26 November 2007

Lettera da Lhasa numero 97. Why Putin Wins di Sergei Kovalev, ne The New York Review of Books del 22.11.2007

Lettera da Lhasa numero 97. Why Putin Wins di Sergei Kovalev, ne The New York Review of Books del 22.11.2007
by Roberto Scaruffi

http://www.nybooks.com/articles/20836

L’interesse dell’articolo, o del saggio, è l’interrogarsi dell’autore sulle ragioni del successo di Putin e del perché lui, o quel tipo di personaggio, sia o sembri indispensabile. Ne ripercorre dunque la carriera di statista, la costruzione della figura, mettendola in relazione col sentire russo, o supposto tale.

La risposta alla domanda iniziale, perché Putin vince?, potrebbe essere, alla fine, che Putin vince perché è rassicurante. Quel tipo di personaggio è rassicurante. Certo, in tali tipi di conclusioni, c’è sempre da interrogarsi su chi sia rassicurante e lo sia per chi.

Tuttavia, l’autore sembra limitarsi al lato “popolo” o elettori, col Presidente “forte” ed il popolo che lo vuole così. In realtà, se le istituzioni sono deboli ed inefficienti, la società non vitale, il Presidente “forte” è un’immagine deviante. Non è forte. Magari è solo brutale. Per cui, “le masse” vogliono il capo brutale, e lo deve essere qualunque siano le sue propensioni personali, perché tale è il contesto sistemico. Sono immagini e situazioni da canili e peggio, in effetti.

Le istituzioni russe, come quadro Costituzionale formale, non sono deboli La Russia è una Repubblica Presidenziale quasi “americana”, dove il Presidente, quadriennale rieleggibile per un secondo mandato consecutivo, in pratica si designa il suo vice che è il capo del governo, del governo del Presidente. Il Presidente lo nomina ed il Presidente lo revoca o lo cambia. La nomina del Primo Ministro deve essere approvata dalla Duma, che tuttavia non ha poteri di revoca. Anche i poteri della Duma di rifiutare un Primo Ministro sono limitati. In effetti, sarebbe valso fare un sistema “americano” perfetto, cioè tale e quale, ma evidentemente hanno preferito dei bizantinismi da spazio burocratico.

Il Parlamento, bicamerale non paritario, si compone di una Duma e di un’Assemblea Federale, con prevalenza della Duma. La Duma quadriennale è di 450 seggi. I deputati sono eletti su liste di partito con sistema proporzionale con soglia del 7%. L’Assemblea Federale quadriennale, non elettiva, è designata dalle varie unità amministrative della federazione. Ognuna delle 89 unità amministrative della federazione si designa la sua rappresentanza tra i 178 seggi della stessa, dunque due per unità amministrativa. La Duma può sfiduciare un governo, ma il Presidente non è vincolato ad adeguarsi. Se la Duma conferma la sfiducia entro tre mesi dalla prima sfiducia il Presidente può sciogliere ...la Duma! Il meccanismo è curioso e dà in pratica poteri “americani”, sul governo, al Presidente. Appunto, la Duma, invece che essere vera Camera di controllo e di contropotere d’eventuali stravaganze presidenziali, ha poteri un po’ bizantini quanto fasulli. Legifera in tutta libertà, ma, per esempio, Camera “americane” fanno molto di più che il solo legiferare.

Se le istituzioni formali russe non sono deboli, sebbene i vari bizantinismi già indichino qualche patologia, l’amministrazione russa è corrotta ed inefficiente. Ciò significa che nessuno, politicamente responsabile, la controlla, o non, comunque, per renderla efficiente. Uno Stato è la sua amministrazione, la sua burocrazia. Presidenti che facciano discorsi o che assumano decisioni di fondo senza poterne davvero controllare l’esecuzione e Parlamenti che legiferino senza che le leggi raggiungano i fini si prefiggevano, non si sa bene a che servano se non a far credere (a chi?) che “istituzioni moderne” siano quello. Ecco, allora, che un Putin, o chiunque altro, divenga insostituibile non è perché sia “l’uomo forte che ci vuole” (come potrebbe dire quelche popolano; le virgolette sono una citazione immaginaria) né perché sappia governare tale burocrazia allo sbando, ma proprio perché il livello di anarchia burocratica e disgregazione sistemaica rispetto alla funzioni uno Stato dovrebbe assolvere è tale che al vertice occorre qualcuno che goda la fiducia di burocrazie feudalizzate e ne sappia essere la sintesi. Non sintesi per fare qualcosa per il comune benessere, ma solo per far sì che l’anarchia burocratica non si autodistrugga nei reciproci conflitti. A tali burocrazie corrotte e predatorie occorre “l’uomo forte” che le copra e ne impedisca la dissoluzione e l’uomo debole da potersi manovrare com’esse credono. Lo schema è molto italiota in questo. Tale “uomo forte” è, rispetto alle masse (se mai esistono “masse” indistinte), la garanzia che non possa succedere di peggio che la predazione solita ed i soliti abusi del potere e dei poteri.

Al contrario, in Stati in culture orientate alla soluzione dei problemi e che abbiano istituzioni efficienti ed egualmente efficienti amministrazioni statali e pubbliche, il politico che ne prenda la testa è facilmente sostituibile da chiunque altro. I politici usa e getta all’americana, almeno a livello di Presidenza, indicano proprio un sistema dove il Presidente dà davvero la linea (pur sottoposto a mille pressioni, inclusa quella d’essere ammazzato se interessi troppo forti lo trovino ad essi particolarmente disfunzionale), ma dove il singolo statista di vertice, che non necessita di brillare per visioni o qualità intellettuali od organizzative (potendosi dotare di staff ed avendo delle amministrazioni d’una qualche capacità), è facilmente sostituibile da chiunque altro. Tali sono sistemi istituzionali ed amministrativi efficienti, non quelli dove l’individuo ha importanza eccessiva. Una cosa è dare il proprio segno, in sintonia o meno con gli elettori che hanno sosttoscritto una certa immagine di candidato, altra divenire indispensabili, cosa, in quadri d’efficienza, non è mai. I criteri americani, come anglofoni in genere, soino manageriali. Lo Stato è come una società per azioni dove gli azionisti sono gli elettori. Non è il caso della Russia.

V’è un’aspetto ulteriore dei sistemi anglofoni, dove appunto il singolo l’individuo, come succede in tutte le organizzazoni manageriali, non è insostituibile. L’individuo è essenziale come massa di individui produttori, creatori e competitori, ma ogni singolo non è mai insostituibile. I sistemi anglofoni sopravvisono ai disastri, prosperano addirittura nei disastri. Se un giorno il tale od il tal’altro crollerà non sarà per il singolo disastro o per il singolo leader. Gli USA sono sopravvissuti al Vietnam, anzi sono con quel disastro prosperati. Succede ora con altri disastri. Se il dollaro ha problemi non sappiamo se ancora risolvibili, le cause sono altre, ma non è neppure detto che un crollo degli USA come militarismo e potenza finanziario-valutaria mondiali sarebbe un crollo di tante sue eccellenze locali e globali. L’URSS non è sopravvissuta all’Afganistan, come non ha davvero profittato del suo Impero (creato loro dagli inglesi, in realtà, proprio per sterilizzare aree altrimenti di rigoglioso sviluppo), rapine del momento a parte. È sempre arduo fare questi paragoni ed esistono sempre larghi margini di indimostrabilità, tuttavia, nel sistemi manageriali, la managerialità dell’organizzazione sopravvive alla visione errata od improduttiva o dannosa del leader del momento. Dove il capo insostituibile è tale perché lui è il sistema ed il sistema è lui, ecco che il sistema non prospera né con visioni brillanti né con visioni scadenti del capo insostituibile, anche perché il capo né il suo staff ha visioni d’alcun genere, che non potrebbe comunque attuare, se non l’arrivare a fine giornata (cose alla Prodi e simili!). Certo, può esserci il vantaggio del momento della tale rendita da materia prima a prezzi alti o da investimenti esteri per manodopera a prezzi bassi, ma se il sistema non diventa altro da burocratico predatorio non c’è vero decollo qualunque siano i tassi di sviluppo annui, magari elevati, per qualche periodo. Che un Putin debba trovarsi, o debba esser lui trovato, un successore clone è dunque sintomatico di serie carenze sistemiche.

Kovalev si augura che dalla democrazia e dalle libertà formali si passi a quelle sostanziali. Non è, in realtà, questione di elezioni davvero competitive tra singoli che, nel contesto russo, non è detto siano possibili o proficue. Dove le elezioni sono davvero competitive, non ci sono mai nette o eccessive differenze di consensi tra i due competitori principali, in genere, che non sono mai davvero differenti rispetto ai destini dello Stato. Anche visioni radicalmente differenti non sono un pericolo per nessuno. Per esempio, come sopportabilità ed anche come produttività sistemica, gli USA possono permettersi l’assistena sanitaria per tutti così come lasciar morire i poveri per strada. In fondo, qualunque le loro visioni su vari punti specifici, i capi di Stato-governo devono, in un contesto d’efficienza, solo fare gli Amministratori Delegati d’una SPA competitiva. La questione russa è quella d’una società che esista davvero ma anche d’uno Stato che esista come amministrazioni efficienti. Oggi non esistono. Il secondo (uno Stato come burocrazie efficienti) è ancora più importante, perché la prima (la società viva) può essere fenomeno spontaneo, mentre uno Stato (amministrazione, burocrazie) efficiente occorre davvero qualcuno o qualche meccanismo che lo crei e lo preservi tale. Una società viva non necessariamente crea uno Stato efficiente. Anzi, senza oligarchie modernizzatrici, ne è ostacolo. Al contrario, uno Stato efficiente è la cornice entro cui una società viva si stabilizza e s’arricchisce e diviene vantaggiosa per tutti.

23 November 2007

Lettera da Lhasa numero 96. Corsera tra le evenescenze politicantiche di Sartori e le fantasie di comodo di Galli della Loggia

Lettera da Lhasa numero 96. Corsera tra le evenescenze politicantiche di Sartori e le fantasie di comodo di Galli della Loggia
by Roberto Scaruffi

“Merito” d’un pasticcio di progetto elettorale del solito Veltroni che, alla Scalfaro 1993, vorrebbe trovarsi (lui, Veltroni, era evidentemente convinto d’esserselo trovato o fatto trovare) il trucchetto elettorale per vincere le elezioni con un partito di cui non si sa in realtà bene quanti consensi potrà avere quando ci saranno le prossime elezioni politiche, 2011 o prima, ecco che, per continuare a confondere gli elettori, la stampa della predazione finanziaria continua a palleggiarsi tra fantasie sul sistema politico determinato dagli astri e su sistemi “tedeschi” e “spagnoli”. Il tutto per non dire le cause dell’irreversibile decadenza, anche istituzionale, italiotica né che sistema elettorale davvero vogliano. Tanto poi, in effetti, l’italiota chiede al suo capo d’area od al quotidiano di fiducia e vota da piccolo insetto abituato “a fare il proprio dovere”. Anche con partito unico a liste bloccate, andrebbe egualmente, ligio, “a fare il proprio dovere”.

L’ultimo articolo, a livello di battute da bar, di Sartori
http://www.corriere.it/editoriali/07_novembre_21/sartori_il_bipolarismo_non_si_uccide_d7c62daa-97fa-11dc-89d7-0003ba99c53b.shtml
racconta che “il bipolarismo non s’uccide”.

Evidentemento la predazione finanziaria orienta politicamente il Corsera deve avere preteso “il sistema tedesco”. Ecco che Sartori, da “francese” è divenuto ora “tedesco”. Non si sa, od io non lo so, sulla base di quali valutazioni. Prima era per il sistema elettorale francese, uninominale a due turni, perché è un sistema permette meglio i traffici tra partiti e corporazioni per avere in ogni luogo il “migliore” eletto uscito da un tale mercanteggio mafioso tra il primo ed il secondo turno.

Dopo avere ripetuto le sue solite banalita sul bipolarismo, che secondo lui dipenderebbe da trucchetti politicantici (in realtà dipende solo dal sistema istituizionale), riprende i soliti luoghi comuni correnti sul sistema elettorale da cui dipenderebbe (ma è falso) un sistema politico: “Finalmente si intravede uno spiraglio di luce. Purché ora non sbagli Veltroni insistendo su un progetto «misto» tedesco-spagnolo che non è certo migliore — a mio avviso — del tedesco e basta. Mi auguro che Veltroni lo accetti insistendo sul fatto che non va modificato, piuttosto che proponendo modifiche che rischiano di bloccare e di sciupare tutto.”
http://www.corriere.it/editoriali/07_novembre_21/sartori_il_bipolarismo_non_si_uccide_d7c62daa-97fa-11dc-89d7-0003ba99c53b.shtml

Non è un caso che anche Napolitano, che invece che fare il Presidente della Repubblica Italiana fa il politicante (il Presidente italico ha poteri enormi, ma un dovere scritto in Costituizone e sancito dal principio dell’irresponsabilità [egualmente in Costituzione], quello di star zitto), sia per il “sistema tedesco”. O così dice, senza sapere bene di che stia parlando. Quirinale e Corsera sono talmente in sintonia, in realtà su un governo Napolitano-Draghi o simile, che per l’ultimo sputtanamento giudiziario contro il solito Berlusconi hanno usato la stampa parallela, Repubblica (da sempre sussidiata dalla finanza bancario-predatoria). Quando parlano di “sistema tedesco”, è di certo una metafora per altro.

Siamo a livello, nelle prese di posizione dei Sartori, non solo lui/loro (è male o bene comune), di piccoli imbroglioni, preoccupati solo di truccheti elettorali per loro fini o per fini di chi li paga. Il sistema elettorale tedesco per la Camera è impossibile senza cambiamenti della Costituzione. I seggi non sono fissi in Germania. Sì, c’è un numero, ma ci sono delle eccezioni. Quanto al sistema elettorale per l’altra Camera (in Italia il Senato, il Germania il Bundesrat), in Germania l’altra Camera non è eletta, oltre ad essere davvero piccolissima come votanti nella stessa, 16 (sedici) in pratica. Dunque anche lì occorrerebbe un cambiamento Costituzionale. Ah, guarda caso, un Bundesrat l’aveva introdotto (non proprio identico ma ben più prossimo ad esso del sistema attuale) Berlusconi, invero molto meno o per nulla “paralizzante”, mentre il “Senato’ tedesco l’è (almeno ad usare le “concettualizzazioni” dei “Costituzionalisti” da media e da coske italioti). Sartori e Napolitano hanno furiosamente fatto e fatto fare campagna contro ed hanno votato contro al referendum anti-promulgativo del 2006. Parlare di delinquodemenza italiota e di delinquodementi italioti, è un linguaggio soft, moderato. Così è.

In realtà, il “sistema spagnolo” è un sistema istituzionale. Il “sistema tedesco” è egualmente un sistema istituzionale. I sistemi elettorali non sono mai decisivi, neppure rilevanti. O discendono dal sistema istituzionale o si combinano ad esso. È il sistema elettorale che s’adatta al sistema Costituzionale-istituzionale. I sistemi elettorali non cambiano il sistema istituzionale, né quello politico che discende dal sistema dal sistema istituzionale. Se il sistema politico italico è debole è perché è tale il sistema istituzionale. Se il sistema politico italico resta debole e strambo è perché si vuole conservare debole e strambo il sistema istituzionale. La sbagasciata dittatura quirinalizia fa comodo alla delinquenza burocratica ed a quella finanziario-industriale. È tutto lì.

In Spagna non c’è il bicameralismo perfetto. Di fatto è come ci fosse una sola Camera, vedendo le cose con l’ottica del demenziale bicameralismo all’italiota. È il solo Congresso, di 350 componenti, quadriennale, a dare la fiducia al Primo Ministro nominato dal Re. Avuta la fiducia, il Primo Ministro forma il governo pur poi nominato dal Re. Il Senato, egualmente quadriennale, può rigettare od emendare le leggi votate dal Congresso. Tuttavia, è il Congresso che alla fine decide. In pratica, il Senato ha una funzione consultiva, consultiva obbligatoria ma sempre consultiva.

Il “sistema spagnolo” è dunque, anche solo per questi aspetti, agli antipodi della sconclusionata (dal punto di vista dell’efficienza sistemica) Costituzione Cuccia-DeGasperi-Togliatti, qualunque sia il sistema elettorale. Loro hanno avuto il franchismo, dopo una feroce Repubblica massonica. Italiozia l’occupazione anglo-americana con sub-appalto, poi, ai “vaticani”, ai “russi” ed agli “azionisti”.

Comunque, i sistemi elettorali nazionali spagnoli sono due. Il Congresso è eletto con meccanismo proporzionale su base provinciale, con sovra-rappresentazione delle province piccole. Siccome vi sono 50 province-circoscrizioni (oltre a un seggio ciascuna a Ceuta e Melilla); lo sbarramento provinciale del 3% diviene di fatto più alto, e lo diviene tanto di più quanto più è piccola la circoscrizione. Al Senato, di 259 componenti (208 eletti + 51 nominati dai consigli di autogoverni od autonomie locali in alcune zone), c’è egualmente un’elezione su base provinciale dove ogni provincia delle 45 della Spagna continentale manda 4 senatori. Dove ne manda 4, l’elettore ha 3 voti che dà a chi crede. Dove i seggi, nelle isole, sono sono 3, 2 ed 1, a seconda delle località, l’elettore ha tanti voti quanti il numero di seggi.

I vincoli Costituzionali italici rendono impossibile il sistema spagnolo. Per confondere ulteriormente l’elettore, che intanto è un poveretto vota poi chiunque senza neppure sapere chi e cosa voti, raccontano che mescolano “lo spagnolo” col “tedesco”. Sarebbe più onesto, se fossero onesti, dire a tutti, non solo in strampalate bozze di “specialisti”, in concreto che fanno. Se non si sa rendere chiaro e di semplice esposizione un sistema elettorale, è perché sono le solite scalfarate da italiozia golpista. Per poi correggere il miscuglio sotto le mille spinte delle mille coske, anzi per non fare nulla, come è più probabile, meglio dire, “lo spagnolo”, “il tedesco”, “li mescoliamo”, “li correggiamo”, “li adattiamo”. Nel 1993, avevano inventato il sistema elettorale perché il Quirinale, con le oligarchie predatorie, potesse prendersi il Parlamento dopo la Grande Purga. Ora, credono d’aver trovato, ma solo in bozza-Veltroni, il trucchetto perché un PedDé da 35-40%, si dicono loro, possa prendersi tutto il Parlamento. E se poi, con quello succederà di qui alle elezioni del 2011, o prima, il PedDé si ritrova su un naturale 15%, se esisterà ancora?


Anche in Germania, il bicameralismo è radicalmente differente dal demenziale italiota, fatto solo per favorire, con governi non governano, la delinquenza burocratica. Se un governo non controlla l’amministrazione, ed in Italioza non la controlla, a che serve, oltre a far danni?

In occasione del Referendum anti-promulgativo, tra le tante calunnie, il Partito del Quirinale e dell’Oligarchia predatoria aveva insistito che il cosiddetto Senato Federale paralizzava, almeno sulle cose (poche) di sua competenza, il sistema legislativo attraverso procedure lunghe e complicate. Non era vero. Comunque, se quello schema Costituzionale di Camera delle Regioni fosse stato paralizzante, il sistema tedesco dovrebbe essere qualificato come super-paralizzate perché il Bundesrat (Consiglio Federale) tedesco ha davvero poteri di veto su moltissima legislazione, ed in progressiva crescita. Il Bundesrat è una Camera piccola come numero di membri effettivamente decidono, 16 in pratica. Tuttavia è potentissimo e con poteri in espansione. Il Bunderat non è elettivo. I membri non stanno poi neppure nella capitale, che raggiungono solo per le sessioni e decisioni formali, delegando il lavoro quotidiano al personale amministrativo. È un Consiglio dove siedono gli Stati della Repubblica Federale che, in Germania, sono 16. Ogni Stato ha da tre a sei voti, a seconda della popolazione dello Stato, voti che vengono dati in blocco dal capo delegazione. Le delegazioni al Bundesrat sono designate dai governi dei vari Stati. Naturalmente, ogni singolo governo del singolo Stato cambia la sua delegazione quando vuole. Il voto, che vale da 3 a 6 su complessivi 69 voti, è un voto d’ogni singolo Stato. Viene dato in blocco. Il tale Stato vota e vota per il peso (da 3 a 6) del voto attribuito a seconda del peso numerico (di popolazione) dello Stato. È in effetti un Consiglio degli Stati semplice nell’architettura generale di organo di rappresentanza degli Stati.

Ve l’immaginate un Senato delle Regioni dove, di tanto in tanto, quando si debba votare, arrivi il Presidente della Regione il cui voto valga da 3 a 6 a seconda delle Regioni e voti con gli altri Presidenti di Regione? E dove li mettono tutti gli ora senatori, con le stesse Regioni che furono create solo per dare posti a funzionari e para-funzionari di partito e per distribuire posti negli uffici regionali e che ora grandeggiano in spesa fuori controllo? In Germania, gli Stati preesistevano alla Repubblica Federale. Certo, anche gli Stati italici pre-occupazione savoiarda, Stati che, tuttavia, non coincidono con le Regioni e che non si sono mai confederati né federati.

A parte questa Camera degli Stati, rilevante per la legislazione, che in genere, seppur non sempre, tocca interessi degli Stati, il sistema tedesco è monocamerale. Non ci sono due Camere-doppione.

Eletta per quattro anni, il Bundestag, l’Assemblea Federale, ha 598 seggi tuttavia aumentabili a seguito di un semplice meccanismo. Le votazioni per il Bundestag sono per metà dei seggi con l’uninominale (vi sono dunque 299 collegi uninominali) e per metà dei seggi con proporzionale con soglia. La soglia è del 5% ne proporzionale oppure di 3 eletti nell’uninominale. Dunque, anche senza il 5%, l’avere conquistato 3 seggi da diritto a partecipatare alla riparitizione proporzionale, sempre che non si abbiano già i seggi sufficienti o, addirittura, in eccedenza. Infatti, la ripartizione proporzionale è di tipo particolare, non di tipo residuale. Rispetta il proporzionalismo perfetto (soglia di sbarramento a parte, che vale comunque), con un’eccezione se si verifica una certa fattispecie. L’elettore ha una scheda con cui può esprimere due voti differenti. Un voto viene dato, sulla sinistra, ad un candidato all’uninominale. Costui ha pure una sigla di partito per cui è eletto sul “conto” di un partito, ma il voto è solo per lui. Sulla destra v’è la lista, più lunga, dei partiti, in cui sono indicati i capi degli stessi. È lì che si dà il voto proporzionale. Ad urne chiuse e voti scrutinati, vi sono 299 uninominali già allocati e 299 seggi da allocare. Tuttavia, i calcoli dell’allocazione vengono fatti sulla base di tutti i 598 seggi. Vi sono i partiti che hanno superato almeno una delle sue soglie di sbarramento. Vi sono i 598 seggi. Calcoltato quanti seggi spettano ad ogni partito, gli si danno i seggi ancora gli spettano. Qualche partito potrebbe già avere conquistato, nell’uninominale, tutti i seggi gli spettavano. Qualche partito potrebbe avere conquistato, nell’uninominale, più dei seggi gli sarebbero spettati sulla base dei voti complessivi nel proporzionale. In quest’ultimo caso, i seggi in eccesso non vengono tolti al numero complessivo dei seggi del partito. Non si potrebbe, essendo eletti nell’uninominale, dichiarare non eletti degli eletti in eccedenza. Nel contempo, si preferisce non penalizzare gli altri partiti. Per cui, si verifica il caso del Überhangmandat, del seggio in eccesso lasciato al partito lo ha conquistato all’uninominale in più del dovuto sulla base del proporzionale. I 598 seggi previsti di norma al Bundestag possono, dunque, divenire di più. Ora sono 614. Se la fattispecie non si verifica, i seggi restano i 598 di base. Si ripartiscono, come detto, i 299 seggi ancora da ripartire sulla base dei voti nel proporzionale e meno i seggi il partito ha già conquistato nell’uninominale. Se però un seggio (o più seggi) dell’uninominale è in eccesso rispetto al numero complessivo dei seggi spettanti, lo si lascia al partito, come Überhangmandat. Ecco che i 598 seggi possono divenire di più.

Se il Sartori da Corsera è polllitogogo da bar dove si discuta soprattutto di calcio, in tal locale il Galli della Loggia da Corsera sarebbe eccelso filosofo, filosofo di nulla.
http://www.corriere.it/editoriali/07_novembre_22/se_tornano_i_due_forni_7b8a6bd4-98c0-11dc-831b-0003ba99c53b.shtml

Nell’articolo citato sotto forma di link si lancia in disquisizioni sui due forni, come qualunque scelta non fosse tale. Anzi, i forni sono sempre tanti. Solo nel partito unico la scelta tra i forni sceglie vie interne, magari non immediatamente visibili o fatte vedere al pubblico delle corride mediatiche. Anche in un sistema con 3 partiti, 40%, 30%, 30%, non è che quello del 40% abbia la scelta tra due forni. I due partiti da 30% possono accordarsi lasciando quello credeva di poter scegliere tra due forni coi due forni che lo lasciano senza forno. Se invece che fare i governi ed i sottogoverni nei salotti li si vuole lasciare fare agli elettori, certo egualmente manipolati seppur in modo differente (diretto ed esplicito), si prenda la Costituzione USA e la si voti tale e quale, fingendo che le Regioni siano Stati. Invece, è ormai da decenni che ad ogni accenno di modifica della forma di governo, dunque del sistema istituzionale e politico, arrivano minacciose le procure del Quirinale e dell’oligarchia predatoria. Ancor più indicativo che i “grandi” editorialisti e commentatori non lo dicano mai ed anzi trovino sempre cause misteriose e “geniali”, tuttavia del tutto fantasiose e menzognere, dell’impotenza-putrefazione italica.

Non so bene cosa sia il “maggioritario italiano” perché l’unico maggioritario della storia italica c’è ora, alla Camera, a seguito delle legge-“Berlusconi”. Ci fosse stato pure al Senato, dalle elezioni del 2006 sarebbero uscite due consistenti maggioranze opposte nelle due Camere. Al contrario, la legge elettorale-“Berlusconi” ha permesso un maggioritario certo alla Camera dei Deputati ed una soluzione equilibrata o, comunque, gestibile, al Senato. La soluzione, almeno dal puro punto di vista d’una qualche maggioranza uscita dalle urne (anche se senza elezione diretta del Premier, e con poteri da vero Premier, che non è questione di leggine elettorali, resta una soluzione insufficiente), sarebbe la cancellazione d’una delle due Camere e, per quella che resta, una legge con premio di maggioranza come la legge-“Berlusconi” per la Camera.

Comunque, anche Galli della Loggia è si interessa solo a leggine elettorali trucchetto: “Il maggioritario italiano è fallito perché in quindici anni né Forza Italia né i Diesse- Margherita, nati entrambi in circostanze assai diverse ma egualmente ambigue, e dunque gravati entrambi da problemi di identità, essendo l'una e gli altri incerti su che cosa essere, hanno di fatto rinunciato a lungo a qualunque battaglia ideologico-politica a fondo contro gli altri attori del proprio versante elettorale, non hanno preso nessuna iniziativa forte contro di essi, e così non sono riusciti ad espugnare elettoralmente la stragrande maggioranza di quel versante. Il bipolarismo italiano è fallito perché i due candidati naturali a esercitare la sovranità sui rispettivi poli hanno mancato al proprio compito per propria incapacità. Adesso, per favore, non cerchino finte vie d'uscita.”
http://www.corriere.it/editoriali/07_novembre_22/se_tornano_i_due_forni_7b8a6bd4-98c0-11dc-831b-0003ba99c53b.shtml

Ecco, in Galli della Loggia, tutto diviene questione di trucchetti, di “problemi di identità”, anziché di quadro istituzionale. Del resto, un banchiere chiave del Corsera, un banchiere detta la linea la Corsera, sarebbe per congelare l’attuale Costituzione con una soglia ancora più alta per ogni cambiamento. In pratica, l’attuale Costituzione debole e pasticciata, è ottima per i padroni della finanzia predatoria e del loro Quirinale delle burocrazie predatorie. Dunque occorrerebbe premunirsi ancora di più, i CC e le procure si teme non bastino, contro ogni possibile cambiamento Costituzionale, che non potrebbe che essere in meglio (visto com’è disastrata la Costituzione del 1948), seppur in peggio per burocrazie ed oligarchie predatorie. Il golpismo Quirinalizio-oligarchico non ha saputo garantire governi capaci di governare, né Parlamenti capaci di legiferare e controllare efficacemente, perché la funzione del golpismo “di procura” era proprio quella di destabilizzare la politica per poter aumentare la delinquenza sia burocratica che finanziario-predatoria.

La questione è strettamente istituzionale, dunque di Costituzione, non di trucchetti elettorali o di “problemi di identità” dell’uno o dell’altro partito. Nessuna leggina elettorale, né alcuna tecnica propagandistica di partito, non è rimedio a nulla. La Costituzione “Berlusconi” del 2006, anche cancellando da essa il Senato Federale e qualunque altro Senato, era una soluzione che avrebbe creato il sistema instituzionale più avanzato del continente. Era una soluzione di sistema di governo all’inglese. Oppure, altro modello perfetto è quello americano. In toto, naturalmente, non in dettaglietti irrilevanti, come fatto da chi starnazza di “sistema americano” per chiedere l’uninominale. In realtà, i sistemi elettorali USA sono diversificati e diversificabili perché in genere lasciati agli Stati, in molti casi. Rilevante, nel quadro Costituzionale USA, come in tutti i quadri istituzionali, è il sistema di governo. Un sistema elettorale o l’altro non cambierebbe nulla negli stessi USA.

Le disquisizioni sulle leggine elettorali magiche o sul “sistema anglosassone” ridotto e trucchetti elettorali che non cambierebbero nulla, anzi peggiorerebbero l’esistente, li lasciamo agli imbroglioni od ai vaneggiatori. I media della delinquenza burocratica e di quella finanziario-predatoria continuano a vendere leggine e referendum (abrogativo-ricostruttivi) magici. Invece, ogni efficientizzazione Costituzionale-istituzionale è da sempre forsennatamente avversata dai centri quirinalizio-ministerial-burocratici e dell’oligarcia “privata” predatori. L’assenza di veri e democratici governi, e di vere amministrazioni statali e pubbliche, se non per sprecare e rubare, fa evidentemente comodo un po’ a tutti.

Un sistema politico-partitico deriva essenzialmente dal sistema Costituzionale-istituzionale, in particolare dal sistema di governo. Le patologie d’un sistema politico sono patologie ancora più gravi del sistema Costituzionale-istituzionale e della società, società evidentemente talmente feudalizzata-mafiosizzata sì da essere incapace di trovare momenti di sintesi modernizzatrice od anche solo da non decadenza accelerata ed irreversibile come è invece ormai il caso d’Italiozia.

Se tale è la “borghesia”, tale il suo massimo organo, tali i suoi intellettuali organici od al soldo, oltre alla sue espressioni politiche, istituzionali, burocratiche e sociali si possono vedere dappertutto...

Sì, sono in effetti tali!

06 November 2007

Lettera da Lhasa numero 95. I risultati, regione per regione, del referendum Costituzionale del 2006

Lettera da Lhasa numero 95. I risultati, regione per regione, del referendum Costituzionale del 2006
by Roberto Scaruffi

Il “SI” alla promulgazionale della nuova Costituzione “inglese” è in verde. Il “NO”, che ha vinto con oltre il 60%, è in rosso.

Avrei voluto fare degli esperimenti, con questa ed altre variabili regionali, usando una tecnica statistica e di rappresentazione grafica che si chiama Correspondence analysis [CA]/ analyse factorielle des correspondences [AFC]. Ma non ho ora la possibilità di usare il SAS od altri programmi che altrove avevo proficuamente usato.

Si assuma il “SI” (verde) come propensione alla modernizzazione (modernizzazione da ogni punto di vista) ed il “NO” (rosso) come avversione alla modernizzazione e si provi a leggere i risultati delle varie regioni in questa chiave. Per cui più alto il “SI” più vi sono aspirazioni alla modernizzazione (in realtà il “SI” vince, e neppure di molto, solo in Veneto e Lombrdia), più alto il “NO” più v’è avversione alla modernizzazione.

Il “NO”, che vince quasi dappertutto (salvo nelle due regioni citate, mentre vince di pochissimo solo nel FVG), è addirittura strepitoso in Calabria con quel 82.5%.



























Referendum del 25-26 giugno 2006
ITALIA SETTENTRIONALE »47,4%52,6%
PIEMONTE »43,4%56,6%
VALLE D'AOSTA »35,7%64,3%
LOMBARDIA »54,6%45,4%
TRENTINO-ALTO ADIGE »35,3%64,7%
VENETO »55,3%44,7%
FRIULI-VENEZIA GIULIA »49,2%50,8%
LIGURIA »37,0%63,0%
EMILIA ROMAGNA »33,5%66,5%
ITALIA CENTRALE »32,3%67,7%
TOSCANA »29,0%71,0%
UMBRIA »31,3%68,7%
MARCHE »33,9%66,1%
LAZIO »34,6%65,4%
ITALIA MERIDIONALE »25,2 %74,8%
ABRUZZI »33,3%66,7%
MOLISE »28,3%71,7%
CAMPANIA »24,7%75,3%
PUGLIA »26,5%73,5%
BASILICATA »23,1%76,9%
CALABRIA »17,5%82,5%
ITALIA INSULARE »29,4%70,6%
SICILIA »30,1%69,9%
SARDEGNA »27,7%72,3%
http://referendum.interno.it/votanti/votanti060625/Fvotanti_ita_est_2006.htm

Lettera da Lhasa numero 94. Perché devoluzione e sussidiarietà sono impossibili in uno Stato predatorio come l’italico

Lettera da Lhasa numero 94. Perché devoluzione e sussidiarietà sono impossibili in uno Stato predatorio come l’italico
by Roberto Scaruffi

Devoluzione non deriva, politicanteria a parte, dall’inglese devolution. Entrambi derivano dal latino devolvere, se si prende il verbo, oppure devolutionem, che viene dal participio passato devolutus, se si considera il sostantivo. Il latino devolvere, che in italiano resta identico, si compone di de e di volvere. De indica un movimento dall’alto in basso. Volvere indica movimento, passaggio.

Devolvere indica dunque un trasferimento dall’alto in basso o, che è lo stesso, da chi ha a chi, sottoposto, non aveva ancora e cui l’oggetto della devoluzione viene dato. Se è devoluzione di poteri “pubblici” è devoluzione da chi li ha, da chi ha poteri concentrati, il governo o lo Stato centrale, verso plurimi e più bassi, regionali o locali. Certo, in termini più generali, qualunque livello può devolvere all’inferiore.

La sussidiarietà è invece un principio generale su cui si fondano libertà ed autonomie. Secondo il principio di sussidiarietà, ogni cosa deve essere competenza del livello la può fare meglio a cominciare dal singolo individuo, dalla famiglia, da piccole comunità e così salendo. È un principio sociale, umano ed umanistico, così come di efficienza funzionale.

La sussidiarietà, entra nell’ordinamento italico, almeno a livello di enunciazioni, dalla cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, sebbene solo dopo che viene citato e fatto proprio, almeno come enunciazione, dal Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 e dopo circa un decennio da allora. In effetti, si conforma di più alla tradizione Costituzionale germanica di localismi progressivamente e naturalmente costituitisi in Stato.

Come pratica, oltre che come principio, la sussidiarietà la si ritrova invero un po’ dappertutto, in tutte le tradizioni, incluse certo tutte quelle che derivano dall’ebraismo e simili, quando non represso da crisi di socialità che vanno in parallelo con crisi di Stati. Stati malati derivano da società malate, dunque dove il principio di sussidiarietà s’è progressivamente ritirato e deviato, o comunque ridotto ad ambiti essenziali e particolari.

Senza che poteri prima centralizzati vengano devoluti a soggetti gerarchicamente inferiori, non ci se li possono attribuire. Al contrario, una volta sancito il principio di sussidiarietà, si può, almeno in teoria, fare tutto ciò che non sia fatto in modo migliore da livelli superiori oppure che non sia precisamente regolamentato. Il principio di sussidiarietà può permettere, quando entrato in un ordinamento, di creare almeno un contenzioso in taluni casi, sempre che in sistema giudiziario civile funzioni un minimo, cosa che non è davvero dato nella penisola italica dei nostri tempi.

In Costituzione, un’operazione di devoluzione è quella fatta nel 2001 con l’introduzione dell’art. 117, che devolve formalmente poteri alle Regioni, sotto la forma di una definizione Costituzionale di attribuzioni ai vari livelli dello Stato. Quanto al principio di sussidiarietà, esso viene citato nell’art. 118 e successivi. Anch’esso è introdotto in Costituzione nel 2001.

Nella pratica, è tutto differente da formalismi Costituzionali e legali. Per devolvere davvero poteri occorre uno Stato centrale forte, leggero ed efficiente. Del resto, ed è tautologico, uno Stato che non sappia e possa devolvere, neppure sarà mai forte, leggero ed efficiente. Non è un caso che operazioni di devoluzione siano State fatte in Gran Bretagna, dove nessuno vive come tragedie epocali eventuali secessioni dovessero verificarsi. L’Inghilterra è abbastanza ricca e potente da potersi permettere la secessione scozzese. Processi di devoluzione hanno aperto la via ad un’eventuale secessione scozzese, per quando non vi sia una correlazione necessaria tra devoluzione e secessione, come non v’è tra federalismo e secessione. Devoluzione è cosa diversa dal federalismo. Non è vero che la storia non conti. Nulla nasce mai a tavolino per pura decisione razionale. Devoluzioni e federalismi, e loro varietà, derivano da processi differenti di formazione d’uno Stato. Un esempio di Stato federale a secessione impossibile (forse, vista la storia) sono gli USA, dove, comunque, dato il processo di formazione già federale per quanto con rilevanti aspetti di centralismo, pur leggero ed efficiente, non si pongono particolari problemi di devoluzione. I livelli e le loro attribuzioni sono già definiti, per quanto vi sia inevitabilmente una contrattazione continua. Invece, in Gran Bretagna, dove, seppur leggero e con larghe autonomie locali, un vero regime di sussidiarietà, lo Stato è sempre Stato formalmente centralistico, solo di atti di devoluzione si potevano dare poteri decisivi, prima centrali, a automie regional-nazionali (nazionali, nel senso etnico) come la scozzese. La devoluzione britannica è stata rapida e senza le solite appiccicosità burocratiche all’europeo-continentale.

In Stati deboli tutto è differente. Infatti, la devoluzione, nel regionalismo italico, s’è tradotta in ulteriori incentivi ad un ente territoriale già inutile a creare burocrazie parallele alle già inefficienti e predatorie centrali, e non meno inefficienti e non meno predatorie. Dunque, non si sono devoluti veri poteri ma solo aperti ulteriori varchi alla proliferazione di centri di spesa e di predazione. Il risultato è stato ed è solo un’ampliamento dell’anarchismo burocratico predatorio. Nessuno burocrazia cede poteri. Nessun governo controlla le burocrazie. Nessun governo e parlamento possono decidere vere devoluzioni. Se formalmente le decidono, le burocrazie se le adattano alle proprie esigenze predatorie, moltiplicando ed ampliando la predazione burocratica.

Così, la formalizzazione Costituzionale del principio di sussidiarietà, nello spazio italico, come in tutti gli spazi a Stato, dunque a società, malato, non ha prodotto reali cambiamenti. Ha solo creato qualche discussione marginale. Le attività volontarie e private esistevano già, senza il bisogno le sancisse un qualche principio. Del resto, la sussidiarietà non è quello. Si fonda certo sull’iniziativa privata ed individuale, come di individui associati, ma in interazione con livelli statali e pubblici provvedano servizi che a livelli inferiori possano essere forniti meglio e in modo più efficiente. Oppure in contrario. Il livello superiore può fornire servizi un livello inferiore non sa o vuole fornire in modo efficiente. Nel concetto di sussidiarietà v’è pure quello di sostituzione, pur limitata all’opportunità ed al vantaggio. Il concetto di efficienza e di profitto sono indissolubili dal concetto di sussidiarietà. Nello spazio italico sono culture e comportamenti che mancano, o sono nettamente minoritari ed avversati un po’ da tutti. Inoltre, per il funzionamento del principio di sussidiarietà occorrerebbero amministrazioni statali e pubbliche efficienti e flessibili, cosa che assolutamente non è né mai sarà nel contesto dato. Non c’è sussidiarietà senza flessibilità amministrativa.

Nel contesto di Stati predatori, dunque irrimediabilmente malati, all’italica, devoluzioni, vere autonomie locali, federalismi, così come centralismi, vere sussidiarietà, non sono possibili. Non c’è soluzione, non c’è “alternativa”, non sono possibili riforme di ciò non funziona né può funzionare, se non la distruzione o la dissoluzione, senza sostituzione, di tutto.

Gli Stati falliscono a seguito di fallimenti Costituzionali [*]. I fallimenti Costituzionali si possono sviluppare al di là delle Costituzioni formali, per quanto mal fatte possano essere. Neppure basta imporre “buone” Costituzioni formali che, comunque, nel contesto di Stati in via di fallimento nessuno riesce, spesso, neppure ad “imporre”.

Qualcuno, nell’ambito del discorso pubblico (su media con un minimo, almeno, di risonanza), ha cominciato ad evocare, con desiderio, “dittatori” alla anni ’30. La dittatura quirinalizio-oligarchica c’è già, anzi s’è rafforzata con la Repubblica. Ci sarebbe semmai da preoccuparsi (nel senso di prestare attenzione), nel discorso pubblico, del perché non funzioni. Non si dimentichi mai che il fascismo italico è stata una manovra quirinalizia: Quirinale, oligarchie, carabinieri. Come tutto quello accaduto fino ad oggi, con periodiche promesse di svolte magiche, ...di CC-procure e propaganda sui media dell’oligarchia! Nulla cambia, nella struttura, se si va all’essenza delle cose. I “fascismi” sono stati, in taluni contesti (Germania, Spagna), fenomeni o di crescita o di ristrutturazione. Nello spazio italico, lo stesso fascismo (versione romanesca dei già vani giacobinismo ed illuminismo francesi) ha solo avuto un ruolo sia di evidenziazione di debolezze insuperabili che di dilazioni di dissoluzioni sarebbero già dovute avvenire da tempo con vantaggio di tutti. Con dissoluzione intendiamo la dissoluzione di questo Stato artificiale e compradoro che come unica caratteristica “unificante” ha l’essere sotto [nelle carte geografiche orientate] le Alpi. Decisamente poco, per dimostrarne, anche solo di retorica, una qualche utilità.

[*] http://www.ecsanet.org/conferences/ecsaworld2/leschke.htm

05 November 2007

Lettera da Lhasa numero 93. CrisisWatch N. 51

Lettera da Lhasa numero 93. CrisisWatch N. 51
by Roberto Scaruffi

CrisisWatch N. 51, 1 November 2007
http://www.crisisgroup.org/home/getfile.cfm?id=3169&tid=5135&type=pdf&l=1
http://www.crisisgroup.org/home/getfile.cfm?id=3169&type=word&tid=5135&l=1


Il Rapporto rappresenta, per l’ottobre 2007, cinque tipi di situazioni: aggravate, migliorate, immutate, rischi di conflitto, opportunità di risoluzione di conflitti.

Situazioni migliorate non ve ne sono.

Le aggravate sono Bosnia-Herzegovina, Iran, Myanmar/Burma, Nepal, Pakistan, Somalia, Somaliland (Somalia), Sri Lanka, Sudan.

Le immutate sono una lunga lista.

I rischi di conflitto sono Ethiopia/Eritrea e Pakistan.

Le opportunità di risoluzione di conflitti contengono un solo caso, Israele/Territori Occupati.

Quest’ultimo caso, pur forse inevitabile nella sommarietà della classificazione generale, perché gli Stati Uniti hanno lanciato una delle loro periodiche iniziative di “soluzione” definitiva, sembra tuttavia, ad una analisi più attenta, alla vigilia di drammatici aggravamenti. Non si intravvede infatti nessuna possibile soluzione mentre un instabile equilibrio annuncia ulteriori esplosioni che possono verificarsi in qualunque momento, eventualmente dopo un ulteriore prolungamento dell’attuale stallo tuttavia per nulla pacifico visto che i razzi continuano a essere lanciati su Israele, anzi ora con dotazioni più sofisticate nelle aree della ANP od ex-ANP. Ciò anche senza interventi dal Libano, dove le forze pro-iraniane sono state ridotate di missili ora in grado raggiungere Tel Aviv. Non sembrano invero armamenti da pura guerra civile libanese. Tutta l’area è del resto alla vigilia di ulteriori esplosioni volute un po’ da quasi tutte le parti.

Nel Rapporto, si potranno trovare ora rapidi aggiornamenti, ora qualche occasionale notizia, sulle decine di casi che sono nelle classificazioni sopra citate.


CrisisWatch N. 51, 1 November 2007
http://www.crisisgroup.org/home/getfile.cfm?id=3169&tid=5135&type=pdf&l=1
http://www.crisisgroup.org/home/getfile.cfm?id=3169&type=word&tid=5135&l=1

Lettera da Lhasa numero 92. Governo “tecnico” come governo di colpo di Stato per Stati sottosviluppisti che vogliano rimanerlo

Lettera da Lhasa numero 92. Governo “tecnico” come governo di colpo di Stato per Stati sottosviluppisti che vogliano rimanerlo
by Roberto Scaruffi

Tecnocrazia è il potere dei tecnici, degli esperti. Per quanto, non essendo tecnici ed esperti una categoria univoca, la formula è inevitabilmente un’astrazione. Tecnico è ciò che si riferisce ad un campo specifico e richiede dunque conoscenze specifiche. Conoscenze e tecniche sono influenzate da orientamenti diversi.

In politica, dove l’arte delle confusione predomina, è facile trovare confusioni o l’uso d’un concetto per alludere all’altro o ad altri. Talvolta, si tratta solo, forse, di perplessità del traduttore per cui per tradurre in inglese “tecnico” si usa “tecnocratico” perché magari “tecnico” è giudicato intraducibile, mentre sarebbe stato meglio rendere l’intraducubilità di “tecnico” col suo equivalente inglese, senza “venderlo” come “tecnocratico” che è tutt’altra cosa. In Italia, il golpismo quirinalizio-madiobanchista non ha prodotto tecnocrati, solo burocrazie corrotte e sottosviluppiste che si sono ancor più fatte governo, in taluni momenti perfino formale.

Che tecnocrazie, dove esistono, si facciano governo formale diretto non è particolarmente auspicabile, non essendo la scienza e la tecnica mai univoche dunque neppure gli esperti portavoci d’un sapere univoco ed indiscutibile. La politica dovrebbe essere, o cercare di essere, portatrice di interessi generali, almeno dove essa controlli davvero le vaste burocrazie statali e “pubbliche”.

Dove la politica non controlla nulla, se non le nomine, ma non le burocrazie, è facile forse rivendicare il governo diretto del “tecnico”, cioè del burocrate incontrollabile, sebbene, lo stesso burocrate di vertice, nel momento in cui viene fatto statista è incapace, come il politico, spesso ancor meno del politico, di controlare e dirigere burocrazie incontrollabili. Le burocrazie sono incontrollabili dalla politica quando sono, in realtà, talmente corrotte e feudalizzate, che gli stessi vertici burocratici non controllano gli altri livelli. Il burocrate fatto statista è un esperto nell’arte delle corruzione e delle feudalizzazione burocratica, per cui non si vede che vantaggi rappresenti rispetto al politico. Semmai il politico professionale è più scaltro nel destreggiarsi tra burocrazie sostanzialmente incontrollabili, dunque più capace di uno loro qualche uso e neutralizzazione, che il burocrate improvvisatosi politico e statista. Il burocrate, il “tecnico”, ha tutti gli inconveniente del politico, senza averne pressoché mai qualcuno dei pregi che il politico può avere. In contesti corrotti, non c’è mai “l’alternativa” alla corruzione se non la distruzione di tutto senza rimpiazzo, perché, come esperienze storiche mostrano, quando si aprono anche solo spiragli al rimpiazzo del distrutto alla fine o non si distrugge nulla o si rimpiatta tutto o gran parte di esso col preesistente corrotto e dannoso.

In realtà i “governi tecnici” sono governi di colpo di Stato. Altra cosa sono governi politici magari strumentalmente accusati di essere “governi tecnocratici” perché esprimono qualche pretesa o pretenziosità modernizzatrice. Il “governo tecnico” è un governo di colpo di Stato. Non è altro. Infatti, è soprattutto dall’esperienza dei colpi di Stato italici promossi dal Quirinale, con agenti speciali, Carabinieri, Inteni, GdF e Procure (che in Italia sono a strettissimo controllo quirinalizio; si veda la legislazione sul CSM), che la formula di “governi tecnico” o di “governo dei tecnici” è stata coniata e diffusa. Fa parte dell’inganno propagandistico definire i colpi di Stato all’italico-quirinalizia come grandi operazioni di pulizia, di rigenerazione morale etc. ed i governi che ne scaturiscono come “governi tecnici”. Del resto, la Repubblica italico-quirinalizia s’è caratterizzata fin dalle origini per un sistema di governo che, mentre destrutturava e clientelizzava ulteriormente lo Stato e lo predava a vantaggio delle oligarchie burocratiche, sindacal-corporative e “private, si legittimava di fronte alle masse con stragi ed omicidi politici tutti regolarmente di Stato, col PCI (e poi le sue metamorfosi e frammentazioni successive) ed i media dell’oligarchia predatoria che contribuivano alla copertura “culturale” con l’agitazione di oscuri ed indefiniti complotti “reazionari” oppure “imperialistici” e simili, da cui solo “l’unità democratica” (cioè il regime DC-PCI-Mediobanca) garantiva difesa.

Altra cosa è l’uso del concetto di tecnocrate o governo tecnocratico. Si parla di governi tecnocratici per riferirsi a governi con personale con attitudini specialistiche prima che politico-politicantiche e deputato a modernizzazioni ora settoriali ora globali. Oppure lo si trova riferito a gruppi di personale tecnico all’interno di meccanismi di governo reale. In analisi correnti sull’America latina viene usato, per esempio, riferito a contesti come il messicano ed il colombiano, che sono regimi presidenziali col Presidente che è anche capo del governo. Si fanno paragoni tra, ora governi tecnocratici, ora gruppi di tecnocrati, ed i gruppi e corpi tecnocratici della burocrazia francese che partecipano al governo reale dello Stato.

Questi sono appunto casi differenti dal “governo tecnico”, nella connotazione che ha avuto nell’Italia del golpismo Presidenziale. In Italia, s’è parlato di “governi tecnici” per dire che erano governi non politici, cioè non a vera base democratico-elettorale, e per non dire che erano governi di colpo di Stato, pur di colpo di Stato di tipo particolare, poliziesco-giudiziario a direzione quirinalizia in coordinamento con l’oligarchia finanziaria (che in Italia controlla direttamente i media).

Che governi formali o reali possano avere forti componenti tecnocratiche fa parte della normalità anche democratica. Essendo la politica sia organizzazione del consenso che direzione di corpi tecnico-amministrativi, ogni governo di realtà volessero modernizzarsi o continuare modernizzazioni dovrebbe avere forti componenti tecnocratiche, nel senso che ogni governo [politico] dovrebbe disporre di tecnocrati per l’esecuzione ottimale delle sue politiche.

La realtà è più complessa delle astrazioni. Non si dimentichi che esistono contesti, come il giapponese, dove le burocrazie statali governano mentre la politica ha prevalentemente una funzione copertura di questo governo reale occulto di tecnocrati modernizzatori, pur di tipo particolare perché i burocrati sviluppisti giapponesi hanno sempre diffidato della direzione politica da parte di specialisti, cui spettano solo compiti esecutivi specifici. Fra l’estremo di corpi tecnici o tecnocratici essenzialmente esecutivi ed, al contrario, che abbiano tutto il potere di governo reale, esistono inevitabilmente mille dosaggi tra ruolo della politica e dinamiche burocratiche. Così come la politica risponde in ogni luogo ad esigenze e pulsioni differenti, le burocrazie vanno da quelle sviluppiste dei developmental States a quelle predatorio-parassitarie come quelle italiche o come quelle dell’Africa centrale. Una burocrazia puo essere “tecnocratico”-sviluppista come essere una casta parassitaria e sottosviluppista. Ogni concetto generale cela dunque sempre realtà radicalmente differenti.


http://globaledge.msu.edu/
http://globaledge.msu.edu/ibrd/CountryGovt.asp?CountryID=59&RegionID=2

“From 1992 to 1997, Italy faced significant challenges as voters--disenchanted with past political paralysis, massive government debt, extensive corruption, and organized crime's considerable influence--demanded political, economic, and ethical reforms. In 1993 referendums, voters approved substantial changes, including moving from a proportional to a largely majoritarian electoral system and the abolishment of some ministries.
“Major political parties, beset by scandal and loss of voter confidence, underwent far-reaching changes. New political forces and new alignments of power emerged in March 1994 national elections. The election saw a major turnover in the new parliament, with 452 out of 630 deputies and 213 out of 315 senators elected for the first time. The 1994 elections also swept media magnate Silvio Berlusconi--and his "Freedom Pole" coalition--into office as Prime Minister. Berlusconi, however, was forced to step down in January 1995 when one member of his coalition withdrew support. The Berlusconi government was succeeded by a technical government headed by Prime Minister Lamberto Dini, which fell in early 1996.”


Maksim Glikin, Who’s Really in the Russian Government? His Name Is Unknown, His Deeds Incomparable, Nezavisimava Gazeta (centrist), 26 February 2004, Moscow, Russia
http://www.worldpress.org/Europe/1816.cfm

“There are not, and cannot be, any other centers of decision-making or significant political forces apart from the president himself. All others perform purely technical or ceremonial functions. The technical government, a technical presidential administration, a nominal director of the presidential administration, a ceremonial bicameral legislature, the so-called courts. No one doubts any longer that there is only one legislator, executor, and judge in this country. The rest serve as smoke screens for Western observers.”


http://www.quepasa.com/english/news/world/weak.Italian.government/454454.html
Weak Italian government forecast due to election results, Notimex, 14 April 2006, Rome, Italy.

“Sartori was the first expert to talk about the possibility, after the election was almost a tie, that the way out would be to have a great government alliance among the moderate parties in the two contender coalitions.
“"A great government coalition could be formed with both of the biggest moderate parties from both coalitions (the Union and the House of Freedom), and let everyone else out," he stated.
“"Another solution, would be the creation of a technical government (in charge of the administrative issues), waiting for a new election."
“"But politicians prefer going immediately for the election, and not for a technical government," he stated.
“He highlighted that having a parliamentary regime in Italy, there is the problem of ruling with very large coalitions that may be divided in the votes for certain initiatives.
“Sartori also criticized current Italian Premier Silvio Berlusconi, who led the coalition that lost, and whom he described as someone "that doesn't recognize any kind of proper behavior."
“On the other hand, he stated that Prodi "is not a great politician," but has been protected by some laws "just like the current Premier."
“Also, the expert attributed Berlusconi's electoral recovery to the "great propaganda in the media" he has led.”


Technical government, From Wikipedia, the free encyclopedia,
http://en.wikipedia.org/wiki/Technical_government

“A technical government is a non-party government made up of unelected 'technocrats' such as civil servants, magistrates or experts from outside the political circle such as bankers instead of members of the country's legislature. They are usually formed when it is impossible for a government to be formed until new elections are held in order to ensure administrative functions are carried out. In many countries the constitution precludes the formation of technical governments.
“An example of a technical government is the government of Italy led by Carlo Azeglio Ciampi, a former governor of the national bank, from March 25, 1993 until May 1994, or Lamberto Dini's government which held office from January 1995 until April 1996.”


Maurizio Cotta and Luca Verzichelli, MINISTERS IN ITALY: NOTABLES, PARTYMEN, TECHNOCRATS and MEDIAMEN, CIRCaP, University of Siena,
http://www.eurelite.uni-jena.de/eurelite/publications/papers/Cotta_Verzichelli_MINISTERS%20%20IN%20ITALY.pdf

The crisis of party democracy (1992-1996)
“The 90s saw a sudden and dramatic crisis of the Italian system of party government (Cotta and Isernia 1996). As a result of the unexpected breakdown of the five traditional governing parties (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) and of the inability of the opposition parties to form an alternative coalition there was a period of “technical governments”. The Amato government of 1992, at least in part, and more fully the Ciampi government of 1993 and the Dini government of 1995, can be defined in this way. These governments were formed on the basis of some highly selective functional needs of the country in that historical moment (facing a currency crisis, reducing the budgetary deficit and the huge state debt, implementing the new electoral reform, writing a pension reform) rather than as the result of the political priorities of the parties. It is not a case that two of the prime ministers were high officials of a technocratic institution as the Bank of Italy. During this period only the first Berlusconi government (1994-1995) was a return to a fully political cabinet, but due to its rapid failure the interruption of the technocratic period was short.
In the technical governments, but also in other governments of the 90s the proportion of ministers without a parliamentary experience has been much higher than in the past (Table 3). If a technocratic minister is defined as a person which is totally lacking both a parliamentary and a party background and has, on the contrary, some kind of specialist background related to the ministry he or she occupies, the Ciampi and Dini governments appear heavily loaded with such a type of ministers (Table 15). But such a category of ministers plays a significant role also in the other two cabinets of this periods.
“This new phenomenon, which indicates a clear break with the “long cycle” of 1946-1992, may be linked to some extent with a broader European trend of the recent years characterized by a generalised growth of technically specialised ministers (Blondel 2001). In Italy however this trend was clearly strengthened by other factors: in primis, by the deep organisational decline (becoming in some cases, a real collapse) of political parties, and secondly, by the development of a number of “crucial” ministerial posts within the government where the pressing functional requirements favour the recruitment of purely technocratic personalities or mixed ones (politicians with technical skills). This development was probably encouraged by prime ministers as a mean for gaining a higher degree of control over the cabinet with the help of technical watch-dogs. Among these positions, the Treasury is the best example.”


Renato Brunetta, Italy's other left, Daedalus, Summer 2001
http://www.amacad.org/publications/daedalus.aspx

“After the end of the last historic Center-Left period of governance, two so-called technocratic governments followed. The first was headed by Carlo Azeglio Ciampi, who had been governor of the Bank of Italy. This government contained several ministers who had been nominated by the PCI/PDS. After a vote by the Italian Parliament that prevented the magistrates from proceeding against Craxi, these ministers resigned in protest. They were replaced by various technical experts. The second technocratic government was the controversial one led by Lamberto Dini. It was during the Ciampi government that a new balance of power emerged, sometimes inaccurately dubbed the "Second Republic."
“Under the Ciampi government, the PCI/PDS entered into a government of national unity together with the parties of the old Center-Left, who were by now fighting for their lives. But this was not enough, as, after its change of name, the PDS began to step entirely into the by-now-moribund Socialist Party's (PSI) shoes. In 1992-1993, the PDS joined the Socialist International. The industrial relations pact signed under Ciampi on July 23, 1993, was the first fruit of this steady replacement of the PSI by the PDS. It fine-tuned the agreement reached a year earlier on July 31, 1992, by the Amato government. Conditions were more favorable for the Ciampi government than they had been for Amato's, and the "Ciampi Pact" negotiated with unions and industry laid down the rules for a new wage bargaining system.
[…]
“The Ciampi government was not characterized by either financial rigor or reformist impulses. In 1993-1994, owing to heavy taxation, government revenues made the biggest contribution to the economic turnaround (as had happened under the Amato government's budget the previous year).”


Eduardo Nava Hernández, Cultura Política y Posmodernidad,
http://www.economia.umich.mx/publicaciones/EconYSoc/ES10_18.htm

[...]
“Al proponer un proyecto modernizador que prescindiera de la democracia política (y, más aún, de la social), los gobiernos tecnocráticos de los ochenta y de los noventa distaban de estar innovando algo a la política nacional mexicana. En realidad, eran meros continuadores de una veterana tradición dictada por el régimen posrevolucionario que se concibió siempre a sí mismo como un Estado tutelar, nacionalista, desarrollista, industrializador, redistribuitivo, solidario, etcétera, pero jamás democrático. La nunca alcanzada democratización fue siempre un fin secundario y subordinado que, en su perspectiva, podía y debía esperar hasta ver cumplidas las elevadas metas sociales y económicas del Estado (pos) revolucionario, por lo demás igualmente huidizas y distantes.”
[...]
“La paradoja de la política tecnoburocrática de todos los signos políticos consistió en haberse propuesto modernizar a una sociedad instalada desde varias décadas atrás en la modernidad y que, en muchos de sus rasgos, configura ya un perfil de posmodernidad1. Como lo afirmara Roger Bartra, los gobiernos tecnocráticos derivados del PRI le quedaron chicos al país porque lo administraron sobre la base de viejas premisas; porque desde su estrecha visión economicista no alcanzaron a ver que ?en una nueva cultura, en una nueva civilidad, ya no es posible disociar la democracia de la legitimidad?2. El riesgo para el bisoño régimen pospriísta es, a la inversa, quedar paralizado, víctima de su propio éxito político?electoral y de una legitimidad alcanzada con la incumplida oferta del cambio.”
[...]
“En el divorcio o desfase entre modernización económica y democracia política y social se ubica una de las grandes brechas de nuestro desarrollo y uno de los elementos que, haciendo inviable el proyecto de modernización planteado por las elites tecnocrático?empresariales que se han sucedido en el poder, más han contribuido a profundizar y hacer crónica la crisis social.”


“Industrial and labor policies proposed by technocratic governments (De la Madrid, Salinas de Gortari and Zedillo) have led to the introduction of flexibilization modalities in production, [...].”
(Mtro. Alberto Arroyo Picard et al., Balance of North American Free Trade Agreement in Mexico. Lessons for the Free Trade Area of the Americas negotiations, Mexican Action Network on Free Trade
http://quest.quixote.org/sites/quest.quixote.org/files/pdfs/albertoarroyo.pdf ).

“In Mexico, neoliberalism as an ideology and an economic model was imposed through the structural adjustments promoted by the World Bank, and the commitments made in the Letters of Intention signed by our country with the IMF. Of course, this process was not only promoted from the outside —there were internal actors involved as well. Specifically, there was a tendency within the official party, the Institutional Revolutionary Party (Partido Revolucionario Institucional—PRI), referred to as the “technocrats.” This tendency became increasingly stronger and became the enthusiastic operator of this policy from the highest levels of government.
“Since the mid-1970s, it had become clear that a change in economic strategy was needed. The model referred to as the stabilizing development and/or the import substitution model had lost its viability. The new neoliberal strategy, however, was not implemented as the result of a democratic process of national consensus, but was rather imposed from the heights of international and national power.”
(Mtro. Alberto Arroyo Picard et al., Balance of North American Free Trade Agreement in Mexico. Lessons for the Free Trade Area of the Americas negotiations, Mexican Action Network on Free Trade
http://quest.quixote.org/sites/quest.quixote.org/files/pdfs/albertoarroyo.pdf ).

Lettera da Lhasa numero 91. MER n. 69 su Hizbollah nella crisi libanese

Lettera da Lhasa numero 91. MER n. 69 su Hizbollah nella crisi libanese
by Roberto Scaruffi

Hizbollah and the Lebanese Crisis, Middle East Report N. 69, 10 October 2007,
http://www.crisisgroup.org/home/getfile.cfm?id=3148&tid=5113&type=pdf&l=1
http://www.crisisgroup.org/home/getfile.cfm?id=3148&type=word&tid=5113&l=1


La rappresentazione della situazione libanese, da parte del Rapporto, è quella di un instabile equilibrio di forze dove tanto vale accettare formalmente la FFAA di Hizbollah, sì da pretendere in cambio che esse eccettino limiti operativi:
“If the election is to be more than a mere prelude to the next showdown, all parties and their external allies need to move away from maximalist demands and agree on a package deal that accepts for now Hizbollah’s armed status while constraining the ways in which its weapons can be used.
“Looking back over the past ten months, Lebanese can feel somewhat relieved. The massive demonstrations in December 2006, followed by a general strike and clashes between pro- and anti-government forces with strong sectarian overtones, as well as a series of assassinations and car bombs, brought the nation perilously close to breakdown. State institutions are virtually paralysed; the government barely governs; the economic crisis is deepening; mediation efforts have failed; political murders continue; and militias, anticipating possible renewed conflict, are rearming. Still, fearful of the consequences of their own actions, leaders of virtually every shade took a welcome step back.
“An important explanation lies in Hizbollah’s realisation that its efforts to bring down the government carried dangerous consequences. [...]”

Hizbollah viene descritto sulla difensiva e come in stallo o, eventualmente, in attesa, visto che alla fine nel M.O. ogni entità obiettivamente piccola si muove secondo interessi pîù grandi, per quanto lo stesso Hizbollah non manchi di un suo solido radicamento locale:
“Hizbollah faces other dilemmas. Deployment of the army and of a reinforced United Nations (UN) force at the Israeli border have significantly reduced its military margin of manoeuvre. The movement’s Shiite social base also is exhausted and war-weary, a result of Israel’s intensive campaign. Sectarian tensions restrict Shiites’ capacity to take refuge among other communities in the event of renewed confrontation with Israel. Hizbollah thus has been forced into a defensive mode, prepared for conflict but far from eager for it.
“Hizbollah appears to be in search of a solution that defuses sectarian tensions and reflects its new military posture. Its discomfort presents an opportunity to make some progress on the question of its armed status. Of course, Hizbollah will not compromise at any price. Its priorities are clear: to maintain its weapons and protect Lebanon as well as the Middle East from Israeli and U.S. influence through a so-called axis of refusal that includes Iran, Syria and Hamas. Should it feel the need, it likely would perpetuate Lebanon’s political paralysis, even at the cost of further alienating non-Shiites; mobilise its constituents, even at the risk of reducing itself ever more to a sectarian movement; and protect Syrian or Iranian interests, even at the expense of its national reputation.”

È sempre proficuo cercare la cause materiale dei comportamenti. La situazione descritta di Hizbollah evidentemente deriva da banali questioni di armamenti. Sugli armamenti fonda la sua forza anche locale. Dagli armamenti ricevuti, non comprati, deriva la sua dipendenza da potenze d’area. Sugli armamenti e sui soldi fonda la sua forza, anche imprenditoriale. Su di essi si fonda pure una sua debolezza sebbene, nel Libano feudalizzato tra gruppi etnici e clan di potere, nel Libano strutturalmente mafioso (senza dare al termine alcun significato moralistico-negativo), nessuno avrebbe potuto costruire un movimento che rompe la tradizionale divisione mafiosa, un movimento in qualche modo nazionale, senza armamenti potenti e dunque con conseguente (essendo armamenti offensivi e da utilizzarsi contro Israele) dipendenza estera. Del resto, all’Iran fa più che mai comodo un movimento radicato su territori che s’affacciano al Mediterraneo e che lambisce e si insinua in aree di influenza sunnita, dunque arabo-saudita. Lo scontro è tra persiani ed arabi, con Israele come scusa e con gli USA ed altre potenze che sostengono, in genere, gli arabi. Si ragioni in termini di interessi ed in subordine e, come forma (nell’immaginario ed anche come caratteristiche operative) degli interessi, di “civilizzazioni”, più che con etichette religiose (“l’Islam”) che non significano mai pressoché nulla. Hizbollah e Iran sono contro Israele solo perché sono contro gli USA che sono dal lato arabo, o di rilevanti potenze arabe. Nello scontro per la conquista, o così credono, di masse arabe, la “lotta contro Israele” fa parte della coreografia. Certo, i vari furiosi anti-israeliani (anti-“sionisti”) non si limitano alle sole parole. Non importa se sia una coreografia malata o se abbia qualche base. Personalmente, non vedo alcuna base reale per la forsennata opposizione a Israele. Evidentemente, a forze potenti (gli inglesi) ha fatto comodo creare “il nemico” (Israele, “il sionismo”, gli ebrei) ed affrirlo a chi evidentemente era predisposto a scatenarsi contro obiettivi fasulli: “gli ebrei”, “Israele”, “i cristiani”, “l’occidente”, etc. Ciò che non ha base reale secondo criteri di fredda razionalità, lo ha secondo criteri malati che sono poi quelli predominanti un po’ dappertutto. Così è.

Del resto, se nel Libano mafioso, già francese, è facile ad un certo punto rivendicare una sorta di “potere islamico” a seguito di cambiamenti demografici che rendono la galassia cristiana (anche quella “islamica” era ed è una galassia di clan) minoranza, è perché il Libano non esisteva davvero come Stato universale, oltre le singole etnie, e con una classe dirigente che potesse continuare a dominare più o meno occulta qualunque fosse stata l’evoluzione etnica, magari evolvendo con l’evolvere della composizione etnica e dei poteri reali essa avesse espresso nelle varie epoche. Anche gli USA sono a base etnica e strutturati come una federazione mafiosa di clan etnici, sebbene almeno fino ad ora mostrino la capacità di oligarchie sviluppiste di sovrastare la variazione dei rapporti quantitativi e di potere tra gruppi etnici. Non essendoci ancora, negli USA, una maggioranza “cattolico-latina” manca tuttavia la prova decisiva che essi stessi possano reggere una mutazione quantitativa etnica decisiva. Vi si attrezzano, tuttavia, con gli attacchi alla chiesa cattolica per favorire la moda degli irresistibili predicatori cristiani non cattolico-romani, predicatori poi agganciati al potere centrale. Il Libano “Svizzera del M.O.” è volato ed è stato fatto volare in pezzi piuttosto facilmente da interessi prossimi e meno prossimi.

Non si segua comunque la linea di divisione cristiani-islamici, in Libano. I gruppi cristiani sono vari e ciascuno con proprie gerachie e milizie. Egualmente, il “potere islamico” segue più la struttura mafioso-clanistica del Libano, con conseguenti connessioni ed avversioni estere, non criteri strettamente religiosi. Se l’area cristiana può essere divisa tra interessi d’area inglese e francese, ma in varie situazioni si sono avute pure convergenze con gli occupanti siriani, quella islamica segue (e si fa servire da), nelle sue varie frazioni, gli interessi diversi dei vari Stati islamici dell’area.

Per esempio, la famiglia Hariri è una famiglia mafiosa, od un clan se si preferisce, con, di fatto, radici saudite visto che la sua ricchezza origina lì e le sue connessioni estere sono restate lì. Soprattutto in quell’area del mondo, non esistono la ricchezza indipendente dal potere, il potere indipendente dalla ricchezza ed il potere e la ricchezza indipendenti da reti di connessioni e di protezioni. Se non sei lupo, sei mangiato. Non che sia una colpa, ma è così. Tra l’altro, ed è un fatto, Rafik Bahaeddine Al-Hariri (1944-2005) cercava di armonizarsi con le altre frazioni o clan a famiglie o gruppi mafiosi o paramafiosi dell’area libanese e che compongono il Libano, senza assumere comportamenti antagonisti, né in genere sembrava prediligere comportamenti estremisti contro chicchessia, se certe sue dichiarazioni sono veritiere. Non ci interessa qui dir nulla sulla sua uccisione con una tonnellata di esplosino che, in un contesto come il libanese, può avere le origini e le cause più differenti. La conseguenza è stata quella di compattare i sunniti, innazitutto contro gli sciiti, dunque contro Hizbollah, parentesi belliche (“antimperialiste”) a parte.

Problematico il ruolo di Aoun (che da un punto di vista religioso sarebbe dell’area cristiana) e la sua alleanza con Hizbollah. Aoun sembrebbe un fautore del Libano, un Libano immaginario, mentre tutti mirano alla preservazione ed alla difesa, ed eventualmente sviluppo, del proprio clan etnico. Un progetto di frantumazione con poi, eventualmente, ricostruzione formale debole confederale solo per alcuni compiti amministrativi generali sembrerebbe decisamente più realistica e prolifica d’un vecchio generale cristiano che sogna di divenire lui il Presidente del Libano per costruire un Libano unitario con FFAA e polizia uniche e con potere su tutto il territorio dello Stato. Hizbollah, mentre mostra di convergere col sogno immaginario di Aoun, se non altro per avere il suo appoggio logistico e politico in un campo altrimenti avverso, improbabilmente si lascerebbe disarmare in nome di FFAA libanesi che non si capisce come potrebbere travalicare le divisioni etnico-mafiose e garantire uno Stato capace di dare protezione a tutti in quanto singoli, non in quanto gruppi etnico-mafiosi tra gruppi etnico-mafiosi.

Dopo lo scontro ultimo con Israele, quello del 2006, Hizbollah, ma pure suoi alleati ed altre componenti, si sono dotati di armamenti sofisticati ed hanno espanso le proprie FFAA, ciò che può essere utile per qualunque evenienza sia interna libanese, che contro forze estere, che per una combinanzione di entrambe le necessità. Per quanto, contro Israele, che ha seguito criteri di guerra tradizionale e pure malamente, Hizbollah abbia subito notevoli perdite, ha tuttavia mostrato una certa forza e capacità sia offensiva che difensiva in una guerra tradizionale contro FFAA moderne. Con adeguate unità di difesa anti-aerea ed anti-carro è ora divenuta ancora più temibile, soprattutto contro FFAA che seguano criteri da assalto frontale. È comunque tutto utilissimo per una guerra civile pure se aiutata direttamente da FFAA estere. Del resto, quanto al sostegno a propri “alleati”, gli USA hanno mostrato dal Vietnam all’ANP-Fatah come siano capaci di inondare i propri “amici” di soldi ed armi che costoro poi lasciano cadere in mano al nemico senza neppure aver provato ad usarle. Che le varie milizie cristiane si siano rivelate piuttosto decise, in passato, in massacri, non per questo basta inondare di soldi ed armi quelle pro-“occidentali” perché ciò le trasformi in FFAA all’altezza di guerre tecnologizzate. Mentre Hizbollah ed alleati si sono invece attrezzati, grazie all’appoggio iraniano, proprio alla guerra moderna e contro avversari con armamenti altamente tecnologizzati.

In realtà, il Rapporto non sa bene che consigliare ai libanesi. Del resto non è detto che esistano sempre soluzioni, o soluzioni “ragionevoli”:
“Lebanese parties and their foreign allies should seek a package deal on a domestic arrangement that, while postponing the question of Hizbollah’s weapons, restricts their usage – in other words, that neither resolves nor ignores the problem. The elements of the deal will be neither easy to negotiate nor a panacea, and they will provide at best a temporary reprieve. Without fundamental political reform, Lebanon’s political system – based on power sharing between sectarian factions – inevitably will encourage cyclic crises, governmental deadlock, unaccountability and sectarianism. More importantly, the country’s future is intricately tied to the regional confrontation that plunged it into armed conflict with Israel, paralysed its politics and brought it to the brink of renewed civil war. There can be no sustainable solution for Lebanon without a solution that addresses those issues as well – beginning with relations between the U.S., Israel, Syria and Iran.”

Un qualche equilibrio instabile c’è già e durerà finché durerà. Non ancora per molto, verosimilmente, per quanto non si possa mai sapere. Quanto alla “fundamental political reform” non sono cose si facciano a tavolino. Non si passa per magia, né per trattative a tavoluno od imposte da potenze, da una struttura mafiosa o feudalizzata ad uno Stato. Non è neppure detto che l’alternativa sia che il Libano resti uno Stato formale. In realtà, oggi come oggi, l’unico che potrebbe trasformare il Libano in uno Stato sarebbe proprio Hizbollah che ha la struttura meno (o non) mafiosa in Libano. Un po’ come, in Afganistan, gli unici in grado di garantire uno Stato unitario e centralizzato erano e sono i talebani mentre in Iraq era Saddam Hussein con la sua micro etnia. Non che stati unitari siano un dogma né siano necessariamente garanzia di stabilità e benessere. Tuttavia, se lo si assume come un valore, inutile operare per distruggerlo e poi dire che si vuole uno Stato unito e pacifico e prospero. A voler immaginare scenari senza paraocchi, se una potenza imperiale volesse unificare e pacificare il Libano dovrebbe sfilare Hizbollah agli iraniani con soldi ed armi ed usarlo per l’unificazione rivoluzionaria del Libano. Altrimenti, la frammentazione libanese può durare all’infinito. Che la frammentazione sia poi conflittuale o meno dipende da interventi esterni. Al contrario, non è neppure che un Libano lasciato a sé stesso, con i vari clan a gestirsi i propri affari interni, debba essere conflittuale. Già, e da molto, vivono e coesistono a quel modo. Sebbene, con l’Iran in espansione contro lo spazio arabo-saudita, di certo da quel lato lì non vi sarebbe un non uso del Libano così come non vi sarebbe un non intervento o un non controintervento saudita ed egiziano. Qualcuno volesse mai ipotizzare delle soluzioni, non dovrebbe prescindere dalle forze in campo. In Rapporto, invece, ne prescinde. Anzi, si basa sui luoghi comuni giornalistici in cui la penisola arabica, coi suoi vari ricchissimi e talvolta potentissimi Stati, e l’Egitto e gli inglesi (il Regno Unito) non ci sono mai.

Il Rapporto ricorda come Hizbollah si sia formato sia contro Israele che contro i “palestinesi”. Anzi, il cemento di Hizbollah è stato proprio l’avversione delle popolazioni del Libano ai “palestinesi” che spadroneggiavano e derubavano le popolazioni. In pratica, Hizbollah s’è sostituito ai palestinesi con una strumentale lotta contro Israele che serviva come legittimazione contro i “palestinesi” che dunque si rivelavano inutili ai fini della loro stessa lotta dichiarata. Lo spadroneggiare “palestinese” aveva portato le popolazioni a simpatizzare per gli israeliani. Poi, erano riprevalsi imperativi etnici, a parte che Hizbollah s’è costruito come potenze organizzazione economica e d’assistenza sociale. Lo stesso imperativo etnico “anti-israeliano” non era nato o rinato senza beneficio per le popolaizoni che anzi Hizbollah ha largamente sussisidato e reso produttive.

Nelle Raccomandazioni del Rapporto, non sembrano una gran cosa i consigli di elezione consensuale del Presidente e l’adozione di risoluzioni ministeriali su varie questioni aperte. Ci sarebbe semmai da chiedersi che senso abbiano un Presidente ed un Governo. In contesti di quel tipo, cariche formali significano burocrazie e burocrazie significano fette di corruzione ufficializzata. Alla fine, non costerebbe meno e non sarebbe più produttivo, dal punto di vista di una potenza imperiale, lasciare un Libano di autonomie locali alla Siria o, addirittura, se la Siria (dove il regime formale non ha un grande radicamento) preferisse i fanatismi a comportamenti d’un minimo di razionalità costruttiva, uno sfondamento della Siria con successiva occupazione di Siria e Libano da parte dei turchi? Potenze terze, e energiche, del tipo appunto della Turchia, potrebbero garantire un quadro generale di sicurezza e d’ordine pubblico lasciando poi i dettagli alle autonomie locali. Non sarebbe più produttivo e meno costoso della politica del rattoppo, per cui si finge sempre di trovare ragionevoli soluzioni del momento che nulla risolvono? Esistono pure altre opzioni, migliori, fuori dagli schemi consueti della diplomazia USA del post Seconda Guerra Mondiale, fase storica in cui si ha lo scontro metaforizzato ed occulto tra inglesi ed americani, più che tra “occidentali”, e russi ed altri. Israele sembra continuare preferire sognare piccole soluzioni locali che non si realizzano né possono realizzarsi, mentre la vera soluzione alla sua “estraneità” nell’area sarebbe che sottomettesse e garantisse le libertà di tutto spazio da Suez al confine iraniano, senza lasciare in piedi nessuno Stato arabo in quella parte d’Asia, a meno che non voglia farsi distruggere, fine che tutte le già colonie inglesi e lo stesso Regno Unito perseguono.

Le Raccomandazioni al prosssimo governo libanese ed alle varie parti hanno il tono di chi vorrebbe suggerire tavoli negoziali mentre resta prigioniero della finzione dello Stato unitario del Libano. Solo per la gestione di posti di confine e per passaporti ed altre formalità, basterebbe un piccolo Consiglio Confederale dove le unità delle Confederazione sarebbero le vari etnie e simili con le loro milizie, che del resto già esistono. Le stesse FFAA, nel momento in cui sono di fatto dipendenti dalle varie etnie al loro interno, e non hanno dunque un reale carattere unitario, sono un costo senza benefici. Le polizie si può immaginare che siano, dove ogni comunità ha di fatto le proprie polizie interne, fatte di miliziani o picciotti del clan dominante. Se si osserva la politica libanese, si vede come i capi politici siano capi clan. Neppure esiste una qualche autonomia formale tra il capo mafioso ed il leader politico e lo statista.


Hizbollah and the Lebanese Crisis, Middle East Report N. 69, 10 October 2007,
http://www.crisisgroup.org/home/getfile.cfm?id=3148&tid=5113&type=pdf&l=1
http://www.crisisgroup.org/home/getfile.cfm?id=3148&type=word&tid=5113&l=1

Lettera da Lhasa numero 90. Il World Development Report 2008

Lettera da Lhasa numero 90. Il World Development Report 2008
by Roberto Scaruffi

The World Bank, World Development Report 2008. Agriculture for Development, The World Bank Group, 2007
http://econ.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/EXTDEC/EXTRESEARCH/EXTWDRS/EXTWDR2008/0,,contentMDK:21410054~menuPK:3149676~pagePK:64167689~piPK:64167673~theSitePK:2795143,00.html
http://siteresources.worldbank.org/INTWDR2008/Resources/WDR_00_book.pdf
(WDR2008, 2007).


La filosofia di (WDR2008, 2007), di 365 pagine, è che l’aumento della produttività dell’agricoltura nei paesi ed aree sottosviluppate può essere un modo dai molteplici vantaggi di assicurare l’uscita dalla povertà delle relative popolazioni.

La discussione analitica dei differenti aspetti si accompagna ad esempi di esperienze concrete che possono in qualche modo essere assunte a modello positivo oppure per evidenziare problemi e soluzioni.

Classificati i differenti paesi in tre categorie, paesi agricoli, paesi in trasformazione, paesi urbanizzati, (WDR2008, 2007) esamina in modo dettaglio i modi differenti per sviluppare l’agricoltura ovunque esistano problemi di povertà rurale dipendenti da agricultura a bassa redditività. Gli strumenti sono strumenti finanziari, di competitività rapportata alla sostenibilità ambientale, di sviluppo e diversificazione del mercato del lavoro e dell’economia rurale non agricola, di facilitazione di emigrazione di successo dall’agricoltura.

Dunque, l’attenzione è ad uno sviluppo complessivo ed armonico che guardi oltre lo stesso sviluppo agricolo. Del resto, lo sviluppo della produttività del lavoro nell’agricoltura implica un contesto esterno lo faciliti mentre, a sua volta, produce ricchezza per lo sviluppo extra-agricolo e surplus di manodopera che necessita di rilocalizzazione sia geografica che sociale.


The World Bank, World Development Report 2008. Agriculture for Development, The World Bank Group, 2007
http://econ.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/EXTDEC/EXTRESEARCH/EXTWDRS/EXTWDR2008/0,,contentMDK:21410054~menuPK:3149676~pagePK:64167689~piPK:64167673~theSitePK:2795143,00.html
http://siteresources.worldbank.org/INTWDR2008/Resources/WDR_00_book.pdf
(WDR2008, 2007).

Lettera da Lhasa numero 89. Counterinsurgency, delle FFAA degli USA

Lettera da Lhasa numero 89. Counterinsurgency, delle FFAA degli USA
by Roberto Scaruffi

COUNTERINSURGENCY, Field Manual No. 3-24, Headquarters Department of the Army, Washington, DC, Marine Corps Warfighting Publication, No. 3-33.5, Headquarters Marine Corps Combat Development Command, Department of the Navy Headquarters, United States Marine Corps, Washington, DC, USA, 15 December 2006,
http://usacac.army.mil/cac/repository/materials/coin-fm3-24.pdf
(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006).


(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) è un manuale di un 280 pagine, delle FFAA gli USA, dedicato alla repressione delle guerra partigiana. La si chiami, se si crede, lotta contro o azione di repressione della guerra sovversiva o della guerra rivoluzionaria o del terrorismo (con caratteristiche non occasionali), o antiguerriglia. Guerra partigiana è un concetto classico, senza specifiche connotazioni politiche. Partigiano, come aggettivo, pure come sostantivo, deriva da parte, o partito ma sempre nel senso di parte. Per cui, può essere un partito più o meno politico, come una parte etnica o nazionale, od una parte di varie in conflitto. In genere, partigiano, nel senso di combattente, è usato col significato di irregolare dunque, inevitabilmente, con l’uso di mezzi di combattimento irregolari, eventualmente in parte artigianali, per quanto in guerra non vi sia mai un confine netto. Ognuno usa quel che ha o che trova, o che viene fornito. Nessuna guerra partigiana è autarchica (senz’aiuti esterni e, eventualmente, col nemico come unica o prevalente fonte di rifornimento di armamenti, oppure con industrie militari “partigiane”, ma occorrerebbero territori “liberati”), salvo che l’avversario non sia particolarmente debole. Si dovrebbe avere un caso di Stato collassato, ma allora non si avrebbe guerra partigiana autarchica bensi uno scontro tra guerre partigiane, dunque una guerra civile o lo scontro tra differenti eserciti rivoluzionari. Nel volume, ed in genere nell’asettico ma non meno ideologico linguaggio anglofono, si preferisce chiamare “insurrezione” la guerra partigiana e contro-insurrezione la sua repressione. L’acronimo o l’abbreviazione di counterinsurgency, contro/anti-insurrezione, è qui COIN.

Ecco i primi due paragrafi del volume, nella nota introduttiva:
“This manual is designed to fill a doctrinal gap. It has been 20 years since the Army published a field manual devoted exclusively to counterinsurgency operations. For the Marine Corps it has been 25 years. With our Soldiers and Marines fighting insurgents in Afghanistan and Iraq, it is essential that we give them a manual that provides principles and guidelines for counterinsurgency operations. Such guidance must be grounded in historical studies. However, it also must be informed by contemporary experiences.
“This manual takes a general approach to counterinsurgency operations. The Army and Marine Corps recognize that every insurgency is contextual and presents its own set of challenges. You cannot fight former Saddamists and Islamic extremists the same way you would have fought the Viet Cong, Moros, or Tupamaros; the application of principles and fundamentals to deal with each varies considerably. Nonetheless, all insurgencies, even today’s highly adaptable strains, remain wars amongst the people. They use variations of standard themes and adhere to elements of a recognizable revolutionary campaign plan. This manual therefore addresses the common characteristics of insurgencies. It strives to provide those conducting counterinsurgency campaigns with a solid foundation for understanding and addressing specific insurgencies.”

La breve nota introduttiva (che precede tutto: l’indice, la prefazione e poi l’introduzione) continua con la sottolineazione della necessità di essere pronti a tutte le situazioni e ricordando che i militari devono essere pronti a ricostruire Stati sia nelle strutture di sicurezza che materiali, e capaci di funzionare secondo criteri di legalità. L’introduzione è a firma di David H. Petraeus e di James F. Amos.

Il testo è ben scritto e completo. Vi si trova tutto. Essendo un volume generale, non si consideri questo “tutto” come una critica.

L’oggetto del contendere di una “insurrezione” e di chi l’oppone è il potere, il potere Statuale:
“1-3. Political power is the central issue in insurgencies and counterinsurgencies; each side aims to get the people to accept its governance or authority as legitimate. Insurgents use all available tools—political (including diplomatic), informational (including appeals to religious, ethnic, or ideological beliefs), military, and economic—to overthrow the existing authority. This authority may be an established government or an interim governing body. Counterinsurgents, in turn, use all instruments of national power to sustain the established or emerging government and reduce the likelihood of another crisis emerging.”

Tuttavia, più che assumere “il potere”, “lo Stato”, come un qualcosa lì, dato, e che differenti parti si battono per impadronirsene o per mantenerlo, sarebbe più opportuno evidenziare che con la guerra si costruire un potere politico, uno Stato, o si cambia uno Stato già esistente. Una guerra è sempre guerra rivoluzionaria. Gli USA che conducono una guerra globale, qualunque aggettivo appiccichino su di essa, o intervengano in conflitti locali o li suscitino, cambiano gli stessi USA. Tanto più succede quando l’oggetto del contendere sia un’entità Statutale, od uno spazio, sul cui territorio ci si batta per il suo controllo e per il contollo di un ordine legale su di esso esistente o che si vuol costruire. Ecco che una guerra, sia tra Stati o per il controllo di uno Stato, plasma, ristruttura, la Costituzione materiale di tutte le parti partecipano alla guerra. Una guerra è sempre guerra rivoluzionaria, pur in modo estremamente vario. Dipingere guerre od operazioni belliche come banali operazioni di polizia conduce a non comprendere la dimensione della guerra che si combatte. Gli stessi combattono, a vario titolo, una guerra non sono poi le stesse persone che erano prima, sia ritornino civili che restino militari.

(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) enfatizza che ogni caso di insurrezione è unico e se ne devono capire contesto e motivi:
“1-24. Each insurgency is unique, although there are often similarities among them. In all cases, insurgents aim to force political change; any military action is secondary and subordinate, a means to an end. Few insurgencies fit neatly into any rigid classification. In fact, counterinsurgent commanders may face a confusing and shifting coalition of many kinds of opponents, some of whom may be at odds with one another. Examining the specific type of insurgency they face enables commanders and staffs to build a more accurate picture of the insurgents and the thinking behind their overall approach. Such an examination identifies the following:
“= Root cause or causes of the insurgency.
“= Extent to which the insurgency enjoys internal and external support.
“= Basis (including the ideology and narrative) on which insurgents appeal to the target population.
“= Insurgents’ motivation and depth of commitment.
“= Likely insurgent weapons and tactics.
“= Operational environment in which insurgents seek to initiate and develop their campaign and strategy.”

Certo, capire contesti ed avversari sembra una cosa ovvia e naturale. Vedremo che è tutto più complesso e differente. Capire una molteplicità d’aspetti può precludere aspetti più essenziali ed al contrario evitati nella “comprensione”. Lo sforzo di capire le ragioni dell’altro può essere un modo per sopravvalutare, di fatto, l’altro, dunque per non capirlo, per non capire meccanismi elementari di psicologia individuale e collettiva rincorrendone di immaginari magari complessi quanto effimeri, dunque inutili e devianti. Un esempio di guerra in cui nessuno si pone il problema di capire l’altro, ma semplicemente di battersi per fini terra-terra, per fini specifici e del tutto materiali, è la seconda guerra mondiale. Non a caso è stata una guerra che, per lo meno rispetto al problema ognuno delle parti principali voleva risolvere in Europa e nel Pacifico, è stata risolutiva per un lungo periodo sia per vincenti sia per perdenti. Certo, a quella guerra sono subito subentrate divisioni nel campo vincenze, che tuttavia erano del tutto funzionali agli obiettivi della guerra e dunque volute dai vincenti primi. Guerricciole successive erano assestamenti tra i vincitori principali, assestamenti che continuano e forse s’evolveranno ora in qualcosa d’altro, ma non mettevano in discussione i risultati di lungo periodo di quel conflitto relativamente ai vinti. Certo, in conflitti tra i vincitori si inseriscono inevitabilmente i vinti quando di forza tale da sopravvivere a pur gravissime sconfitte belliche. La seconda guerra mondiale, senza bisogno di “capire” l’altro, fu comunque una guerra risolutiva rispetto ai compiti principali del periodo, proprio perché si sapeva che il contendere erano i controlli diretti di materie prime essenziali. Le ragioni erano semplici. Le ragioni sono sempre semplici. La guerra è sempre per distruggere l’altro e per asservirlo, quando non lo si voglia sterminare totalmente. Voler capire che abbia in testa il singolo automa mandato ad ammazzare ed a farsi ammazzare, oppure il profittatore, od il capo nobile, se esistono capi nobili, non è di grande utilità ai fini del risultato bellico. È chi, pur più forte, non sa bene che fare, che si trincera dietro studi dell’altro. Quando nessuno lo faceva, le guerre erano risolutive. Le guerre coloniali erano vinte o meno sulla base della forza militare e sistemica. I successi o meno dei domìni dipendevano dalla forza sistemica del vincente contingente e dalle specifiche tecniche di colonizzazione. Il vincente e le caratteristiche delle vittorie, così come il perdente e le caratteristiche delle sconfitte, plasmano la psicologia delle parti a loro opposte. Il singolo si vive sempre rispetto all’altro. Non esistono ragioni dell’altro costruite indipendentemente dalle tue. Certo, anche le tue, se sei debole, si costruiscono rispetto all’altro e ti faranno arrogante se l’altro è debole e codardo se l’altro è forte. Ma, appunto, solo se tu sei debole e vuoi essere debole. Se tu non sei debole, se tu non sei un debole, non hai bisogno né di arroganze né di codardie che anzi rifuggi. In guerra, in genere, per vaste masse e per i loro capi, l’aspettativa di vittoria e l’aspettativa di sconfitta plasmano le psicologie contingenti Non sono immanenti caratteristiche psicologiche che creano le possibilità di vittoria e di sconfitta contingente. Le “ragioni” sono costruzioni contingenti che hanno cause materiali, cause materiali che non sono altro che rapporti di forza tra le varie parti. Le guerre sono cose barbare. Il massimo esercizio della forza garantisce il successo. Addolcirle conduce solo a sconfitte od a vittorie non risolutive. La forza preponderante non usata in modo totale e devastante porta solo a prolungare ed a rendere più vasta la barbarie della guerra, proprio perché crea nell’altro l’aspettativa di poter vincere. Far la guerra per far finta di farla, piuttosto non la si faccia. Voler comprendere complesse motivazioni dell’altro è spesso parte del costrutto per perdere le guerre o per non vincerle davvero. Il modo per far la guerra in modo morale è evitare l’immoralità, non voler comprendere motivazioni dell’altro che non esistono. La moralità è in sé stesso, se la si ha. Non è nelle “motivazioni” dell’altro, non è nel farsi l’altro, l’avversario. Chissà se in Iraq ed altrove hanno sguinzagliato psicologi e culturalisti per comprendere “le ragioni”, “le motivazioni” dell’altro, mentre gestivano prigioni da maniaci alla cui dipendenze erano soldati e soldatesse maniaci. È tutta lì la differenza tra l’essere ed il non sapere cosa essere, dunque l’essere tutto quel che capita secondo patologie del momento e dell’ambiente circostante. Voler troppo capire fa, spesso, non capire nulla, magari perché non c’è nulla da capire dal lato in cui si vuol credere ci sia.

In “Legitimacy Is the Main Objective” (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006, p. 1-21), slogan e titolo di un paragrafo, da un lato si centra ciò che dovrebbe essere il fine di una guerra (od uno dei possibili modi di presentarne il fine), anche antipartigiana, sebbene subito si confonda il punto con chiacchiere “occidentali”, che tra l’altro sono del tutto tautologiche visto che nessuna democrazia “ateniese” è mai esisistita nella storia neppure nell’antica Atene. Legitimacy/La legittimità è semplicemente l’accettazione di un potere. La legittimità intrinseca non esiste, se non nel senso che qualunque potere sia universalmente accettato ai vari livelli, a cominciare dai più alti (gerarchicamente, nelle gerarchie formali) e fino alla massa della popolazione, sia tale. La Rule of Law, lo Stato di diritto, è ogni Stato con procedure accettate, non perché sia sottomesso ad una qualche legalità astratta e perfetta divinamente rilevabile. Se le legalità è quella delle commissioni giudicanti e dei plotoni d’esecuzione di una Čeka che deve terrorizzate per ottenere una qualche obbedienza elementare od una non disobbedienza, lo Stato di diritto è quello. Del resto, anche dove le leggi siano abbondanti e dettagliate, alla fine lo Stato di diritto è quello basato su procedure che, se i controlli sono deboli o pressoché inesistenti, è uno Stato di diritto che s’avvicina a, od è, arbitrio legalizzato ma magari accettato perché sotto la maschera di procedure in qualche modo collettive e visibili e che, per un motivo o per l’altro, nessuno mette apertamente in discussione. Lo Stato di diritto non è un qualche più o meno immaginario Stato dei diritti. Esso è semplicemente dove le procedure legali siano note e visibili dunque dove l’imprevedibilità del singolo “despota” sia superata. Non è, solo per questo, il regno della perfezione. Comunque, anche uno Stato con procedure di terrore rivoluzionario può essere uno splendido [dal punto di vista della Teoria dello Stato e del diritto] Stato di diritto se il terrore viene praticato con stretti criteri di legalità, d’osservanza di leggi. Non si confondano aspetti di legalità con ciò possa essere percepito come barbaro o repellente. Non è che friggere condannati, talvolta pure innocenti, su una sedia elettrica coi parenti delle vittime ed altri che assistano, sia un grande spettacolo teatrale, eppure è legale, legalissimo, da perfetto Stato di diritto se tutto si svolge secondo le procedure legali. Non si può poi sapere se la corte popolare che stabilisce la colpevolezza si preoccupi delle prove oppure delle proprie sensazioni e del clima eventualmente creatosi attorno ad un caso. Non possiamo neppure pensare che lo Stato di diritto esista o meno a seconda di nostre arbitrarie valutazioni o sensazioni. Alla fine, è legittimo ciò che viene accettato e viene accettato ciò che un potere ha la forza di imporre.

Ecco, che già, nel manuale (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006), legittimità e Stato di diritto divengono fattori di confusione a livello teorico e di limitazione dello spettro operativo di operazioni antipartigiane attirando l’attenzione su elementi che, alla fine, sono irrilevanti. La vittoria totale ed assoluta crea legittimità. Sulla legittimità della forza si fondano legalità e Stato di diritto. L’eticità del militare sarebbe di certo d’un qualche valore morale ed umano, sebbene non sembra che le truppe statunitensi, alla fine, brillino né per etica astratta né per astratta osservanza della legge. Per cui, s’agitano elementi di legalità con truppe che neppure sembrano essere particolarmente affezionate a una qualche correttezza o moralità comportamentale. Ciò, comunque, lo ripetiamo, neppure sarebbe decisivo. Sono livelli differenti. Se non fosse che (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) presenta la guerra antipartigiana un po’ come una, pur complessa, operazione di polizia, dunque con una qualche legalità “normale” che già esisterebbe o che si dovrebbe ricostruire oppure correggere e rafforzare.

Non è proprio questo il punto, nella realtà. L’Armata Rossa ha creato, nelle Russie, legittimità e Stato di diritto (pur di tipo non gradito al campo avverso), pressoché dal nulla, senza avere mai particolarmente brillato per etica. “Suppliva”, fin dai precursori alla Lenin e Trozky, la propaganda, dover essere senza che vi fosse l’essere. Si raccontavano e raccontavano al mondo d’una radiosa realtà immaginaria mentre le stesse squadracce mandate a sopprimere lo zar con famiglia, che erano già prigionieri, derubarono i cadaveri di tutto e per intascarselo personalmente: guerre e lavori di polizia si fanno del resto col materiale umano o subumano od a-umano che s’ha. Come i vincitori abbiano combattuto la seconda guerra mondiale dovrebbe essere risaputo. Non certo più nobilmente dei tedeschi ed altri. Questo non ha creato loro crisi di legittimità, ne mancanza di legittimità dei regimi da loro imposti, perché la loro vittoria era stata totale ed assoluta. Non è mai questione di processi elettorali democratico formali che sono solo forme non risolutive. I regimi a partito unico o senza partiti non sono per questo meno legittimi. La selezione democratico-formale evidenzia semmai, spesso, una certa insulazione dello Stato rispetto agli eletti, dunque una a-democraticità sostanziale. Infatti, sottosviluppismo e sviluppismo coesistono con le sfere politiche apparentemente più antitetiche rispetto alle nature sistemiche reali. Non che l’assenza di democrazia formale sia meglio, a meno che non si inventino sistemi davvero migliori di selezione nella sfera pubblica, cosa tuttavia ancora più ardua che un banale e rassicurante voto periodico in cui almeno la colpa dei danni si può dare agli elettori. La legittimità si fonda, comunque, sulla forza e sull’accettazione. Non su altro. Lo stesso vale per l’assenza di legittimità di poteri Statuali. Non basta che l’ONU riconosca un regime perché esso abbia una qualche legittimità interna. Lo si veda, oggi, nelle varie aree di Stati falliti o collassati che sono in aumento nel mondo. Votano, a e poi continuano a non esistere, non come veri Stati a legittimità interna.

Per cui, “legittimità” e “Stato di diritto” si traducono facilmente, per la FFAA statunitensi in autolimitazioni dello spettro operativo da parte degli alti comandi, con conflitti potratti all’infinito e senza risultati di legittimità e Stato di diritto, a parte elezioni che alla fine non hanno grande significato (se i risultati in legittimità e Stato di diritto neppure si vedono), come succede ora in Iraq ed Afganistan. Ma era già successo in Vietnam. Le seconda guerra mondiale che, dal lato Alleato, è stata combattuta coi mezzi più barbari, con l’unico principio del vincere a qualunque costo e col massimo annichilimento dell’avversario, ha prodotti risultati di legittimità e di Stato di diritto (che non ha nulla a che fare con astratte “libertà”; non si confondano i vari aspetti) come nessun altro conflitto successivo. Alla fine, per esempio, in Vietnam, gli USA hanno finito per usare i mezzi più barbari, ma concentrandosi sul livello macro. Eppure, il blocco psicologico ed operativo rispetto al vincere a qualunque costo e col massimo annichilimento dell’avversario in una guerra totale che andava ben oltre i convini vietnamiti e dell’Indocina ex-francese, pur senza temperare in realtà l’uso dei mezzi, ha reso vano qualunque sforzo. In guerra, la vittoria totale ed irreversibile crea legittimità e Stato di diritto, non la preoccupazione della legittimità e dello Stato di diritto che si cerca, vanamente, di far già vivere a conflitto aperto. Ecco che, pur con una potenza militare travolgente, non riescono a travolgere avversari militarmente più deboli. È quello che succede in Iraq ed Afganistan, ora, dove, tuttavia, se fosse solo interessato il controllo delle aree, l’avrebbero potuto ottenere più rapidamente e solidamente senz’abbattere i regimi esistenti.

“Legittimità” e “Stato di diritto” divengono così dei costrutti astratti, molto sovietici invero, fatti di elezioni, leggi, formali richieste di intervento o permanenza del “soccorso internazionalista”, anche se gli USA lo chiamano con linguaggi loro. Di per sé, le elezioni, come procedure formali di legiferazione, non creano legittimità né legalità. Possono creare anche solo come degli Stati-propaganda, mentre gli Stati reali sono altri, o neppure sono Stati. In effetti, è quello spesso si verifica. Gli USA si creano degli Stati-propaganda e dei non Stati, entità scaturite solo da loro ideologie fantasiose. Una deformazione ideologistica cerca cause ideologiche, fantasiose, della legittimità, così come della sua assenza. L’ideologia invece non ha alcun ruolo rispetto alla creazione o meno di legittimità e di legalità. Legittimità e legalità dipendono dall’uso della forza e dalla sua accettazione. Create legittimità e legalità, si possono calare sopra d’esse tutte le ideologie più convengono, se mai davvero servono a qualcosa.

Esiste, invero, un elemento chiave interno per la creazione o ricreazione di Stati: l’esistenza di un qualche fattore di reale unificazione di un’entità statuale, uno spirito dello Stato, che non deve comunque essere inteso come un fattore astrattamente spirituale, quanto procedurale o di riflessi condizionati per popolazioni con psicologie elementari governate da riflessi condizionati (più tipici d’insetti che di esseri liberi, tuttavia gli esseri reali sono come sono). Non si pensi a casi come la Germania od il Giappone, dove non c’erano fenomeni insurrezionali. La situazione, là, era semplicemente di potenze militari battute ed anche di nazioni battute in loro eccessive o non realistiche ambizioni d’un periodo, eppure con Stati che uscivano intatti, anzi rafforzati, dalla sconfitta militare. In Giappone, con l’impiccagione di oligarchi economici e col passagio in secondo piano del ruolo dell’Imperatore, ne esce rafforzato il potere assoluto delle oligarchie burocratiche modernizzatrici, una specie di capitalismo americano pur senza il ruolo chiave della borsa valori (seppur anche negli USA esista il cemento decisivo di oligarchie economico-finanziarie modernizzatrici). In Germania, con la liquidazione dello Stato parallelo nazionalsocialista, lo Stato tradizionale tedesco, esso stesso fortemente modernizzatore, può dedicarsi, sotto l’ombrello militare anglo-americano, alla costruzione economica e della Grande Germania essenzialmente economica o politico-economica, per un lungo periodo, sotto la maschera delle varie comunità europee all’inizio ridotte e settoriali. Quelli, non sono comunque casi di repressione di lotte partigiane. Lì, i vincitori, non devono creare legittimità o legalità. La legittimità dell’occupazione e della sottomissione derivava dalla netta vittoria militare. La legalità derivava dallo spirito dello Stato dei due casi citati che, con le conseguenti strutture di legalità precedenti, si perpetuava nella sconfitta e nell’occupazione. Si potrebbe semmai opinare che, dal punto di vista delle leggi della guerra, cioé della distruzione dell’avversario, eraro più consistenti piani poi non attuati di distruzione della potenza economica tedesca e giapponese con forme di destrutturazione economica riducendole per esempio al rango di province agricole. Anche lì, i vincitori s’erano fatti traviare dai fumi della loro propaganda divenuta loro stessa percezione per cui, improvvisamente e strumentalmente creatisi il nuovo nemico sovietico (ma non l’avevano “pompato” loro con ingenti aiuti durante la guerra?!), non potevano, s’erano detti, depauperare i vinti che ridivenivano (perché se li erano fatti ridivenire!) improvvisamente utili. Ma, allora, perché vincerli, perché imbarcarsi un una guerra preprogrammata, non certo capitata per caso o per destino ineluttabile, se per poi rilasciarli sviluppare come prima della guerra pur senza più, per un lungo periodo, ambizioni militari (dal lato dei vinti, viste le costrizioni della sconfitta), con questo potersi risviluppare liberi da preoccupazioni militari che era perfino un vantaggio per i vinti?

(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) si basa, naturalmente, sui casi offerti dalla storia recente. Si riferisce, per esempio, a casi alla vietnamita, all’afgana (non esiste vera differenza sostanziale tra il tentativo sovietico e poi quello statunitense-NATO fino ad ora: i nemici sono pure gli stessi, ora), all’irachena.

L’esame resta tuttavia sempre prigioniero dei pregiudizi ideologici propagandistici trasformati in vero modo d’essere, di percepire e pensare, degli stessi centri di potere statunitensi, o almeno di gran parte d’essi. Se anche esistono, presumibilmente, dei centri capaci di pensare in termini non ideologici, sono stati distrutti i linguaggi che permettono loro di parlare ad altri decisori chiave ed agli esecutori. La politica e le istituzioni formali USA sono del tutto dominate da procedure di percezione e di pensiero ideologiche, fantasiose, pur senza fantasia che permetta di adattarsi ad una realtà che dovrebbero prima poter comprendere, cosa che sulla base di metodologie ideologico-fantastiche diviene impossibile. Questo vale per tutti gli Stati occidentali, ma, verosimilmente, pure per un po’ tutti gli altri dove si sono sono create proprie rappresentazioni per le masse, rappresentazioni che si sono poi interiorizzate come proprio essere, come percezione vera del proprio essere. S’è avuta, un po’ dappertutto, una distruzione generalizzata della ragione a favore della propaganda interiorizzata come ragione. La realtà non può essere letta coi linguaggi della sua rappresentazione propagandistica. Se lo è, si legge una realtà filtrata sì da renderla immaginaria, dunque non capendola. Ciò che ha esisti devastanti per strati dirigenti. Un manager può anche raccontare agli operai, se crede, sebbene non vedo come possa essere minimamente proficuo, che l’impresa sia un ente di beneficenza. Se, però, si convince lui stesso che sia un’impresa di beneficenza e non di produzione di ricchezza e di profitto, la conduce facilmente alla distruzione, oppure ad una esistenza non ottimale (ad un barcamenarsi) con l’immagine falsa sottoposta poi alle pressioni degli interessi. Se un Presidente (di Stato presidenziale), così come tutta l’accademia (dunque i centri di produzione del pensiero e dei pensieri) sono convinti che le politiche siano questioni di valori astratti, e non di interessi e di obiettivi, si immagini che succede quando i “valori”, le ideologia, sono poi sottoposti ad interessi materialissimi come il fornitore che ha bisogno si consumino armamenti. È quello in realtà succede, in vario modo in vari contesti, dunque con caratteristiche differenti e con danni (o meno) differenti a seconda di equilibri sistemici.

In (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) c’è quest’asservimento a ideoligismi correnti, con continue confusioni tra fini e processo, e con fini e processo visti in modo del tutto astratto. Si continua a partire da ideologismi intellettualistici che si immaginano i singoli e le popolazioni di aree d’operazioni come da convincersi secondo procedure evidentemente giudicate convincenti su una visione immaginaria di quello gli stessi USA sono stati e sono. In realtà, il singolo è, in genere, essere elementare che è “convinto” e si convince solo sulla base della forza irresistibile ed indistruttibile. Quando non si convince, è perché una certa forza non lo è tale mentre, magari, la è quella dell’avversario. Il Vietnam viene giocato a questo livello. Idem l’Iraq e l’Afganistan. Nell’ultimo caso, ci si immaginano (nel fantastico “occidentale”) dei seminaristi islamici compattati da qualche inespugnabile spiritualità li renda invincibili. In realtà, chi si sottometta ad essi (o altri, non necessariamente con quelle caratteristiche “religiose”), e divenga parte di essi, lo fa perché li vive come forza irresistibile. Altrimenti si asservirebbero tutti ad altri.

Le vie della costruzione d’un potere possono avvenire nei modi più differenti. Nella guerra “rivoluzionaria” si costruisce, o meno, la propria forza, forza che poi legittima e fa legittimare chi si voglia, sempre che, successivamente, forze superiori in qualche modo emerse e manifestatesi non alterino i risultati di “legittimità” ottenuti.

Un governo fantoccio può poi divenire governo vero, per esempio su un successo economico che dia ad esso legittimità rispetto alla popolazione l’ha subito o su cui è stato appiccicato. Però, chi installi il governo fantoccio deve prima avere inequivocabilmente stravinto una guerra ed essersi imposto come potenza occupante. Finte o vere elezioni non danno maggiore legittimità ad un governo fantoccio. Anzi, elezioni potrebbero perfino indebolirlo perché mostrano una debolezza di chi lo imponga che si affida ad un qualche artificioso gradimento popolare anziché alla propria forza assoluta e totale. Si confrontino Iraq ed Afganistan con la Corea del Sud. Un potere stabilizzato e che ha acquistato una sua legittimità intrinseca basato su dei successi veri, come è il caso d’un boom economico non effimero, può poi passare alla democrazia formale. Prima, non serve a nulla, e può essere dannosa come tutte le finzioni che mostrino solo meglio debolezze.

Oppure, se si vuole costruire subito un potere come potere dotato di forza e legittimità intrinseca immediata, già durante la guerra, la via classica è quella della guerra rivoluzionaria, dunque di un potere che si costruisce attraverso una guerra rivoluzionaria con connessi terrori. L’aiuto esterno non contraddice l’uso di tale modello, sempre che il soccorso esterno non divenga, sul campo, sostitutivo dell’esercito rivoluzionario indigeno. In Vietnam, cinesi e russi si affiancano ai nord-vietnamiti. Gli statunitensi si sostituiscono alle truppe sud-vietnamite che divengono accessori, magari pure dannosi quando infiltrate dal nemico. In Corea, la Corea del Nord ha FFAA di tipo sovietico anche se poi gli Stati Uniti riescono a batterle. I cinesi, quando intervengono massicciamente, non si sostituiscono ad una inesistente legittimità nord-coreana. Intervengono sul terreno d’uno Stato nord-coreano solido che pur ha subito una batosta militare e che riesce comunque, con l’intervento diretto cinese, a ricrearsi. La ridivisione in due con una frontiera fortificata ridà legittimità ad un Nord che la centra sulla propria aggressività militare e, nel Sud che si preserva grazie agli statunitensi che continuano a presidiarlo, gli USA creno legittimità ad un regime che, col successo economico, conquista la popolazione e grazie al successo economico crea FFAA solide che non aveva mai avuto in precedenza. Nel Nord la tradizione militare e militarista si fondava, già prima della guerra di Corea del 1950-53 sulla guerra rivoluzionaria pur con decisivi aiuti militari sovietici. E sulla guerra rivoluzionaria del 1950-53, pur battuto nel tentativo di conquistare il Sud, il Nord si ricrea una forte legittimità interna. È irrilevante che essa sia poi, al Nord, nel concreto fondata su grandi differenze di classe, con schiavismo dei contadini e repressioni feroci: queste sono altro ordine di questioni.

Uno schema di guerra rivoluzionaria, se la guerra rivoluzionaria vince, si traduce nel controllo ferreo delle popolazioni con eventuale terrore di massa se necessario, e con tutte le tecniche connesse di dominio di popolazioni. Si veda la stessa storia statunitense, con una guerra rivoluzionaria prima contro la Corona britannica poi, ben più feroce e vera, contro i secessionisti del Sud democratico e delle autonomie locali. Dalla guerra rivoluzionaria contro il Sud nasce lo sviluppo impetuoso degli USA e la loro travolgente forza militare e militarista diretta alla conquista del mondo. Non è questione di spazi, di ambiente fisico favorevole o di risorse minerarie che esistono anche, magari ben più abbondanti, nelle altre parti delle Americhe.

Proprio per via dei pregiudizi ideologici, il volume (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) intraprende la via controproducende, per un manuale che si vorrebbe, pur ampio ed approfondito, di uso operativo da parte di comandanti sul campo, di classificare i movimenti partigiani o guerriglieri essenzialmente sulla base dell’apparenza della loro ispirazione. Questo è solo l’ultimo punto di una lista di casi possibili:
“1-23. Today’s operational environment also includes a new kind of insurgency, one that seeks to impose revolutionary change worldwide. Al Qaeda is a well-known example of such an insurgency. This movement seeks to transform the Islamic world and reorder its relationships with other regions and cultures. It is notable for its members’ willingness to execute suicide attacks to achieve their ends. Such groups often feed on local grievances. Al Qaeda-type revolutionaries are willing to support causes they view as compatible with their own goals through the provision of funds, volunteers, and sympathetic and targeted propaganda. While the communications and technology used for this effort are often new and modern, the grievances and methods sustaining it are not. As in other insurgencies, terrorism, subversion, propaganda, and open warfare are the tools of such movements. Today, these time-tested tools have been augmented by the precision munition of extremists—suicide attacks. Defeating such enemies requires a global, strategic response—one that addresses the array of linked resources and conflicts that sustain these movements while tactically addressing the local grievances that feed them.”

A parte, l’esempio infelice perché nessuno sa bene che sia Al-Qaeda e non è neppure certo esista davvero. Alla fine, è solo la rete di un centro saudita ricchissimo. Di sicuro non esiste come autorappresentatasi anche nelle più alte istituzioni degli USA, dove tutta la ricostruzione della favorella dell’11/9/2001 si basa sul nemico onnipresente e terribile, ...che, non stranamente, dopo la grande operazione d’allora, ora sarebbe ridotto [han certcato di raccontare!] a disseminare d’incendi la California. L’11/9/2001 ruota attorno ad altissima tecnologia solo gli USA avevano ed hanno, non certo su squadrette che puntando l’indice sequestano e dirigono aerei. Ad ogni modo, propaganda a parte, in Iraq, la rete di BinLaden è proprio una frazione marginale pur finanziatissima da soldi sauditi. Altrove, non si sa bene che faccia, salvo ora la nuova favoletta degli incendi in California. Si sa quel che faceva prima: cooperazioni con la CIA e gli inglesi per lo sfondamento del già impero sovietico. Del resto, la penisola arabica era colonia inglese ed ora è nell’area di interessi inglesi e statunitensi.

Comunque, per (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006), risolvere la questione delle insurrezioni partigiane o guerrigliere in più o meno solide ispirazioni, idiosincrazie, pregiudizi popolari e di periodo, permette di evitare quello che è il punto chiave. Pregiudizi, idiosincrasie, odi feroci, frustazioni, desideri, ossessioni, esistono in tutte le epoche storiche ed in tutti i luoghi. Non per questo ciò dà vita a movimenti insurrezionali.

Una cosa è asserire come astrattamente vero e come invito alla comprensione dei contesti che ogni caso di insurrezione sia unico e se ne debbano capire contesto e motivi. È il punto 1-24 sopra citato. Se non si dice che ciò è in realtà irrilevante o secondario rispetto al alcune caratteristiche dell’individuo, ecco che si centra un’attività militare e socio-politico-militare su aspetti irrilevanti.

In realtà, un movimento partigiano necessita di due elementi chiave: [1] delle strutture logistiche, [2] un qualche profitto non effimero né solo apparente per il singolo.

[1] Delle strutture logistiche. Strutture logistiche non derivano mai dal nulla né da propulsioni interne. Il campo delle manipolazioni, dato che poi di questo si tratta, è vasto e non staremo qui a dire nulla, se non che sono sempre poteri a dare la spinta, i soldi, le strutture, od a lasciare ci si procurino con “autofinanziamenti” vari. Perfino chi acquisti armi ed altro “dalla malavita”, se “la malavita” te le vende è perché fette di Stato vogliono armarti. Sennò, “la malavita” vende armi solo a chi voglia ammazzare la moglie. Non si fonda un movimento partigiano andando nei luoghi della mala a cercare un’arma da fuoco. Quanto al “prenderle al nemico”, non è mai così semplice salvo singoli pezzi, a meno che non si tratti di poteri in putrefazione ma allora sono frazioni dello stesso “nemico” che ti usano per fini loro od a cui t’associ. A Cuba, burocrazie statali conservatrici, che non usufruiscono dei benefici dell’essere area di intrattenimento di riccastri americani, usano il castrismo per preservare e rafforzare i propri privilegi. Nessun potere di disgrega per qualcuno che fa banditismo sulle montagne e per qualche attentato nelle città.
[2] Un qualche profitto non effimero né solo apparente per il singolo. Senza una qualche profitto per il singolo, senza una qualche concreta possibilità di esistenza, non necessariamente di grandi vittorie, nessuno si avventura in movimenti armati. Certo, il singolo isolato è sempre incontrollabile per cui qualora esca dalla massa per mettere in atto fenomeni delittuosi di qualunque genere può succedere di tutto, per quanto le possibilità del singolo siano in genere scarse ed i casi di ribellione del singolo alla fine rari. Il singolo è, alla fine, in genere, facilmente identificabile e neutralizzabile. Idem le piccole gang. Già la gang mafiosa non esiste senza appoggi e protezioni di potere.

Per cui, ma il volume (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) non se ne occupa, oltre al chi paga da individuarsi e da stroncarsi senza paraocchi chiunque sia, ciò che stronca un movimento partigiano è la distruzione di ogni possibilità esso possa operare e anche solo sopravvivere. Certo, chiunque può mettersi a vagare nella notte in squadra armata. Ma, già se attacchi un posto di polizia, prima o poi ti trovano, salvo il singolo che lo faccia per gioco e nel gioco riesca ad eccellere davvero. Il partecipante al movimento partigiano o terrorista può credere alla favoletta delle armi scaturite dal nulla od ai documenti falsi creati per capacità artigianale, sebbene, salvo piccolissimi gruppi, l’individuazione sia sempre abbastanza rapida. Se non si viene neutralizzati è perché uffici dello Stato vogliono lasciar operare il movimento partigiano o terrorista, oppure perché esso ha sostegni esterni tali da poter operare pur in condizioni avverse. Non serve a nulla sopravvalutare “fedi”, “religioni” “ideologie”, che sono sempre mitizzazioni di chi non riesca o non voglia a venire a capo di movimenti partigiani. Il singolo obbedisce a riflessi condizionati elementari. Un’apparente inespugnabile fortificazione non sopravvive senz’aria, energia, acqua, generi alimentari, altri approvvigionamenti. Più o meno, lo stesso vale per un gruppo di combattenti. Si guardi il caso del Che in Bolivia. Non esiste nessun ineluttabile potere d’attrazione del gruppo guerrigliero. L’individuo non si muove, non fa scelte, senza un qualche guadagno, un qualche interesse. Non è vero che le fedi mobilitino. Quando si mobilita, si fanatizza, sotto la copertura delle fedi, c’è altro. Nessuno, pur con la testa intossicata fin dalla nascita, si fa saltare per aria se poi alla famiglia non vengono date indennità o pensioni. Nessuna fede mobilita dove sia chiarissimo che nessuna azione individuale o collettiva non porti da nessuna parte e magari si traduca in un danno per chi si dice si voglia favorire.

Al contrario, è il senso di impotenza d’una parte pur fortissima in mezzi che induce, pur nell’abbondanza di risorse materiali, di informazione, d’ogni altro genere, a sopravvalutare la fede dell’avversario. È una vera sindrome di soggezione al fanatico, mentre il fanatico non esiste se altro ed altri non lo fabbrichini e non lo facciano esistere. Ognuno è spesso un potenziale fanatico. Tuttavia quasi nessuno esprime il suo fanatismo e le sue propensioni a delinquere e maniacali quando non le veda socialmente accettate od, almeno, protette dal potere. Il singolo diventa facilmente criminale e boia, ma solo quando si senta impunito, dunque protetto dal potere oltre che socialmente accettato ed esalatato, pur nella sua alienazione e, spesso, autodistruzione.

In “Ideology and Narrative” (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006, p. 1-14–1-15) c’è una accentuata sopravvalutazione dell’aspetto fideistico. Sarebbe più corretto dire che la fede è del tutto irrelevante, se ciò non conducesse un lettore acritico a concluderne che non si debbe vedere attorno alla fede che mercato e che dinamiche si sviluppino. La fede, di per sé, non spiega un movimento guerrigliero, possibilissimo anche senza fedi o con fedi fabbricate del tutto strumentalmente. Per la gran massa degli individui, lo stipendio fa la fede. Chi ne dà di più e più sicuri, e con controllo più rigido sui sottoposti, crea più “fede”.

Non esiste nulla “di natura” ineluttabile: “1-134. Insurgencies are protracted by nature.” Se un movimento partigiano viene subito stroncato ed affermata una solida autorità del potere o dello Stato, ecco che non è detto debba essere protratto. Se si liquida un’unità guerrigliera od anche tutte le unità guerrigliere ma tutte le precondizioni (interventi esterni e debolezza del potere, essenzialmente) perché il movimento partigiano continui ad esistere, ecco che esso verrà riprodotto. Ma non è ineluttabile. È deviante fissarsi su “condizioni oggettive” astratte. Le condizioni per l’esistenza di un movimento di resistenza non sono mai solo interne, intrinseche. Non è vero che l’oppressione crei rivolta collettiva. Dipenda da quale mercato si crei sull’“oppressione” e quale interessi sfruttino “l’oppressione”.

Si consideri questo passaggio:
“1-138. Information and expectations are related; skillful counterinsurgents manage both. To limit discontent and build support, the HN government and any counterinsurgents assisting it create and maintain a realistic set of expectations among the populace, friendly military forces, and the international community. IO (including psychological operations and the related activities of public affairs and civil-military operations) are key tools to accomplish this. Achieving steady progress toward a set of reasonable expectations can increase the populace’s tolerance for the inevitable inconveniences entailed by ongoing COIN operations. Where a large U.S. force is present to help establish a regime, such progress can extend the period before an army of liberation becomes perceived as an army of occupation.”

Nella costruzione delle Russie sovietiche, considerando gli altri come movimento insurrezionale o guerrigliero, il potere sovietico si costruì col terrore rosso anche contro operai e contadini, non con “friendly military forces.” Certo divenivano “amiche” per chi facesse lui stesso boia o collaborazionista dei boia. I “rossi” hanno vinto perché erano più spietati e percepiti come più forti. I “bianchi” hanno perso perché meno terrificanti e percepiti come più deboli. C’entrano poco propagande di “operai e contadini” contro “capitalisti e latifondisti”. I massacri bolscevichi non li aveva mai fatti lo zarismo contro cui tutti si ribellavano. I “rossi” russi vincono sulla loro credibilità terroristca mentre gli altri perdono per insufficiente credibilità terroristica. Devastazioni terroristiche, carestie senz’assistenza agli affamati, non producono ribellioni vere né nelle Russie sovietiche né nella Cina maoista. Il potere è vissuto come indistruttibile. Nessuno si ribella ad un potere indistruttibile, oppure le ribellioni individuali sono ridotte a delinquenze facilmente risolvibili caso per caso. Ma anche piccole rivolte disperate vengono facilmente soppresse, spesso senza neppure clamori.

Nel volume c’è tutto e ben esposto. Manca però il cuore. Puoi avere grandi basi militari però o non sicure o non si è sicuri appena si esca da esse. Poi avere tutta una miriade di organizzazioni civili che si accompagni, almeno sulla carta, all’azione militare. Però, poi, i maestri sono uccisi, i sindaci pure, le imprese di costruzioni o le mille altre organizzazioni dirette verso la popolazione liquidate da esecuzioni da parte dell’avversario. Anche l’intelligence tecnologizzata può essere ottima. Però, un’avversario inferiore in quasi tutto magari controlla il territorio perché la sua organizzazione di potere o di contropotere tiene mentre le tua, pur con abbondanza di mezzi, non tiene. Allora, sorgono i miti dell’invincibilità dell’organizzazione “comunista” o di quella “islamica” o del loro “fanatismo”, mentre non sono loro che sono forti ma tu che hai tutto che sei debole perché se non capisci che se allo stipendio ed all’arma non s’accompagna la lealtà che solo il terrore procura, se l’avversario è superiore anche solo nell’arte del terrore ecco che è superiore in tutto ciò che conta davvero perché governa anche al tuo interno mentre tu puoi distruggere solo ciò che vedi ed che è ben distinto per poter essere colpito. Il militare ed il funzionario civile tornano a casa dopo il lavoro. Se lì ed attorno domina “il nemico”, alla fine loro saranno fedeli “al nemico”, doverranno suoi collaboratori oppure saranno eliminati. Il dominio tuo o “del nemico” dipende solo da chi abbia un’organizzazione terroristica capillare ed onnipresente di spie e d’assassini. Il civile che ti saluta cordiale quando dai le sigarette o le caramelle non ha alcuna importanza, se non c’è esercizio (potenziale, se non occorre) del terrore. Il monopolio della forza è tutto lì.

Non si intenda terrore come stragismo, perché non v’è alcuna connessione, né come particolare sanguinarismo, perché senza l’autoconvinzione la sola minaccia non funziona. Eppure, se s’analizza la psicologia umana si vede come lo stipendio e la paura creino poi la fedeltà qualunque cosa si dica o si creda d’essere ed a meno che un potere superiore non t’induca alla fedeltà pur con stipendio altrui. Alla fine, il terrore che crea fedeltà e lealtà è il terrore attivo, quello interiorizzato come fede, quello che il soggetto pratica. Non è una gran cosa a dirla così, ma il potere si fonda, di fatto, sul singolo spia e sul singolo assassino se “lo Stato” ordina. Non si pensi a ciò in termini necessariamente sanguinari o truculenti, sebbene il vissuto concreto dipenda dalle situazione specifiche. Una cosa sono le Russie della guerra civile o delle reciproche guerre rivoluzionarie, altra gli Stati Uniti d’ora. Se nessuno, o pochi e raramente, si decida, nei pur libertari e liberisti USA a guerre partigiane, se non occasionalmente piccoli gruppi, è perché, in genere la comune secessionista (nel senso sociale e mini territoriale, che s’isola dal sistema fiscale e di polizia) viene liquidata dall’FBI o altri e, spesso, senza neppure tante raffinatezze.

Nel Vietnam, la partita tra due opposte entità Statuali venne giocata a questo livello, a livello di terrore capillare, col Sud già rinunciatario, perché senza pretese di conquista del Nord, dunque già con la psicologia del perdente pur con rifornimenti ed appoggi materiali superiori visto il sostegno USA. In Iraq, ora, egualmente, sebbene non vi sia un fronte perdente ed uno vincente, Stati Uniti a parte (escludendo che comunque il petrolio se l’appropriano, anche perdendo) bensì due (tre coi curdi che, salvo rimescolamenti futuri, od occupazioni estere, turche o turco-iraniane, si sono, comunque, già territorialmente separati dagli altri contendenti) che comunque resteranno, in un modo o nell’altro, perché hanno entrambi come retroterra due potenze per ora equivalenti (Iran e Sauditi) e perché ognuna copre una rete di fedeltà etniche. Non che le fedeltà etniche siano necessariamente indistruttibili, ma due ben alimentati (da Iran, e da Sauditi e Siriani) terrori contrapposti che trovino e mantengano ciascuno la sue rete di terrore etnico attivo e contrapposto, sono macchine lanciate alla reciproca distruzione o fino alla separazione territoriale, sempre che un altro potere superiore non riesca a distruggerle entrambe. Certo, possono esistere anche altre varianti. Gli USA e lo “Stato iracheno” che non riescono a creare un loro esercito ed una loro polizia, ma solo delle finzioni che poi svaniscono e che loro, illudendosi, cercano periodicamente di ricreare, indica che ai due (o più) terrori contrapposti (sciita e sunnita, con eventuali sottofiloni) non ri riesce a contrapporre, da parte degli USA, un terrore (“iracheno”) più forte ed autonomo da entrambi che li distrugga. Ecco, che si può avere tutto, sulla carta, delle perfette FFAA (statunitensi) a mille organizzazioni civili con abbondanza di progetti e di mezzi, però non si riesce a creare un proprio terrore contro tutti gli altri e che distrugga tutti gli altri. Il monopolio (“legittimo”, ma è tautologico) della forza è terrore rispetto ad altri che non possono esistere se esso esiste. Il monopolio della forza è terrorismo che si manifesta nelle mille abominie individuali in cui spesso si esplicano i poteri statali, eppure non ne esistono altri, non esistono altri modi per affrontare praticamente la questione, almeno secondo gli schemi correnti fino ad oggi. Se non esistono le abominie (per chi non sappia mantenrsi puro, ma non è cosa per “le masse”) dei poteri statali, esistono le abominie di altri poteri. Non è che l’informatore dello sbirro divenga puro se fa l’informatore del “partito rivoluzionario” o magari di entrambi e pure di qualche terza o quarta parte (mafie, etc.). La realtà è tale. Il monopolio della forza, che è l’obiettivo della COIN, è terrorismo di uno Stato contro altri terrorismi in essere o potenziali, dunque di altre entità di tipo statuale in essere o potenziali. Se v’è una COIN non inventata e non strumentale (ad altri fini), vi sono altri poteri di tipo statuale che insidiano quello la parte della COIN assume come “legittimo” (categoria tautologica, come già detto).o comunque da preservarsi o da crearsi o ricrearsi. La “conquista della popolazione”, il “sostegno popolare”, è vana declamazione se non diviene partecipazione della popolazione al terrorismo contro il nemico, contro la devianza. Se la popolazione non si fa parte combattente terroristica contro “il nemico”, la sovversione, si può pure declamare, nei manuali come (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006), di sostegno popolare, confuso per quello che ti fa il saluto con la mano, ti sorride o ti dà o finge di darti informazioni o partecipa ad elezioni. Tuttavia solo chi ha il sostegno terroristico attivo, rivoluzionario, della popolazione vince. Vince, dunque, chi organizza la popolazione per terrorismo, per milizia rivoluzionaria. Non esiste “il comunista” o “l’islamico radicale” o “il liberale” invincibile. Vince chi si fa milizia terroristica che batte quelle dell’avversario. Ciò in Vietnam l’hanno saputo fare “i comunisti”, nell’Afganistan pro-russo l’hanno saputo fare cellule di pretini o di catechisti islamici. I russi c’hanno provato ad applicare i loro schema solito, ma gli altri l’hanno applicato meglio. I talebani vincono i sovietici usando uno schema “sovietico”, “comunista”, di guerra rivoluzionaria. Ma alla fine gli aggettivi ideologici sono tutte etichette. I libri ideologici o religiosi sono cose ci si mettono su uno scaffale di casa, magari per qualche discendente appassionato. Il singolo ed i singoli che fanno reciproca massa vanno con chi dia loro più possibilità di sopravvivere. Senza la comprensione di questo meccanismo psicologico e senza i mezzi per renderlo operativo, vince “il nemico”. Il modello “comunista” nell’Afganistan pro-russo non ha funzionato, od ha funzionato solo in parte dal lato sovietico, perché erano più “comunisti” (come modello politico-militare) quelli organizzati ed armati dai pachistani con finanziamenti e fornitura di mezzi anglo-americani.

L’incapacità di ragionare in termini di guerra rivoluzionaria rende incapaci gli USA di confrontarsi seriamente all’attività di COIN. Alla guerra rivoluzionaria si può contrapporre solo un’altra guerra rivoluzionaria. Altrimenti, l’abbondanza di armamenti può non bastare quando l’avversario non sia del tutto sprovvisto di risorse materiale e di sostegni.

Contrariamente all’apparenza di tali manuali “tecnici”, il limite di fondo di (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) è l’essere troppo poco tecnico e troppo ideologico, anziché combattere con argomenti decisivi proprio le visioni ideologizzato-propagandistiche della realtà, fornendo soluzioni conformi alla realtà anziché ad ideologie politicantiche. L’accademia ha finito per divenire schiava e vittima del proprio asservimento alle propagande di pace e di guerra. I risultati sono lì. La superpotenza militare USA passa di sconfitta in sconfitta seppur il sistema USA possa permetterselo evidentemente, fino ad oggi, visto che è prosperato nonostante le sconfitte.


COUNTERINSURGENCY, Field Manual No. 3-24, Headquarters Department of the Army, Washington, DC, Marine Corps Warfighting Publication, No. 3-33.5, Headquarters Marine Corps Combat Development Command, Department of the Navy Headquarters, United States Marine Corps, Washington, DC, USA, 15 December 2006,
http://usacac.army.mil/cac/repository/materials/coin-fm3-24.pdf
(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006).