14 November 2006

Lettera da Lhasa numero 37. La politologia, non la polllitologia, è una scienza esatta. Dopo Prodi, vi sarà un Governo Quirinalizio

Lettera da Lhasa numero 37. La politologia, non la polllitologia, è una scienza esatta. Dopo Prodi, vi sarà un Governo Quirinalizio
by Roberto Scaruffi

La politologia è una scienza esatta, negli elementi di base. Non la polllitologia che è solo vaneggio populista di professori al soldo.

Non che si possa prevedere in dettaglio il futuro. Il problema dei tre corpi esiste pure nelle scienze sociali. A tavolino, non si può prevedere nulla con una qualche reale approssimazione. Tre sole variabili, con tre equazioni dinamiche, sono già un sistema troppo complesso anche in scienze cosiddette esatte. Le variabili della realtà sono sempre ben più di tre.

E, tuttavia, in contesti dati, salvo rotture improvvise ed imprevedibili del contesto, si possono talvolta prevedere con [quasi] assoluta sicurezza alcuni elemento di fondo. Non i burattini del teatrino. Quello e quelli dipendono sempre da elementi casuali.

Lasciamo, appunto, stare il teatrino. Quello di...

La sindrome di Prodi. Per cui gli escrementi sarebbero profumo e pazzi tutti coloro non ne sentono la fragranza. Ecco, l’Unione che doveva stupire gli italiani. Gli esseri umani, e pure gli animali, obbediscono a sollecitazioni elementari. Possono anche non essere d’accordo. Tuttavia se capiscono, o qualche forza irresistibile li domina, si sottomettono. Riforme vere [1], un po’ come le guerre vere churchilliane, che dunque alla fine avvantaggino tutti, possono anche preoccupare qua e là, sul momento, ma non suscitano opposizioni di massa. Al contrario, la debolezza, il non saper che fare, le raffazzonature di raffiche di tasserelle devastanti che un giorno appaiono il giorno dopo scompaiono ma che alla fine restano a grappoli e che prevalgono su ogni dichiarato intento macrocontabile che, ad ogni modo, con burocrazie corrotte ed ingovernabili e con distribuzioni di moltitudini di sussidi vani e fuori controllo, serve solo ad accontentare il blocco della corruzione e parassitismo oligarchico-burocratici, scontenta tutti. Scontenta sia coloro che pagano, scontenta sia, di facciata, la minoranza sul momento guadagna, o crede di guadagnare, che per mascherarsi ed ottenere di più urla nonostante i vantaggi momentanei essa ne ha, o crede di averne. È la solita logica, accentuata col golpismo quirinalizio versione 1992 e post-1992, per cui si sfascia pur di farne profittare minoranze reazionarie “militarmente” e mediaticamente potenti, quelle hanno creato “la sinistra” quirinalizia, pur essendo presenti e ben forti (come potere di ricatto e paralisi) anche nel blocco berlusconiano.

La sindrome di Berlusconi. Per cui, prima, si sono vergognati [2] dell’unica Riforma seriamente modernizzatrice del quinquennio, una splendida Costituzione inglese, perdendo lo stesso (seppur di pochissimo) le elezioni politiche, pur con una pseudo-sinistra “Unionista” che, con un vero fronte anche solo moderatamente modernizzatore, pur nella decadente e perduta Italia, non sarebbe mai andata oltre un naturale bacino di corruzione e parassitismo oligarchico-burocratici di 1/3 dell’elettorato. Poi, hanno perso il referendum per la Riforma Costituzionale, come già negli accordi Quirinalizi: “Ve la facciamo fare, tanto, poi, noi e voi stessi l’affossiamo al Referendum con la balla della “devoluzione” [che nella Riforma Costituzionale non c’era; c’era già, prolissa e sgangherata, nella vecchia Costituzione ed è ora restata].” Infine, ora, tenendo in piedi il carrozzone raccogliticcio della “destra”, che tanto si sfascia da solo e così pure in malo modo, puntellano quello squinternato, altrimenti nato già squagliato, della “sinistra” della corruzione e parassitismo oligarchico-burocratici con cupola reale nei poteri oscurantistico-reazionari e cupola formale-istituzionale nel Quirinale. Ed, intanto, sognano, a seconda degli umori dell’ora, rielezioni subito, spallate, dissolvimenti per riassemblamenti, senza andare allo scontro frontale con chi, da Capaci in poi crea Presidenze delle Rapubblica e del CSM, Presidenze del Consiglio dei Ministri e Governi, Parlamenti, Governi, loro paralisi, loro affondamento: il Quirinale con relativo blocco d’interessi.

La sindrome [“D’Alema”-“Ferrara”] del tessitore racchiude invece tutto il compradorismo e l’insussistenza italiotici. Pranzi, cene, accordi, conferenze ed altri vaniloqui. È un modo per non decidere. Di certo, per non decidere nulla in modo efficiente ed in direzione modernizzatrice dunque di benessere collettivo ed individuale. Lo fanno in politica estera come in politica interna. Quando poi, qualcuno, alla fine, al di fuori di loro, decide, i tessitori sperano di ricevere ex-post qualche briciola per il loro inutile “tessere” precedente, venduto sul teatrino della “politica” come lungimiranza e preparazione del radioso futuro finalmente realizzatosi. Lo fanno dall’Afganistan alle cose romaniane...

Veniamo agli elementi strutturali che rendono facile, esatto, sapere che governo vi sarà dopo il Prodi-II.

Lo schema è quello del 1994. Sebbene, esso abbia funzionato, poi, anche nel 1998, abilmente mascherato dalla balla delle trame di D’Alema e Marini. Allora, D’Alema, incerto se fosse uno scherzo o peggio [3], lo caricarono frastornato, incredulo, su una macchina per portarlo al Quirinale per essere incoronato Presidente del Consiglio dei Ministri, mentre Marini non divenne Presidente della Repubblica, l’anno dopo, come sarebbe stato nei mai esistiti accordi o complotti. Ah, avranno “complottato”, anche ogni giorno, che fanno sennò a Roma?!, ma l’affondamento del Prodi-I fu opera del Quirinale e dei Torinesi. Grande Monarca l’ora scomparso Gianni Agnelli, e grande finanziere l’egualmente poi mancato Enrico Cuccia, espertissimi nell’arte dei colpi secchi e della dissimulazione! Prodi, nonostante la solerzia mise nella missione lui affidata, non fu bravo a eseguire l’ordine di restare fuori dall’euro, visto che poi si fu obbligati ed entrarvi. Grazie al loro controllo dei media, lo montarono come Mister eroe dell’euro e poi l’affondarono dicendo e dicendogli, pietosi, che non potevano vederlo soffrire per l’imminente aggressione a Belgrado cui, su imposizione USA e londinese, si doveva partecipare. Le decisioni prese a Londra ed imposte a Roma [o, prima, a Firenze, e, prima ancora, Torino] sono la regola delle istituzione italiche [ed immediatamente pre-italiche] dai dintorni del 1860. Che Prodi non avesse la faccia per l'operazione Kosovo sembra naturale, tanto l’è stato unanimente suggerito, sebbene non si capisca perchémmai non potesse averla. Potere delle propagande!

Lo schema è quello del 1994, quando il terzo governo consecutivo del golpe quirinalizio era ormai da crearsi alla luce dei risultati elettorali precisi che dovevano comunque essere all’interno dell’universo prefigurato coi partiti e fasci promossi tramite l’azione di talune procure. Senonché tutto fu inceppato da quel Berlusconi (in realtà da chi lo votò) pur subito messo sotto inchiesta a Milano e Palermo e, dunque, subito diffamato e calunniato internamente e internazionalemente per quel che si sa e come si sa. È allora che i servizi di propaganda quirinalizi e para-quirinalizi s’inventaroro il bi-polarismo. Per cui, lo schema 1994 s’è stabilizzato nell’arte della demolizione ed asservimento quirinalizio del governo è stato fatto credere agli elettori siano stati loro stessi, direttamente, ad avere eletto.

Vediamo come lo schema 1994 proceda.

Primo, i poteri reali devono fare i conti con la fandonia dell’elezione diretta del “premier”. Elezione diretta che non esiste, come neppure esiste un Premier inglese, sebbene abbiano ficcato nella testa dell’elettore esista. Per cui il Quirinale ed il blocco sociale esso rappresenta devono demolire il Presidente del Consiglio dei Ministri “eletto”. Il messagio subliminale agli elettori deve essere: “Avete scelto voi ed avete scelto male. Ora, il Monarca del Quirinale, ed i poteri buoni lo sostengono, si vedono obbligati a rimediare ai danni Voi combinate quando decidete male.” Prodi, davvero stupendo tutti, ci sta mettendo in abbondanza del suo. Non è detto cada domani. Alla fine, le stesse burocrazie Quirinalizie sono così profondamente italiotiche che i tempi degli eventi dipendono poi dal caso, sebbene il caso lo si possa agevolare o meno suggerendo a Senatori e Deputati di mancare o meno nei momenti fatidici. In un contesto trasformistico, dunque manovrato da taluni poteri ed istituzioni, seguire “consigli” agevolino eventi “inevitabili” può sempre rivelarsi soggettivamente proficuo. Tuttavia, Prodi, fingendo d’esaltarsi per “Grandi Disegni” che s’immagina solo lui, o che, con dolo, crede di dare a bere “alle masse”, sebbene lui stesso non sappia quali siano, mentre c’è solo una corsa arraffata alla predazione nelle tasche collettive ed individuali, sta davvero screditandosi a ritmi esponenziali, e con sé tutti quelli l’hanno appoggiato, senza davvero bisogno altri facciano nulla per screditarlo ulteriormente. Perfino profittatori usano i loro media per tentare di metterlo in buona luce, si stanno solo screditano loro stessi senza portare beneficio al loro pupo.

Del resto, il personaggio è quello che è e non è cambiato. Chi l’ha votato ne conosceva le virtù. Prodi è un giurista scaltro, esperto in trucchetti legali e contabili per accentrare nelle sue mani poteri decisionali e soldi che poi usa essenzialmente per beneficiare grandemente, seppur distruttivamente per l’Italia, chi dopo gli dia sostegno mediatico per ulteriori passi avanti nella sua carriera pubblica. La routine prodara, da Prodi oggi riproposta, si scontra tuttavia con una realtà soggettiva dello stesso Prodi che a questo punto non ha nessun altro passo avanti da fare, né cui media amici possano aiutarlo a fare. Sta distruggendo tutto il possibile, distruggendo pure se stesso e chi avesse avuto illusioni in lui, a parte appunto quel fortissimo 1/3 d’elettorato che, sulla corruzione e la predazione burocratico-oligarchica, tuttora vive nello Stato [detto] Italiano. Del resto il suo blocco di interessi gliel’aveva detto che lui era solo la faccia per le elezioni da essere sostituita poco dopo, in caso di vittoria. Ora, la transizione ad altro nell’ambito dello steso blocco d’interessi predatori, è solo resa più difficile, o, più verosimilmente, del tutto impossible, dalla minioranza risicata ed, ancor più, dalle conseguenze autodistruttive d’un affosso referendario della Riforma Costituzionale “di Berlusconi”, conseguenze che quel blocco non aveva la cultura politico-istituzionale neppure per intuire, tanto meno per prevedere. Al di là delle virtù di Prodi, chiunque, dei tanti anelanti, messo al suo posto, non potrebbe o non avrebbe pututo fare nulla di diverso nel contesto dato. Comunque, è lui ad essere lì... Financo reso soggettivamente forte dal fatto che, dopo di lui, l’ultimo marchio inventato, l‘Unione, è squagliato per sempre pure come finzione per le masse illuse d’avere scelto tra due parti contrapposte.

Nella riprosizione della sua routine predatorio-personalistica, Prodi non s’è curato degli aspetti istituzionali che non capisce, come ne capiscono poco o nulla un po’ tutti i politici italici più rilevanti. Certo, tutti intelligentissimi e geniali. Sebbene sia questione di formazione specifica, non di doti cerebrali personali che non vogliamo minimamente sminuire. L’unica speranza, per un Prodi vanitoso [4], eppur vano, del “Sono vecchio. Ormai ho avuto tutto dalla vita. Voglio fare qualcosa di grande, per cui passare alla storia.” [5], era in realtà la vittoria del SÌ al Referendum Costituzionale sulla Riforma Costituzionale “di Berlusconi”. L’avevo scritto prima di quel referendum. Non era propaganda elettorale o referendaria, cosa di cui non mi occupo né preoccupo. Lo riscrivo ora. L’unica speranza di Prodi di essere Premier, dunque di poter portare avanti sue politiche “grandi”, mai ne avesse avute, non d’essere semplice Presidente impotente di un composito Soviet dei Ministri, dove le minoranze di ricatto possono bloccare qualcunque innovazione ed imporre ogni furia distruttrice [6], era la vittoria del SÌ al Referendum Costituzionale sulla splendida Riforma Costituzionale inglese “di Berlusconi”. Un Prodi che, con svolta improvvisa quanto opportuna, se avesse mai avuto un qualche vero sogno modernizzatore, od anche solo di governare davvero, avesse proposto e dunque imposto il SÌ al referendum Costituzionale di giugno 2006, dunque prodotto la sua vittoria, sarebbe stato un vero Capo del Governo. Tuttavia, i servi non divengono magicamente uomini e donne. Dal momento di quel 61% referendario contro la Riforma Costituzionale inglese, Prodi ha chiuso e, con lui, la “sua” Unione.

Per cui, secondo punto, il Governo Prodi-II [17 maggio 2006..?] e la “sua” Unione sono finiti il 26 giugno 2006, coi risultati di quel Referendum Costituzionale. Quel 61% refendario è una stata una vittoria plebiscitaria del partito del Quirinale che, col suo blocco sociale oscurantista, ne è uscito formalizzato come l’unico governo reale. Da allora, dal 26 giugno 2006, dopo una quarantina di giorni d’esistenza ufficiale, non c’è più alcun Governo Prodi. C’è, certo, formalmente. Nulla più. Sta lì come parodia di Governo, per essere triturato lentamente per il motivo sopra detto [7], sebbene il suo autolesionismo accuratamente e lungamente coltivato lo stia triturando a velocità sostenuta. Avere oggi la Costituzione “di Berlusconi” non avrebbe cambiato nulla dal punto di vista strettamente legale-formale. Tuttavia, con quella Costituzione in vigore, il Quirinale si sarebbe trovato virtualmente ridotto a normale Presidenza formale “notarile”. Tutti avrebbero saputo che le elezioni successive avrebbero visto l’elezione diretta del Premier con una sola Camera politica, maggioranza forte, Governo forte e democratico, Parlamento forte e democratico. Cosa che, di riflesso, avrebbe dato il potere reale, anche ad un Prodi, di governare o di far saltare tutto, magari con nuove elezioni con due partiti [8], elezioni che un tal Prodi che avrebbe potuto vincere da vero Premier sostanziale e formale. Tuttavia, per tali operazioni si deve aver qualcosa da fare, si deve voler fare qualcosa, e si devono, nel caso, capire quei meccanismi istituzionali, cosa che i polllitologi di contorno o non capiscono o sono pagati per far in modo non vengano capiti da masse e vertici. Se, poi, ci si vogliono fare solo fatti propri o di congrega, ci si preoccupa solo dei meccanismi per farseli. Per essi, la Costituzione esistente è perfetta. Non serve ora discutere se anche in questo volersi fare solo i fatti propri o di congrega s’abbia lungimiranza o meno. Alla fine i singoli sono dominati, agiti, da forze sociali superiori, sebbene le stesse forze sociali superiori siano somme, non aritmetiche, di singoli. Sebbene la fiducia del ruolo delle personalità nella storia, su cui tanti hanno scritto, derivi da un illuminismo banale, e sia proposta per le ragioni più diverse, la “storia” deriva da conflitti tra interessi che sono gli stessi singoli assemblati a giocare e vincere o perdere. Nessun conta. Sebbene ciascuno, in inevitabile interazione con altri, conti.

Terzo, dal plebiscito pro-Quirinalizio del 61% Referendario Costituzionale di giugno 2006, dalla triturazione anche di questo governo, dopo già, ognuno in forme appena differenti, tutti gli altri, e da ciò che il fascio populistico dell’Unione rappresentava rispetto al fascio di centro-sinistra [9] para-berlusconiano, discende in modo diretto che il prossimo governo sarà un governo golpista-quirinalizio. Golpista, perché discende dai colpi vengono menati, eversivi rispetto alla Costituzione formalmente esistente, contro un Governo, il Prodi-II, del tutto legittimo. Sulla base della Costituzione, sia formale che reale, caduto tale governo, il Presidente della Repubblica dovrebbe nominare, eventualmente su indicazione del partito parlamentare maggiore [10], un Presidente del Consiglio avesse, in Parlamento, la maggioranza più ampia. Se la maggioranza non c’è, il Presidente ha il dovere, seppur non formale-formale perché in realtà, sulla base delle lettera della Costituzione, può fare quel che vuole, di sciogliere una od entrambe le Camere. Se invece, come già succede, il Quirinale si fa organizzatore politico, ciò è eversivo rispetto al suo ruolo notarile che nella Costituzione è ben chiaro (seppur confuso nella scrittura pasticciata del testo costituzione), oltre che ben conclamato dalla dottrina. Nulla di grave, nessuno farà causa al Quirinale, che secondo banali meccanismi sociologici occupa gli spazi riesce ed occupare ed altri permettono ad esso d’occupare sulla base di rapporti di forza reali: non si confondano valutazioni tecniche nostre con stigmatizzazioni negative o positive che esulano dalle intenzioni di scrive e dalle percezioni del tutto soggettive dei lettori di queste righe. Siccome il Quirinale e relativo blocco oscurantista [11], qualora s’andasse ad elezioni vorrebbero essere sicuri d’avere una loro “solida” maggioranza trasformistico-Quirinalizia [12], è chiaro che, in assenza d’una tale garanzia, risponde a criteri di razionalità o d’economicità si tengano un personale politico con cui hanno ormai una qualche consuetudine anziché correre il rischio inevitabile di altro nuovo e con legittimazione popolare inevitabilmente più fresca.

Dunque, dopo Prodi, sempre che non accada il prodigio che il nulla si autoperpetui a lungo (è così debole che “tutti” posson fare i loro interessi di cosca), non ci saranno né nuove elezioni, né veri governi politici. Quello che valgano i “tecnici” improvvisatisi statisti s’è già visto e lo si vede anche ora, ogni giorno. Anche s’inventassero, come statista, un “tecnico” ora di gran nome e di gran reputazione costruita da media interessati, in poche settimane o mesi le aspettative, ne fossero state create e credute, subito svanirebbero. Le logiche e pratiche predatorie di quel blocco sociale oscurantista-Quirinalizio sono ormai parte del modello sottosviluppista italiotico. Non si pensi neppure che un Presidente della Repubblica di provenienza totalmente diversa dai tre ultimi potrebbe, o avrebbe potuto, davvero cambiare questo stato di cose. Qui non “s’accusa” nessun singolo, come non ne “salva” nessun ipotetico altro. Salvo eccezioni sempre possibili, per quanto improbabili, vale, nelle istituzioni, come in tutte le organizzazioni, la logica dei cappelli di Edward De Bono. Non è l’individuo a fare l’istituzione, una volta essa esista ed abbia sedimentato determinate caratteristiche. Sono le istituzioni ad adattarsi gli individui in essi inseriti ed ad esse preposti. All’individuo entra nell’istituzione viene messo in testa, o si trova comunque in testa, nel più profondo del cranio, un cappello, una forma mentis et cordis, o una forma mentis e comportamentale, cui è l’individuo ad adattarsi o che adatta l’individuo a sé. Non è il cappello ad adattarsi. Si può essere brillanti, “creativi”, “alternativi”, “eterodossi”, ma solo all’interno del quadro predeterminato dall’istituzione ed ad essa funzionale. Altrimenti si entra in conflitto con l’istutuzione e, salvo circostanze del tutto improbabili e particolari, è l’individuo ad essere sconfitto. Ve lo ricordate quel Papa che durò solo 33 giorni? ...ecco, sono capaci pure a Roma a fare quelle cose, non occorre guardare a Dallas o a Capaci. Esistono organizzazioni ed istituzioni efficienti o con determinate caratteristiche, come e ne esistono altre di mille altre varietà. Ci si inventi, qui, un settimo od un ennesimo ed eterodosso (rispetto ai 6 di De Bono) cappello per una specifica istituzione d’uno Stato perduto e sottosviluppista... Chi occupa una carica istituzionale, calza un cappello. Anzi, più precisamente, come andiamo ora dicendo, è il cappello che adatta a sé l’individuo se lo fa mettere in testa. Non vogliamo neppure “assolvere” il singolo... ...Certo, è sempre l’individuo che sceglie se farsi mettersi il cappello, se andarsene altrove senza o con altri cappelli, oppure se rompere il cappello con tutti i rischi ciò comporta se il cappello si rivelasse indistruttibile.

Non s’è solo visto, e non solo si vede ogni giorno, quel che valgano i “tecnici” improvvisatisi statisti. S’è visto pure quello che valgano, come statisti, sia politici che intelligentissimi e geniali uomini di fiducia di politici quando si trovino in testa il cappello di “uomo del Quirinale”.

Col Quirinale centro d’organizzazione politica ed istituzionale, il Governo non esiste come Governo, così come il Parlamento non esiste come Parlamento. Il potere di sciogliere in toto od in parte il Parlamento, che non a caso la Costituzione “di Berlusconi”, così ferocemente calunniata e disfatta via Referendum Costituzionale confirmativo/cassativo, dava alla Camera e solo ad essa [13], dunque agli eletti diretti dei votanti, è un potere chiave nel quadro esistente. Così come è un potere altrettanto chiave la nomina del Capo del Governo: la Costituzione “di Berlusconi” lo dava agli elettori ed, in subordine, alla maggioranza della Camera da loro [gli elettori] espressa nelle urne e non cambiabile salvo nuove immediate elezioni. Questi due poteri enormi li ha invece, oggi, nel [super-]Presidenzialismo all’italiota, solo il Presidente della Repubblica e del CSM, Presidente non scelto dagli elettori e che resta in carica per ben 7 anni.

Ancora differente, ma non radicalmente rispetto al sistema inglese [che la Costituzione “di Berlusconi” di fatto introduceva in Italia], è il sistema USA dove il Parlamento può rimuovere il Presidente, ma nessuno può sciogliere il Parlamento che viene eletto con elezioni sempre parziali [14] e conformate alla struttura federale eppur centralistica [non confederale] degli USA. Se è il Parlamento ad autosciogliersi, ecco che i deputati [ed altri rappresentanti se esiste un sistema bicamerale, ma la Costituzione “di Berlusconi” sopprimeva il bicameralismo duplicato] ne rispondono subito all’elettore. L’elettore valuta subito la loro scelta di non essersi voluti metter d’accordo e d’aver scelto di cambiare la maggioranza delle elezioni precedenti. Se invece è il Presidente eletto per ben 7 anni dal Parlamento a poter sciogliere il Parlamento a suo assoluto arbitrio [e così è oggi in Italia], egli non risponde a nessuna istanza democratica. Dunque egli risponde, inevitabilmente, alla rete di poteri reali da cui dipende e cui contribuisce: in Italia, del 1992, secondo me, il blocco di Capaci, per esemplificare con un’immagine che ben sintetizza la realtà e le pratiche operative d’un blocco d’interessi.

Di fronte ad un Quirinale che rifiutasse di sciogliere il Parlamento, anche fosse impossibile, e lo si sapesse pure già a priori, formare un governo con regolare fiducia parlamentare, in realtà, sulla base della Costituzione esistente, nulla vieta al Presidente della Repubblica di nominare governi in successione, anche essi fossero uno dopo l’altro non fiduciati da una o da entrambe le Camere. Questo dà al Quirinale, e specificatamente al Presidente della Repubblica un potere enorme che egli può usare per imporre le regole del gioco reali. Di fronte, ad un Presidente che comunque non scioglie le Camere, alla fine maggioranze trasformiste si creano, soprattutto in un contesto già di base trasformistico e fortemente ed a-democraticamente Presidenzialistico come quello italico in particolare dal 1992, quando i partiti del 1943-1945 e della Costituzione del 1948 furono collassati da una burocrazia dello Stato il cui CSM era ed è presieduto dal Presidente della Repubblica stesso.

Al di là di teatrini politici, con relative sindromi dell’uno o dell’altro o dei vani “tessitori”, o di rotture sistemiche d’un qualche tipo sempre imprevedibili, non ci s’aspetti altro, dopo Prodi, o dopo il Prodi-II [potrebbe anche esserci un Prodi-III, Prodi si facesse fidissimo esecutore Quirinalizio], che un Governo del Quirinale con spiccate connotazioni populistiche [15] e diretta espressione della base sociale oscurantista e sottosviluppista cui s’è già accennato e che in Italia tutti ben conoscono, anche se preferiscono fingere di non vederla.

A voler essere normativi, ed al di fuori di logiche all’interno del contesto dato, secessioni territoriali [non etniche!, ...e neppure “nordiche”!, non esistendo un Nord geoeconomico omogeneo] del tutto pacifiche potrebbero essere una scossa salutare anche per chi restasse in quella fallimentare costruzione sottosviluppista che fu il Regno d’Italia, poi Repubblica Italiana, voluta dagli inglesi. Certo, sarebbero più salutari delle secessioni di fatto, da tempo realizzatesi, od in atto, alla napoletana od alla bolzaniana. S’ometta pure questo paragrafo con questa non-conclusione. Non vogliamo dimostrare nessuna soluzione necessaria né consigliabile.
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[1] Ma come fanno a fare Riforme vere, nel senso di benefiche per tutti, dopo che hanno affondato, al referendum di giugno 2006, la splendida Riforma Costituzionale inglese?!
[2] Se veda il silenzio imbarazzato, in campagna elettorale, sulla più straordinaria e positivamente innovativa riforma della scalcagnata storia repubblicana!
[3] Il trauma, profondo e durevole, fu poi presentato dai media come un’“ingessatura” psicologica del politico pur rotto a tutte le esperienze del Palazzo e dei suoi anfratti, oltre che alla politica di strada, di partito e di cooperative.
[4] O sbruffone, se non lo si prende come offesa personale: a noi non interessa mai, in queste cose, parlare d’individui, per cui discorriamo come si trattasse di personaggi storici di millenni fa, indifferenti a quel ne possano dire successori poi discorrano di loro.
[5] “Citazione” del tutto soggettiva mia, nella forma, ma è quel che Prodi ha detto, secondo me, pur, in parte, con parole o costruzioni formalmente differenti. Infatti quel “Farò cose da stupirvi!” era legato a questa impostazione detta seppur, evidentemente, non davvero creduta né vissuta.
[6] È la moda da sempre, dal 1992 in progressione esponenziale, di questo perduto Stato ma non Paese.
[7] Mostrare che la democrazia formale non vale nulla, dunque che il Monarca del Quirinale, col blocco sociale di riferimento e condizonamento, deve supplire ad essa.
[8] La Costituzione “di Berlusconi” era bipartitica, senza bisogno di altre leggi elettorali, che, di per sé, non creano bipartitismi e che, se verrano ora fatte (in Parlamento o con referendum parzialmente abrogativo), pasticceranno solo in direzione sfascista l’esistente, nonostante le solite illusioni, mediaticamente inculcate, di magici toccasana. Il referendum abrogativo annunciato, invero, anche fosse tenuto e vincesse, non cambiarebbe nulla. Se, invece, mettono mano ad una legge elettorale i partiti di questa legislatura, ci s’aspetti di tutto. Sebbene, alla fine, tutto è già disegnato dal regime Costituzionale. Lo ripeto per l’ennesima volta: le leggi elettorali sono irrilevanti. Ciò che conta, anche solo per disegnare il quadro politico, sono gli aspetti istituzionali, il regime Costituzionale e le sue caratteristiche. Sulla base di esso, si procedesse pure per estrazione casuale, invece di tenere elezioni, non cambierebbe poi nulla.
[9] Di fatto, al di là delle etichette di auto-propaganda, Berlusconi e dintorni rappresentano la continuazione, dopo le vicende sfasciste poliziesco-“giudiziarie” del e dal 1992, del centro-sinistra DC-PSI. Quelli che oggi si [auto-]chiamano “centro-sinistra” ne hanno rubato l’etichetta e sono proprio quelli hanno sempre sognato, e poi costruito, dal 1992, con regia poliziesco-“giudiziaria”, fasci populistico-peronisti. Tali sono i oscurantisti dossettiani di Prodi con gli avventurieri stalinisto-togliattiani del già centro del PCI, ora in svolta apertamente sottosviluppista, più ciuffetti d’erba di contorno, tutti spinti su dalle operazioni golpiste delle oligarchie finanziario-parassitarie e delle burocrazie corrotte che da sempre usano quell’area ad esse organica.
[10] Si potrebbe discutere a lungo, senza arrivare a conclusioni decisive su nulla, se esista tale obbligo. Ci limitiano a constatare che, sulla base della Costituzione del 1948, prima che essa, dal 1992, fosse di fatto affondata in modo poliziesco-procuratoriale, cioè in modo golpista, il partito maggiore indicava, sulla base del consenso al suo interno che con gli alleati, chi dovesse essere il Presidente del Consiglio dei Ministri. Macabramente “umoristici” quelli che quella Costituzione ...se la mettono in bella vista senza ben conoscerla, né ricordarsela, in tutti i suoi dettagli e storia.
[11] Quello dello spirito di Capaci di potrebbe dire, si volesse usare un’immagine del tutto spirituale.
[12] Che non significa la vittoria d’uno specifico fronte o fascio o polo, quanto spazio di manovra per questo blocco oscurantista “militarmente” fortissimo seppur fragile e minoritario.
[13] Lasciamo stare, qui, il Senato Federale, in realtà una Camera delle Regioni, con poteri specifici su parte della legislazione ma senza poteri sul Governo, che aveva, nella Costituzione “di Berlusconi”, caratteristiche specifiche sia come elezione che come, eventualmente, suo scioglimento d’autorità.
[14] È tutto elettivo. Ma le elezioni sono sempre parziali. È una logica del provvisorio e del dinamico in politica, anche se esistono deputati e senatori siano tali, a seguito di rielezione, per decenni e decenni.
[15] I monarchi sono sempre “concertatori” e populisti perché ciò li esalta, mentre magari, se il contesto è già deteriorato (e quello italico obiettivamente lo è in tutte le possibili comparazioni internazionali), attorno tutto affonda ma senza che loro mostrino di averne apparenti colpe.

06 November 2006

Lettera da Lhasa numero 36. Trappole della disuguaglianza e politiche dello sviluppo

Lettera da Lhasa numero 36.
Trappole della disuguaglianza e politiche dello sviluppo

by Roberto Scaruffi


Rao V., On "Inequality Traps" and Development Policy, Africa Region Findings, 268, November 2006, The World Bank Group,
http://www.worldbank.org/afr/findings/english/find268.htm
http://www.worldbank.org/afr/findings/english/find268.pdf
Vijayendra Rao

Secondo Rao, le trappole della disuguaglianza consistono in disuguaglianze che si riproducono attraverso le generazioni. Queste trappole della disuguaglianza sono differenti dalla trappola della povertà. Per Rao, se, nella trappola della povertà, il povero resta povero proprio perché è povero, invece, nelle trappole della disuguaglianza, i poveri sono poveri perché i ricchi sono ricchi. Dunque, nelle trappole della disuguaglianza, ricchezza, potere e status sociale interagiscono sia per proteggere il ricco dalla mobilità verso il basso, che il povero dalla mobilità verso l’alto.

Per cui, sono i blocchi alla mobilità sociale che creano sia la povertà cronica che la ricchezza cronica. Inoltre, una società ed un’economia senza mobilità interne sono complessivamente meno ricche, o globalmente più povere e subordinate, nello scenario mondiale. Per cui, tutti sono o più poveri o meno ricchi, sebbene il ricco sia garantito nella sua ricchezza relativa. Ed anche il povero, o l’intermedio, è “garantito” che resterà povero, o in posizione intermedia, salvo farsi largo, in taluni casi, in modo tuttavia non istituzionalizzato: in attività, lavori e “professioni” marginali e, comunque, senza venire realmente accettato nei circoli chiusi del potere e dei poteri.

Rao cita l’esempio delle società patriarcali, in cui le donne si vedono negati i diritti di proprietà e di eredità, così come si trovano in condizioni di ristretta libertà di movimento a seguito di norme sociali che creano spazialità separate per uomini e donne. Ciò riduce le possibilità per le donne, al di fuori del matrimonio, ed aumenta la loro dipendenza dagli uomini, escludendole da ogni decisione rilevante sia in casa che fuori. Nell’ottica ricchezza-povertà, in tali sistemi, gli uomini sono “i ricchi” e le donne “i poveri”. Se tali meccanismi si riproducono di generazione in generazione, ecco creata una trappola della povertà per le donne, trappola della povertà che persiste e si riproduce nel tempo.

Secondo Rao, gli stessi meccanismi si possono creare tra classi ricche e classi povere. Se il lavoratore agricolo di un grande proprietario fondiario resta analfabeta e malnutrito, magari pure indebitato con lo steso proprietario fondiario, è improbabile che egli ed i suoi discendenti possano rompere il ciclo della povertà. La formalizzazione di gruppi dominanti e di gruppi subordinati, eventualmente caratterizzati da appartenze di casta e razziali, con relativi vincoli, rafforza la loro perpetuazione intergenerazionale.

Rao ricorda come le reti sociali cui possono accedere i poveri siano differenti da quelle cui possono accedere i ricchi. Ciò impedisce al povero di uscire dalla povertà, così come mantiene il ricco nella ricchezza. Le connessioni socio-familiari, o l’assenza di connessioni socio-familiari, sono più importanti delle capacità, anche quando capacità riescano a farsi largo all’interno del ciclo della povertà. Ciò vale a livello di formazione scolastico-professionale, come a livello di collocazione lavorativo-professionale. Le connessioni sociali aprono porte e riducono vincoli. L’assenza di connessioni chiude porte ed aumenta i vincoli.

Per cui, scrive Rao, le connessioni rappresentano una forma di capitale che è differentemente distribuito e di cui, quindi, si può usufruire, o meno, differentemente a seconda della propria collocazione socio-familiare. Inoltre, esistono forme di internalizzazione psicologica delle proprie origini sociali. Aspetto che riduce le stesse aspirazioni degli appartenenti alle classi inferiori, mentre mantiene alte le aspirazioni degli appartenenti alle classi superiori.

Rao indica, ma è tautologico, la soluzione, a livello di politiche, di definizione ed attuazione di politiche, innanzitutto nel riconoscimento del relativo depotenziamento dei deboli o subordinati, che conduca nell’inclusione degli stessi deboli e subordinati nella definizione di politiche che creino un’eguaglianza d’azione o d’iniziativa relativamente agli strati superiori. Ciò che Rao chiama partecipazione o iniziative partecipative o “democrazia deliberativa”.

In realtà, l’inclusione del debole nel processo elaborativo e decisionale è la stessa logica dell’azione sindacale. Il sindacalista viene cooptato, in parte, a livello di consumi e d’opportunità dei discendenti, di fatto viene comprato, dalle classi superiori perché loro possano restare superiori attraverso meccanismi di controllo sociale, d’elemosine, per le classi inferiori perché restino inferiori e felici d’esserlo, senza nessuna vera mobilità sociale. La mobilità sociale è la vera rottura della logica di classe trasformata, per esempio grazie ai cosiddetti movimenti socialisti e comunisti creati dallo stesso Capitale più parassitario, in vera e propria logica di casta. I cosiddetti movimenti socialisti e comunisti, ma anche altri, sono stati e sono meccanismi di corruzione materiale, e quello che è ancor peggio, psicologica, dell’oppresso per dare ad esso qualche contentino materiale ed il miraggio d’un paradiso terrestre che mai arriverà. Mentre la vera rivoluzione-disgregazione e cambiamento dello stato di cose presente è far saltare la barriere alla mobilità sociale. Che, tra l’altro, come già detto, aumenta la ricchezza complessiva. Di certo, alla fine, la distribuisce pure più equamente e più paritariamente della logica di casta.

La stessa logica sindacale o parasindacale si crea a livello globale, dove caste superiori di paesi poveri si ergono a paladini del “terzo mondo”. Il problema è la mobilità sociale interna e, connessa, l’assenza di mobilità a livello globale con imperialismi decadenti ed aggressivi che si fanno paladini dell’immobilismo in nome della stabilità, cioà della preservazione del loro dominio, ed in nome della pace, cioé la minaccia di scatenare guerre anche globali se la loro superiorità militare viene messa in discussione ed avviata a superamento. Anche qui, l’innovazione creatrice d’opportunità è la mobilità che crei gerarchie differenti ed aperte, non la cooptazione di caste inferiori servili alla tavola, o nelle cucine, delle caste dominanti.

Che si passi, in tal modo, sia all’interno che a livello globale, a forme differenti di dominio e controllo è del tutto inevitabile. Da non confondersi dominazione e controllo con trappole della disuguaglianza, come Rao fa. Soppressione della disuguaglianza sociale, l’imposizione dell’assoluta eguaglianza tra individui differenti, significherebbe società ed economia stazionarie, sopprimendo pulsioni sia sociali che personali al miglioramento. Di fatto, ci si condannerebbe tutti e ciascuno, al regresso ed alla decadenza. Il problema non sono le disuguaglianze ma l’assenza di mobilità sociale che crea trappole della disuguaglianza. Il problema è la trappola ed il relativo intrappolamento, non le disuguaglianze.

La penisola italica è, per esempio condannata alla decadenza ed alla disgregazione statuale, ormai piuttosto rapide ed evidenti, proprio perché, dalla sua unificazione in singolo Stato, la monarchia piemontese, poi romanizzatasi (o romaneschizzatasi), ed i suoi successori al Quirinale si sono limitati ad assemblare le caste chiuse già esistenti, nelle varie nazioni della penisola, in un fascio autopreservantesi, stato di cose che ormai cozza contro un mondo sempre più mobile, o meno immobile, anche nelle aree tradizionalmente più mummificate. Mentre l’Inghilterra, ed aree limitrofe, ha nei secoli, oltre a dominare il mondo, sopravanzato e dominato la stragrande maggioranza dell’Europa continentale variamente asserragliata nella difesa di caste immobili, proprio perché l’Inghilterra ha sempre goduto di una grande mobilità sociale all’interno d’una struttura di classe apparentemente immutata. La struttura è immutata, non la sua composizione interna ed la conseguente mobilità verso l’alto e verso il basso di singoli da una classe all’altra. Aspetti istituzionali si combinano con mentalità e pratiche diffuse, sia dove vi siano culture della mobilità che dove vi siano culture dell’immobilità sociale.


Rao V., On "Inequality Traps" and Development Policy, Africa Region Findings, 268, November 2006, The World Bank Group,
http://www.worldbank.org/afr/findings/english/find268.htm
Vijayendra Rao