,
vari strati burocraticamente regolati, o meno, lo sfruttano e per fini non solo
interni. Ma al di fuori dell’area ‘socialista’, quando esisteva o dove tuttora
esiste, dove sono gruppi di proletari di una qualche omogeneità? Quando poi
esistano ‘socialismi’ alla cubana, con corruzione generalizzata e dove tutti
s’arrangiano, il proletario puro è solo qualche raro fesso.
Nella realtà, le
formazioni economico-sociali teoriche (o suppostamente teoriche), non sono così
nettamente distinte, né si susseguono con linearità temporale, e si trovano in
epoche molto distanti tra loro. Per esempio il rapporto di lavoro salariato, la
combinazione di capitale e lavoro, non è per nulla tipico della sola cosiddetta
“società borghese”, ma è immanente nei millenni ed in differenti aree del
mondo. Lo stesso feudalesimo, una volta definitolo, nessun autore serio è poi
sicuro quando e come, o dove, sia realmente esistito o se magari esista e/o
coesista tuttora.
Quando si parla di
società borghese, si fa una rappresentazione molto europea e molto feudale e
post-feudale di una realtà di progressiva urbanizzazione. “Borghese” deriva da
borgo. La “società borghese” è la società delle città. In realtà, in altre aree
del mondo sono esistite anche in epoche molto anteriori grandi concentrazioni
urbane. Ovviamente la tecnologizzazione dell’agricoltura permette la crescita
delle città e lo spopolamento delle campagne. Vi sono anche fattori
demografici. Per quanto la facilità di comunicazione, dunque di interazione, potrebbe
rifavorire ora la disseminazione della popolazione, che ora non necessariamente
richiede più la concentrazione in grandi borghi/città per stare assieme e per
interagire produttivamente e socialmente.
La concentrazione
virtuale, di comunicazione, rende in parte inutile la concentrazione fisica,
per quanto, ovviamente, le grandi e grandissime città continueranno ad esistere
se non altro per i “costi di aggiustamento”, i costi di uscita e
movimento/variazione dalla situazione attuale, e per fattori demografici.
Inoltre, settori che funzionano per prossimità comunicativa continuano a
coesistere con attività dove la prossimità fisica è necessaria ed
indispensabile.
E se si fosse
sempre riprodotta la stessa “formazione sociale” con solo evoluzioni e salti
tecnologici? I rapporti di dominazione tra individui sono grandemente cambiati
nei millenni, idealizzazioni engelsiane a parte? Engels, da committente dello,
e forse intermediario di altri interessi con lo, studioso Karl, quando voleva
farsi teorico non è che necessariamente eccellesse. Il comunismo primitivo se
lo inventa, come una grande castronata che non regge a nessun esame storico,
psicologico e logico.
Marx è uno che
tenta, prova, sperimenta, studia, revisiona, le spara (quando le spara) prima
in un senso e poi in uno del tutto differente. Marx distingue tra le sparate di
scritti propagandistici e scienza, ricerca, riflessione. Engels è il
catechista. Ha una missione, sua o con altri. Non con Marx che è da lui messo
sotto, a salario, a fare il topo da biblioteca per dar copertura teorica alla
militarizzazione del proletariato. Engels ha sue patologie che lo mettono a
disagio di fronte al suo mestiere di industriale dunque di sfruttatore di
operai. Come tutti i filantropi, sogna altre caserme per l’oggetto dei suoi
sogni filantropici.
Quanto alla “lotta
di classe”, per esempio i sindacati, o simili, nascono come irreggimentazione
promossa, e/o rapidamente fatta propria, dalla stessa classe suppostamente
avversa, la capitalistica o borghese, o dallo stesso suo Stato. Gli stessi
partiti ‘proletari’ hanno tutt’altra classe dirigente ed ispirazione. Il
marchio ‘proletario’ o ‘operaio’ è imposto e venduto. Vendono il paradiso
futuro per rendere sopportabile l’oppressione presente. O vendono servizi, o miti
interni ed esteri. Il Comintern vende l’URSS. Altri centri lo copieranno,
magari in piccolo.
Le ideologie
“proletarie” sono invenzioni, imposizioni sul proletariato. Sono ideologie
militaristiche, di irreggimentazione, propinate con la giustificazione di un
benessere futuro, di un futuro che mai s’approssima. Pensate in uffici militari
e/o di altre burocrazie, sono poi appaltate, nella loro elaborazione complessa,
ai numerosi intellettuali, prezzolati o meno, di cui il mercato prolifica in
tutti gli angoli del mondo.
Ovviamente, le
mitologie sono copertura di meccanismi clientelari, di servizi che il cliente
ha o pensa di avere. È per quello che il gruppetto senza potere non recluta
nessuno, o solo transitoriamente, mentre i partiti reclutano. Reclutano in
quanto appendici dello Stato, o di Stati, del potere, o di poteri. Le ideologie
sono immagini inessenziali. Non quando abbiano altri fini ancora, come il
creare e diffondere culture sottosviluppiste. Quello che fece il PCI, su delega
Alleata. In tal caso, l’ideologia è immagine ma anche realtà, a seconda del
perché sia prodotta e da chi.
La prima
“‘rivoluzione’ ‘proletaria’” è un colpo di Stato tedesco per liquidare un
nemico di guerra. Successive evoluzioni portano le Russie a costruire un’economia
di guerra alla fine usata contro la Germania. Un caso di blowback effect.
Un forte ed aggressivo militarismo, pur con forti caratteristiche compradore
(dall’attacco alla Germania – prevenuto di alcuni giorni dal disperato attacco
difensivo tedesco –, chiaramente compradore anglo-americane), che si sviluppa
libero da uno zarismo debole, seppur esso stesso minato ed alla fine distrutto
da una burocrazia elefantiaca ed inefficiente.
Liquidata l‘URSS,
le Russie continuano senza grandi variazioni ma di nuovo con un settore
formalmente privato. Da sovietica, la retorica diviene liberal-democratica. Da
un colpo di Stato di un manipolo di russi al servizio tedesco e con supporto
tedesco, con liquidazione burocratica della proprietà privata d’impresa, i propagandisti
avevano montato la retorica della “rottura rivoluzionaria” e dunque del cambio
di “natura sociale” dello Stato. V’è una banale guerra civile dove i pro
anglo-francesi si scontrano coi pro-tedeschi. I pro-tedeschi vincono. Per la
follia dell’economia di guerra trotzkiana, realizzata da Stalin che liquida
Trotzki ma non il suo folle programma militarista-burocratico Grande Russo, le
Russie necessitano di tecnologie occidentali. Per cui, gli anglo-americani si
reinseriscono nel gioco e si coltivano l’URSS che si presta poi come loro carne
da macello per la guerra in Europa e frigorifero per il post guerra per tenere
sottosviluppata una fetta rilevante del continente. Lo stesso giochetto è
replicato in Asia, con aiuto russo, dove puntando sul maoismo, altra creazione
dell’Intelligence militare, ma qui anglo-americana, per tenere in frigorifero
gran parte del continente per un altro mezzo secolo.
I teorici del salto
rivoluzionario, della rottura rivoluzionaria, per passare da un ordine sociale
ed uno differente, chissà come avranno giustificato che l’URSS ‘involve’ per
dinamiche superiori ed esterne, e per debolezza interna. Nessuno necessita di
massacrare “l’eroico proletariato” per passare dal ‘socialismo’ al
‘capitalismo’! Già che si debba e si possa passare al capitalismo dopo più di
ottant’anni di ‘socialismo’ conclamato come superiore e dunque irreversibile...
‘Rivoluzioni’ e ‘controrivoluzioni’ erano e sono solo etichette mistificatorie
distribuite secondo paradigmi propagandistici per altri usi. Esse non esistono
ma esimono dall’analizzare che cosa sia avvenuto, e ne permettono ricostruzioni
di comodo.
Nelle Russie
sovietiche è successa un’altra cosa. Dall’economia di guerra permanente si
passa a quella non di guerra. Il nuovo ordine permette la proprietà privata
d’impresa, sebbene lo Stato resti onnipotente. La liquidazione dello Stato
militarista divenuto insostenibile, che implode, porta alla liquidazione
dell’Impero Sovietico. Il congelatore si è rotto e la vita riprende all’Est con
la Germania che si riespande in quella direzione.
A vedersi in modo
materialistico, od anche solo non propagandistico, la storia, se ne scoprono
delle belle. Le storielle sul proletariato, non differentemente da quelle sulla
libertà e democrazia, ne hanno coperte di cose!
Purché suonino
bene, basta che le favolette ‘proletarie’ servano la militarizzazione delle
masse. Non si dica che i partiti, sindacati ed altro ‘proletari’ abbiano
funzione differente. O lo si dica, mentendo.
Per quanto esistano
conflitti tra categorie, classi, centri di interesse, rilevantissimi sono
piuttosto i conflitti tra Stati e loro emanazioni. Un’evoluzione e
trasformazione del tribalismo. Lo stesso proletariato è, facilmente o meno,
militarizzato dallo Stato che lo usa per suoi fini a seconda delle
caratteristiche specifiche di una certa entità statuale.
Tutto ciò è molto
materialistico, per quanto negato o giustificato con voli pindarici, o
semplicemente evitando il punto, dagli sloganisti del ‘materialismo’ e della
“lotta di classe”. Devono presentare come alternativo ciò è che tutto interno
al sistema dato e ad esso funzionale. Questioni di marketing politico e
politicantico.
Se si analizzano
materialisticamente le ‘rivoluzioni’, si troveranno facilmente operazioni di
polizie segrete, cioè di entità statuali, interne od esterne, che comprano e
manipolano intellettuali e masse, che a loro volta si fanno facilmente
manipolare da burocrazie alias dal potere o dai poteri, ...o si
auto-manipolano per altri fini che supposti interessi di classe o gruppo.
Meccanismi arrivistici, che sono la stessa negazione della categoria o classe,
vengono creati o si auto-creano come forma di auto-organizzazione delle realtà
più differenti. Sono auto-organizzazioni, sia materiali che di idee, attorno al
potere od ai poteri non contro di esso e di essi. Come se l’opposizione, o
differenziazione, dialettica capitale-lavoro si risolvesse nella loro fruttuosa
combinazione pratica, che è poi quel che succede.
Capitale e lavoro
sono concettualmente distinti. Si combinano per originare prodotti attraverso
processi produttivi. Perché dovrebbe poi generarsi una invidia proletaria che
dia vita ad una irriducibile contrapposizione col fine di appropriarsi, come
classe (senza gerarchie o con nuove differenziazioni di comando dunque
salariali, di reddito?) di ciò che ora è di taluni?
Si rimuovono, dalla
narrazione, altri interessi. Si evitano i
comportamenti concreti dei soggetti del cosiddetto proletariato. Ecco
che si possono confezionare raccontini ‘classisti’. La storiella fa presa, più
o meno, finché non la si metta in discussione nei suoi fondamenti, nelle sue
derivazioni e nella sua praticità od impraticità/impraticabilità. Come tutte le
storielle, la si può blindare con la fede. La fede funziona finché si abbia
l’interesse a credervi. C’è chi si irreggimenta col parroco o pastore, chi col
partito, chi con altri, qualcuno con nessuno.
Alla fin fine,
etichette di rivoluzioni e contro-rivoluzioni, di proletariato e di
non-proletariato, vengono distribuite secondo apparenze ideologiche,
propagandistiche, in realtà secondo convenienze di Stati/governi, senza alcuna
considerazione per analisi materialistiche. Si trovano meno proletari in
movimenti ‘fascisti’ o religiosi o ‘militari’, che in movimenti ‘comunisti’?
Improbabile. Semmai è vero il contrario. Supposte ‘coscienze’ per individuare i
‘buoni’ e liquidare i ‘cattivi’ hanno una qualche base materialistica o siamo a
livello di meccanismi propagandistici usati senza scrupoli da qualunque Polizia
Segreta o non segreta, centro di interessi, agenzia di marketing?
Le risposte sono
ovvie. Interessi mistificatori fanno inventare storie-storielle suadenti quanto
false.
Perché allora
insistere con questa catechistica della “teoria materialista della storia”? Non
stiamo dicendo che una visione materialistica non sia utile e prolifica. È solo
che qui si lancia il materialismo senza usarlo se non come slogan per coprire
altro. Cosa? Si vende come “teoria materialista della storia” una visione del
reale come razionale e pure dell’ideologia come copertura della predefinita
razionalità del reale. Che il reale sia apoditticamente razionale, o razionale
perché esistente, lo si può assumere. Ma allora lo si racconti od analizzi. Le
ideologie di copertura d’esso restano tali. Non sono strumenti euristici. Sono
ideologie, ideologie di copertura.
Sì, il ‘marxismo’
ideologia di copertura del reale è una boiata, a livello euristico. È invece
utilissimo, assieme alle altre ideologie, come appendice ideologica, come
aspetto del marketing, dei meccanismi pratici di dominio. La “scienza della
storia” è cosa nettamente differente dalle storielle di copertura. I o le
Turchetto vendono lo slogan. Sotto o dentro di esso vi è il nulla. Anzi vi è
molto ma solo di inganni. Nulla di materialistico. Nulla di analitico. V’è
propaganda per altri usi.