20 October 2007

Lettera da Lhasa numero 88. Taiwan. Taichung. 27 agosto 2007. Studente olandese massacrato senza motivo dalla sicurezza di un pub

Lettera da Lhasa numero 88. Taiwan. Taichung. 27 agosto 2007. Studente olandese massacrato senza motivo dalla sicurezza di un pub
by Roberto Scaruffi

Erano le prime ore del mattino di lunedì 27 agosto 2007, in un pub, un bar, in Tiger City, Taichung. Tiger City non è una città ma semplicemente un grande e sfarzoso centro commerciale in Taichung, Taiwan, in una parte nuova e di lusso ad ovest del centro di Taichung. Nel centro commerciale ed in prossimità vi sono inoltre i ristoranti ed i locali di intrattenimento più vari. Negli orari di apertura è sempre pieno di gente che gironzola anche solo per riempirsi gli occhi di belle cose.

In un pub, un bar, sei guardioni coi bastoni, cioè sei picciotti mafiosi del locale, hanno trascinato fuori Davy, uno studente olandese, sull’1.65, dunque neppure il classico nordico di due metri, e lo hanno massacrato. Gli hanno spappolato organi interni, procurato ferite sul corpo e fratture. Per alimentarlo è stato intubato. L’hanno proprio malridotto.

Poi, per coprirsi, hanno fatto circolare la voce che fosse uno spacciatore. Ma non gli è stata trovata droga. Hanno allora detto che era un drogato. Ma, all’ospedale, non è risultato drogato. Non è risultato neppure ubriaco. Non è che stesse facendo nulla quando è stato prelevato, portato fuori dal locale e massacrato. Era andato a pisciare. Uscito dal gabinetto è stato prelevato, portato fuori e pestato coi bastoni.

La polizia non ha fatto in realtà nessuna indagine. Il proprietario del locale dice che non è successo nulla, che non sa nulla. La polizia, naturalmente, finge di credergli. Un poliziotto che prendesse mai le parti di uno straniero sarebbe liquidato. Tutta Taiwan, come la Cina e la Cine, è sotto il controllo di mafie che sono lo Stato. Loro sono la polizia. Quella ufficiale è la maschera per il mondo con compiti di sicurezza generica e per le cose più piccole e spicciole. A Taiwan, come in tutte le Cine, la polizia è di fatto ausiliaria dei mafiosi e dei loro traffici. Controllano, coi mafiosi, che tutto si svolga con ordine e senza clamori. Arrestano o femano chi interferisca coi traffici mafiosi, oppure intervengono per liti familiari o d’edificio. Il singolo poliziotto non può certo mettersi contro il sistema mafioso. Fosse onesto, non farebbe il poliziotto, non farebbe neppure il cinese o il cinesoide.

Rispetto al fatto dello studente olandese, le registrazioni delle telecamere di sicurezza che a Taiwan sono dappertutto, anche e soprattutto all’interno dei locali commerciali, sono state cancellate intenzionalmente dai proprietari del locale. Per cui, non si può vedere che sia successo, neppure in parte. Evidentemente, non era successo nulla nel locale. Davy avesse mai anche solo infastidito qualcuno o tenuto dei comportamenti anomali, avrebbero almeno lasciato non cancellati fino a quel punto i dischi che registrano le telecamere che sono davvero dappertutto e riprendono davvero tutto e lo mandarlo ad apparecchi di registrazione. Tutto viene sempre registrato e conservato. Invece, Davy è stato cancellato, prima di dare i dischi alla polizia. “La macchina non ha registrato. Non funziona bene.” Naturalmente la polizia ha finto di credere loro.

Il proprietario del locale, che generosità!, s’è offerto, ma solo, ha detto, per il buon nome di Taiwan e della sua tradizione d’amicizia e d’ospitalità, d’offrire 10'000 taibi, 210 euro, per contribuire ai costi alle cure ospedaliere. Non ho idea se siano stati accettati. Non credo, visto che l’olandese aveva annunciato di far causa.

Alla madre, accorsa dall’Olanda per soccorrere il figlio hanno fatto storie per l’estensione del visto. La notizia del pestaggio è stata poi silenziata sui media. A Taiwan, come in tutte le Cine, è tutto strettamente controllato e censurato. Non se ne sa più niente. Potrebbe essere deceduto, restato invalido permanente, essere stato trasportato in Olanda. Si dovrebbe chiedere alla para-Ambasciata sua a Taipei, avessero mai qualche interesse alla cosa.

Interessante l’articolo apparso sul numero di ottobre di +886, una rivista gratuita bilingue su bella carta, con belle foto e dall’apparenza curata. Quando stavo scrivendo queste righe, l’articolo non c’era sul sito [ http://plus886.com/ ]. Vi sarà, forse in futuro. Per cui, può essere possiate trovarlo. Meglio sempre vedersi le cose direttamente.

L’articolo, dedicato più che al fatto ad una sua presentazione tendenzioso-xenofoba, si intitola “collisione di culture”. Uno studente olandese va in un pub di lusso, dunque mafioso, come sono tutti i locali a Taiwan e nelle Cine. Poi va a pisciare. Sei picciotti della “sicurezza” lo prelevano, lo portano fuori, e lo massacrano a bastonate per ammazzarlo. La polizia, la magistratura, i politici del luogo e di Taipei coprono tutto. La “collisione di culture” sembra del tutto unilaterale. Più che di culture sembra la collisione di specie differenti, un umano, forse (non conosco lo studente olandese), aggredito da un’altra specie.

Il tono dell’articolo è leggero e divertito, oltre che costruito sì da far ritenere in colpa l’olandese. Invero, non c’è nulla contro di lui, neppure una sua qualche reazione al pestaggio a bastonate. Non si può neppure pensare che al gabinetto avesse fatto qualche stranezza, visto che hanno cercato di diffondere che nel bar aveva infastidito una ragazza. Avrebbero lasciato il video, invece che cancellarlo, se fosse stato vero. Al gabinetto non ha dunque disturbato nessuno. Magari non v’era nessuno. Sei picciotti del locale l’hanno prelevato fuori dal gabinetto e portato fuori per liquidarlo. Son cose che si fanno perché il padrone te lo ordina. Inutile chiedersi il motivo. C’è il fatto. Nelle Cine non ci sono mai motivi. Ci sono patologie serissime ed incurabili. Tra l’altro, alle prime ore del mattino non ci sono ragazze in giro, tanto meno nei bar, se non ragazze del locale. Che qualcuna non stesse per scappare con lui... Se, mentre massacravano lui fuori, all’interno del locale avessero ammazzato una ragazza, magari una clandestina estera, e poi dissoltole il corpo, nessuno ne saprà mai nulla né nessuno farà mai indagini. Inutile, ad ogni modo, farsi troppe domande. Nelle Cine e Cineserie, non hanno motivi per aggredire ed ammazzare, soprattutto uno straniero. Non che succeda ogni giorno. Formalmente, sono quasi tutti gentilissimi, in apparenza. Sono facce e modi di fare fatti così. Al pollo spesso sorridi prima di fregarlo, aggredirlo, ammazzarlo ed anche, eventualmente, mentre lo freghi, l’aggredisci, l’ammazzi.

Per leggere l’articolo bene si deve avere una qualche conoscenza della psicologia elementare-pavloviana del cinese e cinesoide. Nell’articolo si cita, per esempio, un 28% di un certo sito felice per la notizia del pestaggio dell’olandese, mentre non si cità un 38% (se non ricordo male) di chi se ne vergognava. Si potrebbe pensare che, in fondo, se un 28% era contento dell’azione delinquenziale, un 38% se ne vergognasse. In realtà, un cinese e cinesoide si vergogna che la cosa si sia risaputa. Ecco perché l’estensore dell’articolo ha ritenuto, subliminalmente, di non citare quel 38% di vergognosi. Un 28% era felice e non si verognava a dirlo. Un 38% si vergognava che la “specie” cinese si facesse cattiva fama di fronte a chi, straniero, fosse venuto a conoscenza di quel fatto che veniva pubblicizzato. Non era una vergogna umana. Non si vergognavano del tentato assassinio, e pure bestiale ed immotivato, d’uno straniero, ma che la cosa si fosse risaputa.

Alla fine dell’articolo, ci sono due inviti, due “note”, uno “agli stranieri” da parte di Taiwan ed uno su Taiwan per stranieri. Il secondo invito sarebbe “to Taiwan from foreigners”, ma è, in realtà, egualmente un “consiglio” per stranieri. L’autore si ritiene “Taiwan”, evidentemente. Le due note, sono entrambe rivolte agli stranieri. La prima è che gli “stranieri” “siano più rispettosi della nostra cultura e popolo.” Insomma: non andate nei pub (no, anzi, andateci perché voi “stranieri” siete dei “polli” che loro devono spennare) e non fatevi dunque massacrare da teppaglia mafiosa locale che è in realtà lo Stato. Soprattutto, se vi massacrano deve essere colpa vostra per cui poi evitate di lamentarvi e che si risappia. La seconda nota è egualmente per stranieri: ci sono “mele cattive” ma non giudicateci, dunque non generalizzate. Invero, è proprio “but please don’t judge us as a group.” In effetti, i taiwanesi, come tutti i cinesi e cinesoidi, reagiscono istericamente se critichi, magari a motivo, qualche altro cinese e cinesoide. Si sentono attaccati loro in prima persona. L’altro cinese sono loro. Loro sono l’altro cinese. Infatti, loro non lo fanno mai di fronte a stranieri. Non criticano mai “uno dei loro”. Anzi, usano sempre toni propagandistici su loro cinesi e cinesoidi. Insomma, vai a pisciare, uscito dal gabinetto di un pub ti prelevano e ti massacrano per ammazzarti, la polizia e lo Stato ufficiale li copre, sulla stampa minimizzano la cosa e ridicolizzano e delinquentizzano la vittima e non sono da giudicare come gruppo. In realtà, sono un gruppo così unanime ed unico!

L’articolo, si conclude con un ultimo invito generale, un invito “terra terra” ad andare tutti d’accordo. Sono irritati che il ragazzo olandese abbia pubblicamente manifestato l’intenzione di fare causa al locale ed alla sua teppaglia. Sei picciotti locali col proprietario del pub e, in più, contro uno straniero quasi ammazzato, lui la perde la causa e deve pure pagare i danni a Taiwan e magari pure a chi l’ha massacrato. Può anche darsi, certo, che trovi come giudice uno dei rari umani che forse ci sono pure, rarissime eccezioni, anche nelle Cine e Cineserie. La parola di sette taiwanesi contro un pollo straniero pur quasi ammazzato?! Un giudice che prenda le parti d’uno straniero contro dei taiwanesi che negano?! Impossibile! Così come può essere, per ora non sembra, che la para-Ambasciata olandese faccia della cosa un caso di Stato. In tal caso, forse, farebbero “giustizia”. ...Su ordine superiore. Differentemente, è pressoché impossibile, sebbene le registrazioni delle telecamere cancellate indichino il dolo criminale del pub, e del padrone che ha ordinato ai suoi picciotti d’ammazzare un “pollo straniero”. Ritenevano d’aver finito di spennarlo ...o stava “sottraendo” loro una schiava del locale.

Un umano non si fa problemi a criticare un altro umano di qualunque nazionalità sia né di fronte a chiunque. L’insetto si vive come parte d’un gruppo che non si può mettere mai in discussione e che non si può lasciare. Così si vivono, molti nel mondo. Di certo, nelle Cine e Cineserie, sempre. Li si tratti di conseguenza.

Certo, vi sono pure gli stranieri nelle Cine (dove v’è abbondanza di nord-americani) che nelle discussioni sul caso come in altre occasioni usano concetti “euro-xenofobi” del tipo “siamo ospiti, per cui loro hanno il diritto di farci quel che vogliono; siamo noi che dobbiano renderci graditi e dunque evitarcele”, che tradotto diviene, quando sei sul “tuo” territorio, nella “tua” “patria”: “ora, tu straniero sei a casa mia, devi fare quello che dico io che ho il diritto, ora, di abusarti.” La tolleranza dell’abuso è tipica dell’abusatore che aspetti di poter lui abusare. In effetti, il concetto che all’estero ti possano abusare e tu li possa abusare a casa “tua” è tipicamente sadomaso.

Nessuno è ospite e nessuno è padrone di terre e paesi. Certo esistono nazionalistà formali e passaporti. È forma, per quanto molti se la vivano altrimenti. Al di là di ciò, i diritti sono diritti ed i doveri sono doveri secondo le leggi e le norme, non secondo stravaganze o patologie individuali. Non che i mondi perfetti esistano, spesso neppure un po’. Non esistono, in parte od in gran parte, ed, in certi luoghi, per nulla. Non è un buon motivo per accettare mondi imperfetti. Anche perché i delinquenti e gli insetti temono la pubblicità su ciò realmente e sono e su ciò realmente fanno. Per cui, nulla è inevitabile. Solo quel si accetta in silenzio, mentre non si dovrebbe, lo si fa divenire inevitabile. Poi, succeda quel che deve. Le conseguenze sono sempre imprevedibili. Cedere all’immoralità non rende né più sicuri né più felici. Parliamo di umani. Per altre categorie, varranno altri criteri. Si impari a distinguere, e su basi reali.

08 October 2007

Lettera da Lhasa numero 87. David Howell Petraeus e la post-Vietnam era

Lettera da Lhasa numero 87. David Howell Petraeus e la post-Vietnam era
by Roberto Scaruffi

Petraeus, D. H., The American military and the lessons of Vietnam: a study of military influence and the use of force in the post-Vietnam era (PhD Thesis), Princeton University, 1987
http://www.brianbeutler.com/postvietnameramilitary.pdf
(Petraeus 1987).
David Howell Petraeus


David Howell Petraeus è un generale a quattro stelle e, dal 10 febbraio 2007, comandante di tutte le truppe statunitensi in Iraq. La citata è la sua dissertazione dottorale (PhD) del 1987 in International Relations presso la Woodrow Wilson School of Public and International Affairs della Princeton University.

(Petraeus 1987) analizza l’esperienza del Vietnam col fine di definire consigli generali per direzione politica degli USA rispetto all’uso delle FFAA statunitensi in potenziali situazioni di combattimento. Prima del Vietnam, vi fu, di rilevante, la Corea la cui esperienza è definita da (Petraeus 1987, p. 10) come “frustante”. (Petraeus 1987) non nota che, dopo la guerra mondiale, a direzione politica inglese, un po’ tutte le avventure americane, a parte qualche intervento limitato e, talvolta, forze soverchianti, sono state frustranti per i militari. I disastri si sono susseguiti. Non dovrebbe essere difficile, definire, in prima approssimazione che o qualcosa non funziona a livello di Presidenza, od a livello di militari, o ad entrambi i livelli, oppure vi son altre cause ancora.

L’autore cerca di rompere lo stereotipo del militare aggressivo e del civile incline al non uso od al minor uso della forza, rispetto a situazioni di guerra. Ha di certo ragione. Esperienza, inesperienza, competenza, incompetenza, “responsabilità” politico-elettorale, posizioni burocratiche, interessi connessi ai conflitti, etc. possono giocare nelle direzioni più differenti ed al di là si rivestano funzioni civili o militari, a livello di direzione o decisione od influsso sulle decisioni rispetto a conflitti in corso. È sintomatico che (Petraeus 1987) dedichi grande spazio ad un stereotipo (da romanzo e film forse), tra l’altro pasticciando dal punto di vista teorico e, di conseguenza, di analisi “storica”. Non ha davvero alcun senso mettere assieme, in modo indifferenziato, piccole crisi afferenti la sfera della simbologia politica e del messaggio da lanciare al “nemico”, e operazioni più vaste che, implicando considerevoli commesse militari ed operazioni geopolitiche (sempre che la geopolitica esista e non sia una costruzione dell’immaginario per mentire perfino a sé stessi con la copertura d’una pseudoscienza) e geoeconomiche, non sono riducibili ad interazioni personal-istituzionali in unità di crisi o comitati del Presidente. Inoltre, se piccole rappresaglie locali sono operazioni puramente tecniche a seguito di valutazioni politiche del Presidente e della Presidenza, interventi più ampi senza dottrine politico-militari da parte degli stessi militari sul che fare per eseguire ordini politici di Presidenti e Presidenze denota, da parte dei militari, un modo di obbedire in realtà non obbedendo e spiega i disastri successivi in tutte le operazioni di una qualche ampiezza, a meno che la funzione non fosse solo destabilizzare aree o qualche necessità pubblicitaria di Presidenti. O i militari non sapevano e non sanno che fare dal punto di vista politico-militare o quello che hanno fatto e fanno credendo di sapere che fare non ha funzionato né, magari, poteva funzionare. Dunque, non potevano né possono neppure prospettare al Presidente i problemi di interventi da costui ordinati. Le FFAA statunitensi hanno studi su tutto. Evidentemente, non li usano. Per cui, nella definizione di operazioni, usano procedure strettamente militari che in situazioni complesse non funzionano e, probabilmente, nelle stesse operazioni strettamente militari, alla vastità e sofisticazione degli armamenti non corrisponde la capacità di usarli rapportati alle situazioni devono fronteggiare.

Acutamente (Petraeus 1987, p. 12) definisce avere un’importante influenza sullo statista la percezione della storia passata, dunque non tanto le “lezioni della storia” quanto piuttosto (espando ora io liberamente, ma non credo arbitrariamente, il suo accenno) gli stereotipi diffusi sì da poter giustificare e, magari, autogiustificarsi decisioni hanno sempre ragioni contingenti, soprattutto negli USA, o che sono comunque risultante di influenze premono sui decisori politici. Pesa dunque una storia come stereotipo, o come scusa, non una storia come leggi immanenti che possono essere inferite studiando storia e societa, anche se poi tutto è nuovo ...pur non essendolo mai del tutto. Chessò, se demolisci uno Stato iracheno centrato sulla mini-nazionalità di al-Bu Nasir, non puoi immaginare, sempre che si volesse davvero ricostruire uno Stato iracheno, di reclutare per pubblico concorso poliziotti e militari che per prodigio saranno, o saranno fatti divenire, asettici funzionari weberiani nell’Iraq a maggioranza sciita. Certo, con gli stereotipi ci si può creare, nell’immaginario, ciò che si crede e lo si può far credere a tutti od a molti, almeno a chi non sia dominato da altri stereotipi pregiudizialmente differenti. Poi, nella realtà, ciò che si dice funzionerà non funziona neppure un po’ e non se ne capisce il perché. Tali policy-makers si riducono allora al solito strazio: “Portiamo loro la libertà, perché ci odiano?” A volte può essere per debolezza. Spesso è, innanzitutto, perché non si ha alcuna idea che si fare e dunque non si sa neppure vagamente che si stia facendo, pur agitandosi per dirsi che si sta agendo con cacce infinite ed includenti al “terrorista”.

Non a caso, (Petraeus 1987, p. 13-18) si diffonde subito dopo in qualche riflessione sull’importanza della percezione e delle esperienze individuali, da cui si può inferire come percezione e fissazione sulla propria esperienza non siano grandi criteri per decisioni funzionino. Ad un policy-maker occorrerebbe ben altro.

Secondo (Petraeus 1987, 18-19), il decision-maker, nel crisis decision-making, si basa sulla sua esperienza passata. Ciò, per (Petraeus 1987, 20) è più importante di routines e procedure predefinite. In effetti, il poter pensare e decidere liberi da procedure organizzative predefinite sarebbe positivo se non si risolvesse nel banale basarsi su propri pregiudizi ed idiosincrasie come succede se si confida nella propria esperienza precedente. I sistemi scolastici formano “pensatori” indottrinati, dunque stereotipati, che conducono ai disastri più vari senza sapere neppure quali siano i fini veri vogliano perseguire creando od intervenendo in crisi. Il quadro è, dunque, quello di decision-makers del tutto inetti in un mondo malato. Lo stesso apprendimento organizzativo [da parte dell’organizzazione] si risolve facilmente, in tale contesto, come la preoccupazione del singolo ad avere comunque ragione nel contesto organizzativo dato, come sembra suggerire lo stesso (Petraeus 1987, p. 22-23), che è poi decisivo per le carriere personali. Il singolo ha carriere luminose e successi non perché le sue decisioni siano di successo rispetto alla realtà ma perché non hanno contraddetto, anzi hanno preservato e consolidato, l’organizzazione (la burocrazia) d’appartenenza. In (Petraeus 1987) seguono vari casi, vari esempi di quanto da lui suggerito, sebbene resti aperta la questione se la risposta a crisi sia stata determinata da ciò pubblicamente, od anche in circoli ristretti, sia stato dichiarato essere stata “l’analisi”. Ciò che l’elettore penserà, e ciò che il tale centro l’interesse affaristico o burocratico vorrebbe per perseguire propri interessi, è in genere ciò che determina “l’analisi” della situazione e la definizione della risposta. Lui stesso parte d’un’organizzazione burocratica piuttosto grande ed in cui s’accentrano interessi rilevanti non può soffermarsi su questo o neppure intravederlo.

Nel III capitolo, quello su guerra di Corea (25 giugno 1950 – 27 luglio 1953), “never-again club” e SudEstAsia, (Petraeus 1987) comincia col rappresentare la frustrazione delle FFAA statunitensi che, in Corea, si trovarono a combattere una guerra senza avere il potere di vincerla. Se lo spazio bellico si estende alla Cina, non si vince una guerra con limitazioni spaziali nell’uso della forza. La Cina era parte della guerra di Corea, ma le FFAA statunitensi non potevano colpire le strutture belliche cinesi su territorio cinese. La Corea è un tipico caso di intervento in una crisi senza la volontà di vincere. In effetti, gli anglo-americani avevano appena consegnato la Cina a Mao ed al suo regime da campo di concentramento pauperista. Non potevano, subito dopo, muoversi contro quel regime per distruggerlo. Non potevano neppure parlare apertamente di quello avevano fatto e di quello stavano facendo. Ecco che le FFAA statunitensi si trovavano a combattere una guerra da perdere o da vincere a metà, restaurando la divisione tra sud e nord Corea. Le FFAA statunitensi sanno cosa fare per vincere. Gli ordini politici, i limiti imposti dalla politica, impediscono di vincerla. Le varie industrie di guerra hanno magari guadagnato di più a questo modo. Pìu sono alte le perdite, più le industrie delle commesse incassano. D’altro canto, una Corea restata divisa è una Corea più controllabile dagli USA, almeno nella “loro” metà. Il bilancio costi-benefici è sempre impossibile con troppe variabili e con troppi “se”. Tanto più che il modello ideale proposto, “la difesa della democrazia e della libertà”, non solo non significa nulla, ma è sempre la copertura di mille cose non possono essere dette. Sul non detto e sul non vedibile, non si possono mai fare conti d’una qualche affidabilità. Ma, a quel punto, diventa pure strambo, per FFAA, essere frustrate o meno, sapendo che la direzione politica obbedisce a imperativi del tutto indecifrabili dall’esecutore “tecnico”.

Le descrizioni di (Petraeus 1987) del coinvolgimento USA in Indocina mostrano una politica e dei militari USA prigionieri di schemi di guerra da II guerra mondiale, schemi sia troppo vecchi che troppo nuovi. La II guerra mondiale è stata sotto magistrale direzione politica inglese secondo loro fini. Gli USA non l’hanno mai capito, neppure in (Petraeus 1987) si rilevano lumi su ciò, ed hanno tratto da quell’esperienza delle generalizzazioni o dei riflessi condizionati del tutto controproducendi. Riflessi condizionati che hanno tuttavia funzionato, di fatto, in Corea, dove gli USA hanno difeso un sud indipendente, e nell’area geopolitica-geoeconomica loro, che di fatto è riuscito poi a decollare per quanto non per meriti statunitensi. Il decollo economico del Sud-Corea è dipeso dalla precedente colonizzazione giapponese che aveva in qualche modo avviato tutta la Corea (più il nord come industria pesante) sulla via della modernizzazione dell’economia dopo avere costruito una qualche vera amministrazione statale, che prima della colonizzazione giapponese aveva caratteristiche corrotto-predatorie. Gli USA escono dunque dalla guerra di Corea, che vincono, dal punto di vista della preservazione della loro metà, con tecniche tradizionali di guerra, rafforzati in loro errate visioni politico generali di guerra. Le FFAA sono a disagio per non avere “liberato” fino al confine cinese e, magari, per le perdite statunitensi eccessive derivate dalla guerra limitata ad una parte solo del vero teatro di guerra che includeva parti della Cina. Ma la direzione politica statunitense voleva esattamente quello è stato, al contrario, realizzato. Gli americani, militari e civili, senza la direzione politico-militare britannica non sanno fare la guerra. Non capiscono perché. Per cui il disagio resta per i fini non raggiunti, eppure i fini non sono stati raggiunti perché non si volevano rgagiungere. Quando il Nord-Corea attacca il Sud, il Nord-Corea ha splendide FFAA “sovietiche” mentre il Sud-Corea non ne aveva. Non è che gli USA non sapessero dello squilibrio di forze. Il Nord-Corea occupa gran parte del Sud. Quando gli USA riprendono il Sud ed occupano buona parte del Nord, lo scontro è coi cinesi. Se gli USA volevano tenere la frontiera tra Corea e Cina bastava tenerla. Le guerre moderne, e quella la era, non si vincono di sola fanteria. I cinesi non avevano altro. Se un Presidente dichiara di voler vincere una guerra ma poi ordina ai militari, di fatto, di metà vincerla e metà perderla, certo i militari di truppa sul terreno dovevano obbedire agli ordini dei generali, ma i generali avevano altri strumenti di “negoziazione” coi politici, incluso il dimettersi, se giudicavano gli ordini politici del tutto sconclusionati. Il disagio rispetto alla guerra di Corea ed alla sua conclusione è allora altro che disagio. Di fronte a Presidenti forse inetti (almeno rispetto ai fini dichiarati per intereventi militari), vi sono alti comandi militari dello stesso livello. (Petraeus 1987) s’appassiona solo ed esamina solo gli stereotipi dei militari non falchi ed i vaghi stereotipi storico-esistenziali dominano i decisori ed i processi decisionali. La guerra di Corea apre l’era degli USA che senza la direzione politico-militare britannica non sanno fare la guerra. Né i politici, né i militari, sanno fare la guerra. Gli USA, dopo la seconda guerra mondiale, cui contribuiscono con vastità di mezzi ma senza vera direzione politico-militare, che resta britannica, si sentono onnipotenti e smantellano, per quel che riescono, l’Impero britannico senza prenderne in realtà davvero il posto e senza dunque vincere la partita coi britannici per il controllo del mondo. I britannici lanciano l’URSS contro gli USA ma, soprattutto, lasciano gli USA soli con la loro onnipotenza di mezzi ma senza alcuna capacità di usarli fruttuosamente.

L’Indocina ex-francese è più complessa e con caratteristiche differenti anche sul terreno della Corea. In Indocina, da parte statunitense viene riapplicato meccanicamente lo schema coreano, che in Indocina fallisce del tutto. Fallisce la guerra limitata mentra l’avversario la fa totale ed oltre i confini dell’area e delle aree oggetto di contesa. Fallisce la visione politica già errata in Corea, per cui la guerra è “liberazione” di territori dall’avversario, per poi darli ad un potere amico già esistente ma militarmente debole. La guerra è un’altra cosa. O è sostegno ad un potere statuale già esistente e d’una qualche solidità intrinseca, od è liquidazione di una specifica direzione politica ma senza distruggere lo Stato, o è colonizzazione con costruzione di proprie città enticamente prolungamento della madrepatria, o è assoggettamento per poi costruire ex-novo un qualche Stato reale che in precedenza non esisteva. Gli USA, nell’Indocina ex-francese, seguono la via del sostegno a poteri, dunque amministrazioni statuali, traballanti sottoposti all’offensiva di forze ed amministrazioni statuali più solide. Non che gli avversari degli alleati americani fossero migliori o più efficienti od avessero una qualche superiore visione amministrativa od economica. Erano semplicemente più solidi, magari perché più barbari oltre che con sostegni materiali esteri, ma erano più solidi. La sicurezza di vincere dà potere. La sicurezza di perdere rende impotenti. Le sicurezza di vincere procura la lealtà del sottoposto. La sicurezza di perdere induce il sottoposto a “tradire”. È facile, ed anche sciocco sempre che non celi altri fini, etichettare come “comunista” superiore, diabolico ed invicibile chi vincerà perché lo si vuole far vincere. Ci sono sempre delle ragioni perché qualcuno è più forte e vince o deve vincere. Per esempio, in Tailandia i “comunisti” non vincono. Ci sono ragioni storiche che perdurano, perché non vincono. Il Sud-Corea del boom e successo economico, e della ricchezza diffusa, diventa poi ben immune dai “superiori” “comunisti”. Anzi, sono poi (ora) i “superiori” “comunisti” che hanno paura dell’apertura reciproca. In Vietnam e in tutta l’Indocina ex-francese, gli USA possono assicurare ben superiori sostegni materiali ai loro alleati, che tuttavia non hanno la stessa solidità intrinseca degli avversari. In un tale contesto, o si pratica la colonizzazione diretta oppure si deve prima assoggettare tutta l’area poi costruire uno Stato ex-novo. Certo se ne deve essere capaci. Oppure tanto vale trasformare gli avversari in amici, che può passare per lasciare l’area a chi è intrinsecamente più forte e puntare su altre forme di influenza successiva confidando nella propria potenza economica. Certo, ci se ne può anche semplicemente andare. Che l’Indocina avesse una qualche importanza strategica non è vero. Gli USA, dopo i francesi, la perdono e non perdono nulla. Perdono la faccia, o così si dicono e si fanno dire (che significa poi “perdere la faccia” quando uno Stato resta potentissimo, eppur inetto in operazioni politico-militari?), ma solo perché hanno condotto una guerra [auto-]limitata, pur con mezzi massicci, e perché non sapevano che fare concretamente. Gli USA sostengono amministrazioni statali di nessuna forza intrinseca, con flussi continui di sostegni che si dissolvono. Si immagini, e sembrerà subito meno inimmaginabile, se gli USA avessero sostenuto il Vietnam del Nord. Gli USA se ne rendono conto che danno sostegni che svaniscono come gocce in sabbie ardenti, ma anziché cambiare schema politico-militare di guerra continuano a sostenere i propri inaffidabili “amici” con sempre più mezzi materiali e pure con colpi di Stato che li indeboliscono ulteriormente. Gli USA sostenevano amministrazioni statali in putrefazione mentre contro si trovavano strutture spietate che governavano perfino dove avrebbero dovuto governare gli amici degli USA. I “comunisti” delle varie aree dell’Indocina ex-francese hanno strutture di tipo statuale decisamente più forti di quelle dei regimi non “comunisti” dell’area. Alla fine, tra l’altro, le strutture statuali dei “comunisti” sono creazioni di nazionalisti che vengono ora da famiglie di funzionari statali, ora da famiglie più ricche, e che sfruttano le possibilità offerte dall’imperialismo russo-sovietico tramite il Comintern. I partiti comunisti o para-comunisti sono ordini burocratici in cui fanatici, opportunisti, avventurieri, corrotti, si mescolano anche nella stessa persona. Secondo criteri strettamente gerarchici si creano rigide e burocratiche strutture statuali in cui obbedienza e conformismo sono premiati e remunerati, ed ogni eresia rispetto al potere severamente punita. Mentre le strutture statuali degli “anti-comunisti” sono di già collaborazionisti dei francesi che lo divengono dei fantocci degli americani ma che sono pronti spesso a vedersi ai “comunisti” se si mostrano più forti. Non esistono differenze di materiale umano tra gli uni e gli altri. La stabilità, la spietatezza e la garanzia che il potere duri garantiscono obbedienza. In subordine, contano i privilegi, i privilegi relativi più che quelli assoluti. Gli USA che garantiscono abbondanza di fondi e mezzi, ma non il resto, sono in posizione di debolezza pur essendo i più forti. Le libertà anziché attrarre respingono perché creano insicurezza, e non creano orde di burocratici maniacali e disciplinati che diano garanzia di stablità e durata. Gli USA attraggono i singoli, senza con essi poter costruire nessuna vera struttura di tipo statuale più forte di quelle antagoniste dei “comunisti”. Comprandosi singoli in concorrenza ed antagonismo tra loro per poterli meglio controllare, gli USA certo li controllano, forse, un po’, ma non controllano nessuno Stato o struttura statuale che in quell’area del mondo ancor più che altrove necessità di direzioni uniche e certe per esistere davvero. Gli USA che si autolimitano nell’uso della forza, vengono percepiti come deboli, deboli che si abbandonano di frequente a barbarie, ma deboli. I sud-vietnamiti che sono struttura di supporto degli americani, anziché il contrario, esemplificano e simboleggiano la debolezza degli USA che non sono credibili neppure per i loro “amici”. I nord-vietnamiti ed i vietcong combattono al Sud, mentre le truppe sud-vietnamite non combattono né hanno le loro propaggini al nord. Non è questione di opuscoletti, volantini od ideologie, ma semplicemente di chi diverrà il Vietnam e di chi sarà sconfitto. I primi reclutano, i secondi sono reclutati od ammazzati. Che i nord-vietnamiti, mentre stanno ancora prendendo possesso del Sud ormai sgombero dagli americani, come prima cosa fucilino i “loro” stessi vietcong non toglie loro consensi. La forza spietata ed irresistibile crea consenso. I Khmer Rossi si autodistruggeranno nello scontro col Vietnam, col Vietnam pro-sovietico che batte ed occupa la Cambogia pro-cinese e ne “smaschera” le nefandezze anche interne. La Cambogia khmer rossa si forse rafforzata adeguatamente prima di attaccare ed intimare cessioni terriotoriali e di popolazione al Vietnam, nessuno si sarebbe mai preoccupato dei “genocidi” interni che comunque non avevano indebolito il consenso interno della Cambogia khmer rossa. Il gruppo dirigente khmer rosso non è diverso dagli altri dell’Indocina ex-francese. I suoi “genocidi” sono divenuti noti solo perché hanno perso e sono stati occupati dal Vietnam. In Tailandia, con FFAA e strutture dello Stato d’una qualche solidità, non esiste un “pericolo comunista”. Nell’Indocina ex-francese, alla fine, pur con loro forze massicce nell’area, gli USA abbandonano queste amministrazioni “amiche” putrefatte come non vi fosse alternativa a quella visione politico-militare di intervento. Con mezzo milione di militari in loco, gli USA avrebbero potuto perfino passare alla colonizzazione diretta con la costruzione di città americane eventualmente mescolandosi alle popolazioni locali. Potevano sigillare tutta l’Indocina a partire dal confine cinese e poi costruire un’amministrazione indigena sotto il loro controllo. In realtà, in Indocina non v’erano petrolio (c’è ora; del resto petrolio e simili dipendono spesso dalla tecnologia impiegata per raggiungerli) né grandi miniere di ricchezze naturali essenziali. Gli USA combattono una guerra non sanno perché, né per fare cosa, né con un qualche visione politica dei fini da raggiungere. Devono solo subentrare al colonialismo francese con un qualche loro modello differente ed alternativo che non sanno quale sia. Sanno solo che non è, o non dovrebbe essere, la colonizzazione o pseudocolonizzazione “classica”. Poi, battuti sul campo perché vogliono farsi battere sul campo, se ne vanno dalla “postazione strategica” che strategica non è. Eppure il blocco industriale-finanziario-militare USA promosse e realizzò il colpo di Stato contro i Kennedy (John muore il 22 novembre 1963 a seguito di attentato e Robert, sicuro Presidente se candidato democratico, il 6 giugno 1968 a seguito di attentato; entrambi gli attentati non furono opera di isolati per follie loro) pur di infognarsi in una colossale e lunga guerra da perdere (infatti i militari pensanti e senza cointeressi industriali erano contro) ma evidentemente ottima per consumare armamenti. Alla fine, l’Indocina è essenziale solo per consumare armamenti dunque far lavorare a pieno regime i fornitori, e per i narcotici. In concreto, delle alternative multiple abbozzate sopra, tenendo conto delle capacità USA (di certo per nulla dotati, al contrario dei giapponesi, nella costruzione di Stati) un paio radicalmente differenti erano praticabili in un contesto come l’Indocinese. Una sarebbe stato semplicemente l’andarsene, eventualmente con immigrazioni facilitate negli USA per i propri “amici” in loco. A quel punto, politiche di intensi interscambi con l’Indocina l’avrebbero sottratta ad ogni eventuale controllo od “amicizia” da parte della RPC. I vietnamiti non amano i cinesi, necessità del momento a parte. Oggi l’Indocina avrebbe pututo essere ai livelli di sviluppo della Corea del Sud o di Taiwan, o anche superiori, ed “occidentale”. Un’altra soluzione avrebbe potuto essere sigillare la frontiera tra Indocina a Cina e portare la guerra, anche solo aerea, in Cina se dalla Cina fosse affluiti aiuti, anche minimi, per la sovversione in Indocina. La pacificazione e sviluppo dell’Indocina sarebbe potuta passare, oltre che attraverso mezzi militari, attraverso la costruzione di società multietniche con la creazione di città americane, dunque col metodo classico della colonizzazione vera. Anche se il metodo sembra caduto in disuso, almeno da parte “occidentale” (gli arabi stanno colonizzando l’Europa e gli USA con quartieri loro), infatti i conflitti nelle varie aree si incancrenizzano e permanentizzano, il metodo della creazione di città prolungamento dello Stato madre o padre è più efficace e risolutivo della semplice creazione di basi militari per quanto grandi. Se il fortino, od anche la grandissima base, non diviene città, resta un’entità estranea in un territorio estraneo. La forza dei partiti e reti “comuniste” in Indocina derivava dal flusso di aiuti militari ed altro da nord. Interrotti definitivamente, si sarebbero pressoché tutti arresi o ritornati alle solite occupazioni, per quanto amministrazioni statali deboli ed inutili e dannose non avrebbero certo favorito la creazione spontanea d’una qualche solidità intrinseca senza altri interventi specifici. La colonizzazione francese non si lasciava dietro particolari successi dal punto di vista della modernizzazione delle aree occupate, amministrate e sfruttate. Tra l’altro, si pensi a questa alternativa in altri contesti radicalmente differenti tra di loro come l’iracheno e l’afgano dove, proficue rapine e traffici di petrolio e stupefacenti a parte, gli USA e connessi non sono capaci neppure di pacificare i territori dichiararono e dichiarano voler stabilizzare e modernizzare. Se non si è capaci di ricostruire e modernizzare Stati con colonizzazioni alla giapponese, tanto vale praticare la colonizzazione diretta tradizionale costruendo citta proprie, oppure neppure avventurarcisi. Certo che è davvero originale proclamare di voler pacificare Stati occupati mentre governi “amici” pakistani e sauditi finanziano la sovversione armata negli Stati si sono occupati e si opera, si racconta, per pacificare. Un po’ come un Nord-Vietnam con sostegno cinese e sovietico e con cinesi e sovietici che si proclamassero e fossero considerari “regime pro-americani”. Se poi il fine è l’aggravamento di crisi per altre ragioni, allora i termini dell’analisi e le considerazioni normative necessariamente cambiano. Gli USA combattono in Vietnam come in Corea. Anche cinesi e russi, oltre ai loro alleati vietnamiti in loco che loro sostengono. La differenza con la Corea è che la frontiera di difendere è ben puì estesa, visto da lato nord-vietnamita e cino-russo si pratica la guerra totale d’area. Il Vietnam non solo è più grande della Corea ma la frontiera è ben più estesa. Per proteggere il Sud-Corea, gli USA devono sigillare una frontiera tra le due Coree di meno di 200 chilometri e per il resto v’è il mare. Per tagliare i due Vietnam basta sigillare una cinquantina di chilometri ma non serve a nulla, perché il Sud Vietnam ha una frontiera infinita, forse sui 1'000 chilometri, che gli USA non possono difendere. Quando allargano la guerra agli Stati confinanti, già sfruttati da nord-vietnamiti ed alleati come passaggi, si dilatano i territori da controllare senza ridurre la frontiera da controllare. Se senza guerra in Cina, gli USA riescono a sigillare la Corea del Sud, senza guerra alla Cina e senza sigillare tutta l’Indocina ex-francese gli USA non possono isolare il Vietnam del Sud dalla pressione del Vietnam del Nord che ha il sostegno cinese e russo. In pratica, proteggere il Sud avrebbe significato conquistare il Nord-Vietnam e tutta l’Indocina ex-francese, che comunque non è omogenera (esistono rivalutà etniche furiose). Alla fine, sigillare tutta l’Indocina ex-francese avrebbe implicato controllare una frontiera della stessa estensione di quella terrestre del Sud-Vietnam, però liquidando la potenza d’area che era in Nord-Vietnam di blocco sovietico-cinese, dunque con aiuti anche marittimi da loro. Oppure tanto valeva, neppure avventurarsi in tale guerra, o andarsene quando l’escalation si rivelava infinita. Certo, gli USA se ne sono andati, alla fine, quando avevano un mezzo milione di militari dislocati in loco e con un totale di un 60'000 morti ed un 150'000 feriti statunitensi. Se, invece, s’assume il punto di vista del blocco industriale-finanziario-militare, dev’essere stato un ottimo affare se quel blocco ha ucciso pure un Presidente ed un candidato Presidente, pur di controllare pienamente la Presidenza per una lunga guerra d’Indocina. Ma allora, le FFAA statunitensi non dovrebbero avere alcuna sindrome del Vietnam, se il loro mestiere è essere carne da macello per lunghe guerre, e pure da perdere. Perché, se si perdono le guerre si vogliono perdere, è una vittoria l’averle perse per raggiungere un qualche altro fine la direzione politica voleva raggiungere. Inoltre, se i militari per scelta hanno fatto il loro mestiere liberamente scelto e quelli per obbligo hanno comunque gratificato il loro patriottismo liberamente scelto, dicono, con libere elezioni, dicono, non si capisce poi la frustrazione per avere servito “gli States”, “la patria”, che hanno gli strumenti tecnici (non di intelligenza politico-militare, secondo me) per vincere tutte le guerre vogliono vincere e per perdere tutte le guerre vogliono perdere. Sarebbe più semplice che nelle alte come nelle basse scuole e centri addestramenti per militari dei vari gradi si dicessero la verità, anziché poi crearsi le sindromi più varie che non sono mai salutari, né per chi dalle guerre abbia subito danni, che per chi ne sia uscito senza danni. (Petraeus 1987) non si avventura comunque su questo terreno. La dissertazione dottorale è su altro punto specifico, pur connesso a queste problematiche. Inoltre, pur essendo l’autore brillante (nei ristretti limiti dell’ortodossia, ancor più limitati per un militare, dunque un funzionario dello Stato; del resto ad una dissertazione di PhD si richiede d’essere un lungo e preciso compitino senza “errori” ideologici), egli non va oltre gli stereotipi del pensiero ortodosso per i dottorati e le discussioni e ricerche dell’accademia statunitense su queste cose. Anzi, ne resta ampiamente all’interno, e ben al di sotto le frontiere della ricerca, sempre rischiose da raggiungersi per un funzionario dello Stato, su queste questioni ed in un testo in qualche modo pubblico. Infatti, i risultati del pensiero stereotipato ben si vedono sulla politica estera e militare statunitense. “Ci fa comodo restare nell’area. A Saigon ci sono nostri amici. Come li sosteniamo?”: questi sono parte di modi di pensare e di analisi non conducono nessuna potenza “imperiale” da nessuna parte, se non a disastri. Eppure, i ragionamenti di partenza, negli USA, per cacciarsi nei disastri devono essere proprio di questo tipo, mentre gli affaristi e speculatori s’accalcano per avere contratti per forniture, ricostruzioni, sfruttamenti di risorse, svolgimenti di attività dunque per premere per disastri da cui profittare.

Quello che emerge dalle lunghe rassegne presentate in (Petraeus 1987), l’autore stesso lo dice esplicitamente pur senza eccessiva enfasi, è che dalle sconfitte, come dalle vittorie, ognuno trae poi le conclusioni vuole sulle base delle analisi, o semplicemente delle visioni o delle immagini, più differenti di quello che è successo. Per (Petraeus 1987), la lezione del Vietnam nelle FFAA statunitensi sarebbe stata quella di evitare un altro Vietnam dunque di evitare impegni all’estero in conflitti, od almeno in vere e proprie guerre. Tutto ciò deriverebbe da una fondamentale sfiducia dei militari nei politici e nelle loro ingerenze strambe nella condotta delle operazioni militari ordinate. In effetti, un eccesso di vincoli operativi, o politico-operativi, rende impossibile condurre operazioni militari efficienti od efficaci in molti contesti. Se la politica invece che aiutare le operazioni militari (richieste ai militari dalla politica stessa) con una visione più vasta ed acuta, al contrario interferisce con esse sì da rendere impossibile la svolgimento dei fini richiesti, non si capisce il senso di farsi convolgere in guerre a meno che non vi si faccia coinvolgere proprio per perderle. Eppure è in effetti quello che succese anche in campi propriamente civili come politiche di sanzioni che hanno il senso e la conseguenza di tenere aperte crisi lantenti, oppure politiche miste di sanzioni e di attacchi militiari, non terresti, che si risolvono in delle guerre unilaterali anche lunghe. La creazione di crisi, così come le sconfitte militari, devono essere un buon affare per la maggiore potenza militare mondiale. Un accademico USA, tanto più se militare, non può certo avventurarsi in tal genere di questioni. Eppure, sarebbe proprio questo un campo decisivo d’analisi per chi volesse trarre “lezioni”. Evidentemente, non le si vuole davvero trarre, bensì limitarsi a contribuire al mugugno da camerata o da sala mensa, pur con ricerche di qualche sembianza accademica e per fini accademici.

Nel capitolo V, (Petraeus 1987) esamina l’influenza dei militari sull’uso della forza nell’era post-Vietnam. Si sofferma nuovamente, per rigettarlo, sullo stereotipo del militare (i generali) rozzo ed aggressivo. Anzi, (Petraeus 1987) sottoscrive la tesi del “conservatorismo militare”, dopo il Vietnam, che potremmo tradurre con “prudenza burocratica” (“burocratica”, senza alcuna valenza necessariamente negativa; “burocratica” nel senso di “organizzativa”). In effetti, tutte le grandi burocrazie, tanto più quando con una certa efficienza od efficacia, non amano pubbliche sconfitte che, percepite come loro fallimenti, le discreditino ai loro stessi occhi come agli occhi del pubblico, “della nazione”.

Per (Petraeus 1987), l’interventista, se necessario, per l’allerta della guerra del YomKippur 1973, era Henry Kissinger, mentre non vengono notate propensioni guerresche dei militari. Nella valutazione di (Petraeus 1987), che discute il caso, i militari non furono ne particolarmente aggressivi né influenti. Per cui, se la ricostruzione è precisa, il ruolo dei militari è il loro proprio istituzionale. Di fronte ad una crisi che si sviluppa radicamente con possibile intervento sovietico, e con Kissinger al comando, i militari sono lì a prendere ordine ed eseguirli.

Secondo (Petraeus 1987), in occasione dell’incidente del Mayagüez (12-15 maggio 1975), quando una nave USA fu catturata dai Khmer Rossi cambogiani allora al potere, l’attore chiave e propugnatore della linea forte, oltre il semplice e rapido recupero della nave e dell’equipaggio, fu il Segretario di Stato Henry Kissinger. Dopo la prima riunione, la gestione della crisi, e le preparazione dell’azione di recupero, fu nelle mani del Presidente Ford. In realtà, quando l’attacco fu lanciato, l’equipaggio era già stato rilasciato, ma gli attaccanti non potevano saperlo. Lo trovarono dopo su un peschereccio, prima d’una seconda ondata di azioni militari che dunque non fu lanciata. Gli USA si erano appena (30 aprile 1975) ritirati dal Vietnam. Chi propugnò una risposta esemplare, con rappresaglie (bombardamenti, oltre le necessità del recupero) d’una certa consistenza, per evitare future simili provocazioni, furono Kissinger e Schlesinger, il Ministro della Difesa. (Petraeus 1987) non segnala alcun protagonismo dei militari. Era presente il Generale Jones, in sede di decisione politico-militare sulla crisi. Il Generale Jones si sarebbe limitato a rappresentare le difficoltà logistiche dato che gli USA non avevano forze nell’area. In una valutazione globale di quanto esposto da (Petraeus 1987), alla fine chi emerge come falco è Kissinger, mentre le colombe, più propense alla moderazione, pur nel necessario recupero immediato dell’aquipaggio e della nave, furono Schlesinger e Jones. Il Presidente Ford, all’inizio con Kissinger, calibrò infine l’azione militare per un recupero sicuro di nave ed equipaggio, senza concedere ad azioni di bombardamenti di rappresaglia che non vi furono, almeno nella percezione statunitense. Vi furono dei bombardamenti, ma solo come diversivo funzionale all’intervento di salvataggio e recupero, almeno nelle intenzioni USA. Dunque, il Generale Jones, poi anche col Generale Brown, svolse un ruolo strettamente tecnico e sconsigliò, quando consultato, un uso massiccio dei B-52.

Il 18 agosto 1976, truppe nord-coreane attaccarono dei soldati che stavano sfoltendo un albero nell’area di sicurezza comune (JSA) della zona smilitarizzata che separa le due Coree. Due ufficiali americani furono uccisi e quattro soldati americani e cinque sud-coreani vennero feriti. A Washington, vennero subito esaminate varie opzioni. Il comandante statunitense in Corea, Generale Stilwell, propose di entrare nella JSA per tagliare l’albero stavano sfoltendo quando attaccati. Kissinger era per una risposta più energica e premette sul Presidente Ford di conseguenza. L’Assistente del Presidente per la Sicurezza Nazionale (APNSA), il Generale Scowcroft, pose l’accento su azioni che tenessero conto della reazione nord-coreana e dunque della sua sopportabilità per le truppe americane in Sud-Corea. Era un invito alla moderazione o, comunque, al realismo. Il Presidente Ford dette un’assenso di massima sia a proposte erano state previamente richieste al Washington Special Action Group (WSAG), che all’entrata nella zona JSA rinviando l’assenso operativo dopo la sottoposizione di un piano dettagliato. Pervenuto il piano per tagliare l’albero nella JSA e rimuovere due sbarramenti stradali illegali messi dai nord-coreani, il Presidente Ford dette l’assenso esecutivo dell’azione. L’azione fu condotta a termine senza contrasto nord-coreano e la crisi terminò con un messaggio del Presidente nord-coreano che espresse il suo dispiacere per l’incidente. Dal lato statunitense, il falco delle situazione era stato Kissinger, che avrebbe voluto una risposta più energica, non certo i militari.

(Petraeus 1987) continua con varie crisi ed eventi: il Corno d’Africa del 1978, gli ostaggi in Iran nel 1979-80, la presenza statunitense in Libano nel 1982-84, l’intervento a Grenada del 1983, l’America centrale del 1981-87, il Golfo Persico del 1984, il sequestro dell’Achille Lauro nel 1985, la Libia del 1986.

Fatti i conti, in qualche modo, col supposto mito dei militari falchi ed influenti, senza menzione del blocco industriale-finanziario-militare che è altra cosa dal personale in divisa, o tuttora in divisa alle varie epoche, (Petraeus 1987), dopo un capitolo in cui tira le somme complessive dei vari casi di studio presentati, passa a punti ulteriori. L’argomentazione continua a ruotare sulle propensioni conservatrici (nel senso di prudenti od ultra-prudenti) determinate dall’umiliazione vietnamita sui militari e sullo stretto controllo politico sulle operazioni militari.

Dall’analisi di (Petraeus 1987), emergono FFAA con grandi capacità di colpire ma già meno atte a condurre operazioni complesse. La propensione ad essere strettamente subordinate al Presidente ha l’aspetto duplice della subordinazione al potere politico e della forse scarsa attitudine alla gestione di operazioni politico-militari complesse con flessibilità e con una qualche autonomia operativa. Gli stessi processi e strutture decisionali della Presidenza e del governo non vanno nel senso di decisioni efficienti. L’inesperienza e le carenze culturali dei Presidenti non sono supplite da processi di discussione e decisione collettiva dove specialisti si mescolano con figure culturalmente sprovvedute, e dove il volontarismo e gli interssi esterni possono spingere facilmente verso le soluzioni più astruse. Figure magari di superspecialisti e di rappresentanti di interessi esterni forti influiscono su un Presidente che poi decide sulla base di quello crede di capire, variamente confortato da esperi e consulenti diretti del Presidente che non possono dare al Presidente né l’impressione di contraddirlo né di manipolarlo. Un Presidente alla fine decide per ciò che capisce e per ciò su cui percepisce avere un qualche consenso. Per semplici rappresaglie od operazioni limitate ciò può essere irrilevante. Per operazioni complesse, siano un Vietnam, un Iraq, un Afganistan od una liberazione d’ostaggi in Iran, gli stessi meccanismi decisionali propendono per condurre a disastri, sempre che la politica americana non si gratifichi e non prosperi, come invero sembrerebbe, sui disastri.

(Petraeus 1987) si concentra, da militare, sul rapporto tra politici e militari, evitando una qualunque discussione sulle qualità politico-militari dei “civili” e sulle qualità politico-militari dei militari. Le burocrazie si sono progressivamente complessificate e complicate. Nelle burocrazie c’è chi sa tutto. Ma le burocrazie, sovente, non sanno nulla. Per cui, pur avendo al loro interno ed a disposizione chi sa tutto, decidono da burocrazie che non sanno nulla. Tutte le operazioni complesse sul terreno sono state caratterizzate da questa condanna della FFAA e dei governi statunitensi. Lo stesso Vietnam va letto in quest’ottica. Se armi ed addestri splendidamente delle FFAA e delle polizie “amiche”, ma poi queste sono composte di personale che diserta o che non combatte né agisce, o si opera in situazioni dove non c’è nulla da fare, oppure, di solito questo è il caso, non si sa che fare, o le scelte politiche-militari statunitensi sono del tutto insensate oppure il fare prevale sull’astenersi perché vi sono interessi forti, ed un po’ tutto il sistema, che comunque dai disastri guadagnano. Sembra che nessuno, egli USA, riesca a porsi concretamente la questione di come guadagnare dai successi anziché dai disastri d’iniziative politico-militari che talvolta rispondono a quakche interesse geoeconomico mentre in altri casi profittano solo ai fornitori della FFAA. La stessa II guerra mondiale in Europa (forse pure quella del Pacifico), pur utilissima alle follie distruttrici britanniche, non è affatto certo che avesse qualche utilità per gli USA che potevano meglio perseguire loro interessi in molti altri modi. Il problema non è solo statunitense, visto che la Russia, s’è infognata ed è stata sconfitta in Afganistan come gli USA in Vietnam. In realtà, per potenze con vastitità di mezzi e di personale, non esistono situazioni non risolvibili. Esistono solo situazioni in cui non sanno cosa fare, mentre l’avversario (che non è detto siano solo gli eserciti od i miliziani si trovano di fronte) lo sa. Il non saper che fare va sempre a braccetto con metodi barbari di guerra, dove la frustrazione del non saper che fare, dunque i risultati che mancano, viene scaricata con usi sconnessi della forza che aggravano i disastri. Si tratta di avvitamenti psicotici collettivi che si scatenano sui terreni d’operazioni fino alla sconfitta finale od a guerre infinite.

(Petraeus 1987) conclude che la lezione ed Vietnam è evitare il coinvolgimento in situazioni insurrezionali. Vent’anni dopo è stato lui comandato, e come comandante supremo, proprio in una di quella situazioni, e pur già compromessa da anni d’insuccessi, per quanto nessuna situazione, pur compromessa, sia irrisolvibile se si trova il filo della soluzione. Anche se non sembra che, sull’Iraq, la Presidenza degli USA voglia fare i conti con i sauditi ed affini.

Dato che gli interventi complessi sul terreno possono trovarsi a fronteggiare situazioni che divengono o son fatte divenire insurrezionali, se delle FFAA non sanno come trattarle, tanto vale sciolgano le truppe di terra tenendo solo piccole unità di iincursori per necessità limitate, tenendo dunque FFAA solo per colpi mirati e limitati e difensive. È quello da tempo fanno gli inglesi che, in genere, operano nel mondo in altro modo, inclusa la manipolazione degli USA.

(Petraeus 1987) conclude sia sulla necessità di evitare in coinvolgimento in situazione insurrezionali, sia sull’unicità di ogni situazione, che sembra un invito a non generalizzare il Vietnam.

La situazioni sono sempre differenti. “Le lezioni” dell’una o dell’altra situazione sono sempre cose arbitrarie, anche perché, in genere, ognuno trae le “lezioni” che vuol trarre dalla realtà. Ciò che sarebbe rilevante, in ricerche che si vorrebbero scientifiche su queste cose, sarebbe partire dall’assunto che se tutte le situazioni sono differenti, le risposte che danno grandi burocrazie sia civili che militari tendono ad essere identiche perché è sempre meglio, per il singolo, avere torto con gli altri che avere ragione da solo. Da questo nascono i disastri dei “grandi” Stati e delle loro FFAA. Tutti hanno ragione. Qualche dissenziente coraggioso, o magari per altri calcoli, esplicita il suo dissenso e viene allontanato. Poi, tutti coloro che avevano ragione avviano disastri che successivamente ognuno giustifica e si giustifica in mille modi: “Noi credevano.”, “L’Agenzia ci aveva detto.”, “Ci avevano fatto credere.”, “Non potevano prevedere.”, “La scelta è sta comunque corretta anche se non abbiamo potuto relaizzare i punti successivi.”, “Il mondo non ci capisce.”, “Il Presidente successivo non ha continuato il raddrizzamento noi avevamo avviato”, “Non potevamo fare altrimenti.”, etc.

No, (Petraeus 1987) non si addentra mai in questo. Resta sempre a surfare sui terreni sicuri di ciò non turbi le menti di nessun professore, né d’altri. Vent’anni dopo il suo PhD, si trova ora a dirigere le FFAA in Iraq. I disastri prossimi venturi non dipenderanno comunque da lui, non saranno “colpa” sua. Di fronte al Congresso è stato forse d’una qualche onestà intellettuale e professionale quando non ha risposto, od a risposto con dei “non so”, a domande strambe come il contributo della guerra d’Iraq alla “guerra contro il terrorismo”. Lo sanno tutti che l’Iraq non c’era mai entrato nulla con terrorismi del genere di quelli montati con l’11/9. Anzi, dal punto di vista di tenere sotto controllo il fanatismo religioso, Saddam Hussein era stato fino ad allora ottimo. Mandi dei militari e dei mercenari dove uno Stato è stato distrutto ad opera delle tue FFAA e non sai come costruirne uno sostenibile e che s’auto-sostenga, ed ordini a dei militari di pacificarlo mentri fondi enormi vengono mandati da Stati “amici” come i sauditi per destabilizzarlo: forse occorre più fantasia a pensare che Bush sia del tutto inetto come magari personalmente è, che concludere che c’è un solidissimo blocco di potere anglo-statunitense che sui disastri all’estero prospera.


Petraeus, D. H., The American military and the lessons of Vietnam: a study of military influence and the use of force in the post-Vietnam era (PhD Thesis), Princeton University, 1987
http://www.brianbeutler.com/postvietnameramilitary.pdf
(Petraeus 1987).

02 October 2007

Lettera da Lhasa numero 86. Eversione Costituzionale e deliri quirinalizi. La nota del Presidente della Repubblica dell'1.10.2007

Lettera da Lhasa numero 86. Eversione Costituzionale e deliri quirinalizi. La nota del Presidente della Repubblica dell'1.10.2007
by Roberto Scaruffi

Ecco la Nota completa emessa dal Quirinale:
http://www.quirinale.it/Comunicati/Comunicato.asp?id=33948
“Data: 01-10-2007
“Descrizione: Nota sulla presentazione del disegno di legge finanziaria per il 2008
“N o t a
“Il Presidente della Repubblica, nell’autorizzare la presentazione del disegno di legge finanziaria per il 2008 e del connesso disegno di legge di bilancio, approvati dal Consiglio dei Ministri, e nell’emanare il decreto-legge collegato, desidera richiamare la grave preoccupazione espressa il 20 dicembre scorso, nell’incontro con le Alte Magistrature dello Stato, per la prassi invalsa da tempo nella formazione e nella discussione dei provvedimenti di bilancio, e culminata in voti di fiducia – nella legislatura attuale e in quella precedente – su leggi finanziarie ridotte ad articoli unici di dimensioni abnormi.
“La rilevante riduzione, rispetto allo scorso anno, del numero di disposizioni contenute nella legge finanziaria, la prevista articolazione della manovra di bilancio in diversi provvedimenti legislativi, e la nuova classificazione delle spese introdotta nel bilancio, hanno costituito un primo, parziale accoglimento delle sollecitazioni espresse nel dicembre dello scorso anno.
“Ma rimane la necessità, segnalata già allora dal Presidente della Repubblica, di una “riforma delle norme di legge e regolamentari che presiedono alla definizione del bilancio dello Stato”. Agli orientamenti in tal senso discussi mesi or sono nelle Commissioni bilancio del Senato e della Camera, non ha corrisposto alcuna effettiva riforma, volta a delimitare più rigorosamente i contenuti della legge finanziaria e a garantire tempi certi per la decisione parlamentare su tutti i provvedimenti in cui si articoli la manovra di bilancio.
“E’ dunque ancora indispensabile procedere verso tali riforme. Nell’immediato, la parola passa al Parlamento perché si compiano nelle Camere – da parte dei loro Presidenti e dei loro organi competenti – tutte le opportune verifiche relative ai testi presentati dal governo, e si assumano, nel rigoroso rispetto dei Regolamenti vigenti, tutte le decisioni atte ad assicurare un corretto confronto ed esito finale della sessione di bilancio. Il Presidente della Repubblica auspica che a questo scopo la definizione delle procedure e dei tempi per l’esame dei singoli provvedimenti risulti dalla più larga convergenza in seno alle Camere, nella piena libertà della dialettica parlamentare e nel comune interesse del funzionamento delle istituzioni.
“Roma, 1 ottobre 2007”

Nel contesto Costituzionale italico, quanto sopra è un delirio da monarca assoluto. “Assoluto” nel senso corrente, dato ogni storico serio sa che l’assolutismo non è mai esistito ma fu costruzione propagandistica successiva alla cosiddetta “rivoluzione francese”.

La Costituzione stabilisce, all’art. 89, che
“Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità.
“Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri.”

Se la Nota è un atto, non ha alcuna validità, pur messo in bella mostra sul sito del Quirinale e commentato da politici, statisti e commentatori mediatici.

Se è un libero delirio dovrebbe essere questione sanitaria, a parte che è Costituzionalmente eversivo, eversivo della Costituzione vigente.

Infatti, l’art. 74 sancisce che
“Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione.
“Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata.”

Qui non si tratta di promulagazione di una legge e non è, comunque, un messaggio alle Camere.

Inoltre, l’art. 87 stabilisce che
“Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale.
“Può inviare messaggi alle Camere.
“[...]”

Sentendosi, da tempo (in particolare dal 1992), il Presidente della Repubblica, chiunque sia Presidente, monarca assoluto, viene evidentemente vissuta come restrittiva questa possibilità Costituzionale di “inviare messaggi alle Camere”, per cui ciò che avrebbe potuto essere un messaggio alle Camere è stato emesso d’urgenza come “Nota”, come proclama alle istituzioni, alla politica, ai media, alle masse.

Nella Nota, il Presidente della Repubblica, si dice preoccupato, richiamando “la grave preoccupazione espressa il 20 dicembre scorso”. Tra l’altro, non risulta alcun messaggio alle Camere in quella data. È uno dei soliti, precedenti, abusi-deliri. Le preoccupazioni personali espresse durante l’esercizio del proprio ufficio sono problemi sanitari. Un Presidente della Repubblica non ha il diritto di esprimere sentimenti e di esprimere commenti su altre istituzioni, al di fuori dei messaggi alle Camere e di “atti” con controfirma governativa come da art. 89 sopra citato. Si preferisce non dirlo e non farlo notare, ma l’art. 89 intedeva sottomettere la stessa sua funzione di Presidente del CSM, dunque il CSM stesso, a controllo (assoluto) governativo.

La Nota esprime un dissenso sulla struttura della Legge Finanziaria, anzi, più in generale, sulla struttura dei “provvedimenti di bilancio”, e sull’uso di ricorrere al voto di fiducia su di essi.

Non è difficile vedere gli aspetti di manovra politica e politicantica che conseguono alla presa di posizione del Quirinale. È chiaro che Napolitano vuol far cadere Prodi e vuol farlo cadere con le manovre della sinistra massimalisto-quirinalizia dopo che essa si sia ben fatta propaganda tra “le masse” attraverso il saccheggio d’una Legge Finanziaria che non brilla certo per pulsioni modernizzatrici e pro-popolari. La sinistra massimalisto-quirinalizia si potrà fare propaganda, con l’appoggio del Quirinale, rendendo la finanziaria ancor più anti-modernizzatrice ed anti-popolare (pur con demagogie populiste) ed, infine, affondare Prodi se la ristretta maggioranza viene a mancare del tutto. Scassate del tutto la maggioranza e l’opposizione, o le opposizioni, evidentemente c’è un seguito il Quirinale intende perseguire. Questa è eversione ulteriore, nel caso, con Legge Finanziaria fatta da un “governo del Presidente”, un governo di colpo di Stato, dato che la Costituzione del 1948 è partitocratica, non quirinaliziocratica-oligarcocratica.

Torniamo alla Nota in senso stretto ed agli abusi Costituzionali essa contiene, anche essa non avesse altri significati e fini. La struttura dei “provvedimenti di bilancio” è libera decisione del governo. Il ricorso al voto di fiducia è una libera decisione governativa. La “riforma delle norme di legge e regolamentari che presiedono alla definizione del bilancio dello Stato” è competenza del Parlamento.

Il Presidente della Repubblica non ha nessun diritto, come invece correntemente fa, di commentare, di interferire, di suggerire, né su quello che fa il governo, né su quello che fa il Parlamento, al di fuori delle procedure formali. Può rifiutare la promulgazione, ma una sola volta (per la stessa legge, per cui se viene corretta non è più la stessa e può di nuovo non promulgarla), d’una legge. Può inviare tutti i messaggi che crede alle Camere, naturalmente sempre con controfirma governativa sotto al messaggio.

Queste della Nota, come altre interferenze ed iniziative, sono azioni eversive del quadro Costituzionale. Certo, dal 1992, è divenuto tutto del tutto abituale e corrente. Col 1992, l’italica è divenuta, via golpe intra-istituzionale, una Repubblica Presidenziale settennale con Presidente non ad elezione diretta. È una cosa molto ultra-sovietica, coi “risultati” che si vedono a tutti i livelli.

Si vedrà, forse prestissimo, se la Nota è solo un atto ulteriore d’abuso istituzionale del regime di fatto di “dittatura” quirinalizia, o se è parte del disegno di [1] affondamento del Governo Prodi, manovrando con la sinistra massimalista (che è quirinalizia-oligarchica[mediobanchista] come tutte le altre sinistre, e non solo esse), [2] sfasciare l’Unione, il PD e la già CdL e [3] creare un governo organicamente quirinalizio, dunque un governo di colpo di Stato, pur colpo di Stato bianco, d’uno dei soliti colpi di Stato intra-istituzionali ormai del tutto pubblici e comuni dal 1992.