25 October 2006

Lettera da Lhasa numero 35. Gattoparderie. Quando vogliono ingannare i cittadini, s’inventano un Referendum Segni

Lettera da Lhasa numero 35. Gattoparderie. Quando vogliono ingannare i cittadini, s’inventano un Referendum Segni
by Roberto Scaruffi

Già visto.

Riraccontano della legge elettorale magica capace di risolvere tutti i problemi. In realtà si inventano le leggi elettorali proprio per altri fini, golpisti in genere, nell’ultimo quindicennio, maggioritario di Berlusconi a parte che aveva fini di compromesso con quirinalizi nel governo. E poi, con il controllo oligarchico-burocratico-quirinalizio dei media, convincono tutti che hanno finalmente trovato la soluzione perfetta a tutto, panacea universale che con una botta referendaria si può avere dall’oggi al domani. Non solo ottengono il quorum. Realizzano pure percentuali schiaccianti, che non impediscono comunque aggiustamenti parlamentari, anche contraddicenti i risultati referendari stessi, se ciò serve per i soliti fini golpisti di oligarchie e burocrazie corrotto-parassitarie.

Un sistema politico non dipende dalla legge elettorale. Dipende solo dal sistema costituzionale. Ecco perché un uninominale di collegio confuso e disgregante diviene, nei paesi anglofoni, un magico “maggioritario”. In realtà non è tale. È il sistema costituzionale dei sistemi anglofoni ad essere maggioritario. Per cui, leggi elettorali che in astratto produrrebbero centinaia di partiti, s’adattano al sistema costituzionale maggioritario.

In Italia, hanno appenna affossato una magnifica Costituzione inglese. Creva un Parlamento forte, un Governo forte ed il bipartitismo. L’hanno affossata proprio per questi suoi pregi. Comico che il nuovo referendum elettorale, subito venduto come magico, sia nato negli stessi ambienti hanno appena affossato la Riforma Costituzionale inglese della CdL.

Il nuovo referendum, per il momento ai primi passi, è un refendum abrogativo, che ridisegna una nuova legge elettorale, per quel che può, tagliando parole dal maggioritario introdotto dalla CdL per le elezioni 2006.

Con questi suoi limiti oggettivi, esso si propone di trasformare il maggioritario da maggioritario di fronte o coalizione a maggioritario di lista. Inoltre, verrebbero soppresse le candidature multiple. In pratica, non sarebbe più possibile presentare XXX e YYY in tante circoscrizioni perché simboli e portatori di voti, bensì, il che è lo stesso, si farebbero una lista XXX ed una lista YYY contrapposte, ed attorno a quelle due liste convergerebbero i voti degli elettori. Ma non è detto, perché anche partiti al di fuori d’esse avrebbero non piccole possibilità di successo.

Infatti, in realtà non è così semplice come la propaganda di regime cercherà di incultare nelle teste condizionabili degli elettori.

Se esistono 15 partiti, ed essi non si possono coalizzare formalmente, od il primo, magari col 20% dei voti, prende il 55% della Camera [ed il 55% di circoscrizione ogni primo partito di circoscrizione al Senato], oppure resteranno le coalizioni, seppur sotto altro nome ma con gli stessi difetti.

Con la Riforma Costituzionale della CdL, affossata con Refendum Costituzionale a giugno 2006, si sarebbe creato il bipartitismo. Infatti v’era l’elezione diretta del Primo Ministro cosa che automaticamente provoca la formazione di due partiti su cui convergono i voti degli elettori. Dal seggio nazionale unico, per l’elezione del Primo Ministro, consegue automaticamente la convergenza dei consensi su due partiti. Un posto nazionale, due partiti nazionali. È una legge politologico-comportamentale elementare.

È tutto diverso col regime costituzionale tuttora vigente, di dittatura Presidenziale (in conto oligarchie e burocrazie corrotto-parassitarie) con trasformismo parlamentare. In tale regime, non cambia nulla se il premio di maggioranza della Legge elettorale della CdL va non più alle coalizioni, che il referendum sopprimerebbe, bensì al singolo partito. Semplicemente chiamerebbero singolo partito, le coalizioni. Creerebbero, giusto per le elezioni, una lista XXX contrapposta ad una lista YYY e su di esse convergerebbero i voti, a parte i voti che andrebbero a liste minori diverse dai finti partiti[-coalizione]. Inoltre, non lo si dimentichi mai, col sistema costituzionale vigente, i governi li fa, e di fatto li disfa pure, il Quirinale. Non ha alcun vero valore che coalizione raccogliticcia e d’opposti sembri aver vinto le elezioni. Neppure ha grande valore, ai fini di realizzazioni modernizzatrici, si governi 5 anni.

Quale sarebbe la logica elettorale di ricreare coalizioni sotto forma di partito “unico”?

Nel regime dittatorial-quirinalizio e trasformista esistente, i due partiti maggiori non vanno oltre il 15-30% ciascuno. Non cambierebbe nulla con la storia infinita del PD, che sarebbe più piccolo e pasticciato degli attuali DS. Ogni partito, cercherà dunque, per le elezioni, d’inventarsi un cartello elettorale, un lista XXX o una lista YYY con dentro tutti come nelle “coalizioni” d’ora. Tra l’altro, l’operazione è facilitata dal sistema delle liste bloccate senza preferenze ma in ordine decrescente d’elezione. Le liste verrebbero fatte secondo il principio: “Io ti faccio vincere ma, tu mi dai gli eletti per paralizzarti dopo.” Esattamente come ora. E continuerebbe la dittatura quirinalizia coi relativi Governi che non governano davvero ed il trasformismo parlamentare paralizzante [dal punto di vista d’ogni modernizzazione, ottimo invece per la corruzione burocratico-oligarchica], che derivano dal regime costituzionale esistente, confermato dal 61% al Referendum Costituzionale di giugno 2006.

Con la Riforma Costituzionale della CdL si creavano due partiti. Con la Costituzione quirinalizia esistente, restano 15, 20, 50 partiti e sottopartiti qualunque sia la legge elettorale. Infatti, il Governo continua ad essere un Governo di fantocci in cui nessuno governa, ed il Parlamento una sede di chiacchiere vane e di lauti stipendi dominata dal Quirinale, dove l’elezione, la stessa candidatura, dipende dalle intimazioni del Quirinale ai partiti.

Il referendum Guzzetta-Segni è tutto qui.

È un referendum elettorale gattopardesco

Probabile che il Quirinale, dopo il suo golpe contro il Governo Prodi, conti di creare un suo governo organico di colpo di Stato, sullo schema del già Governo Ciampi od il già Governo Dini, e poi di costruire, attorno a tale Governo, in un anno od un anno e mezzo, un suo partito capace di primeggiare in elezioni anticipate. L’esperienza della Lista Dini ed, ora, della RnP mostrano che “capacità” di creare “grandi” partiti abbiano i burocrati del Quirinale.

23 October 2006

Lettera da Lhasa numero 34. Il Gramsci de “I Sindacati e la Dittatura” (1919), con cenni a Bordiga e Gobetti

Lettera da Lhasa numero 34. Il Gramsci de “I Sindacati e la Dittatura” (1919), con cenni a Bordiga e Gobetti
by Roberto Scaruffi

http://www.marxists.org/italiano/archive/gramsci/19/10-25-sind.htm
Antonio Gramsci 1919
I sindacati e la dittatura
Pubblicato per la prima volta ne "L’Ordine Nuovo", 25 ottobre 1919; Trascritto per Internet da Antonio Maggio - Primo Maggio.
La lotta di classe internazionale è culminata nella vittoria degli operai e contadini di due proletariati internazionali. In Russia e in Ungheria gli operai e i contadini hanno instaurato la dittatura proletaria e tanto in Russia che in Ungheria la dittatura dovette sostenere un’aspra battaglia non solo contro la classe borghese, ma anche contro i sindacati: il conflitto tra la dittatura e i sindacati fu anzi una delle cause della caduta del Soviet ungherese, poiché i sindacati, se mai apertamente tentarono di rovesciare la dittatura, operarono sempre come organismi "disfattisti" della rivoluzione e incessantemente seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli operai e i soldati rossi.
Un esame anche rapido, delle ragioni e delle condizioni di questo conflitto non può non essere utile all’educazione rivoluzionaria delle masse, le quali, se devono convincersi che il sindacato è forse l’organismo proletario più importante della rivoluzione comunista, perché su di esso deve fondarsi la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere, devono anche convincersi della necessità di creare, prima della rivoluzione, le condizioni psicologiche e obiettive nelle quali sia impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari organismi in cui si incarni la lotta della classe proletaria contro il capitalismo.
La lotta di classe ha assunto in tutti i paesi d’Europa e del mondo un carattere nettamente rivoluzionario. La concezione, che è propria della III Internazionale, secondo la quale la lotta di classe deve essere rivolta all’instaurazione della dittatura proletaria, ha il sopravvento sulla ideologia democratica e si diffonde irresistibilmente nelle masse. I Partiti socialisti aderiscono alla III Internazionale o almeno si atteggiano secondo i principi fondamentali elaborati al Congresso di Mosca; i sindacati invece sono rimasti fedeli alla "vera democrazia" e non trascurano nessuna occasione per indurre o costringere gli operai a dichiararsi avversari della dittatura e non attuare manifestazioni di solidarietà con la Russia dei Soviet.
Questo atteggiamento dei sindacati fu rapidamente superato in Russia, poiché allo sviluppo delle organizzazioni di mestiere e d’industria si accompagnò parallelamente e con ritmo più accelerato lo sviluppo dei Consigli d’officina; esso ha invece eroso la base del potere proletario in Ungheria, ha determinato in Germania immani carneficine di operai comunisti e la nascita del fenomeno Noske, ha determinato in Francia il fallimento dello sciopero generale del 20-21 luglio e il consolidarsi del regime di Clemenceau, ha impedito finora ogni intervento diretto degli operai inglesi nella lotta politica e minaccia di scindere profondamente e pericolosamente le forze proletarie in tutti i paesi.
I Partiti Socialisti acquistano sempre più un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista; i sindacati invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista e a diventare organismi meramente nazionali. Ne nasce uno stato di cose insostenibile, una condizione di confusione permanente e di debolezza cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo squilibrio generale della società e favoriscono il pullulare dei fermenti di disgregazione morale e di imbarbarimento.
I sindacati hanno organizzato gli operai secondo i principi della lotta di classe e sono stati essi stessi le prime forme organiche di questa lotta. Gli organizzatori hanno sempre detto che solo la lotta di classe può condurre il proletariato alla sua emancipazione e che l’organizzazione sindacale ha precisamente il fine di sopprimere il profitto individuale e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, poiché essa si propone di eliminare il capitalista (il proprietario privato) dal processo industriale di produzione e di eliminare quindi le classi.
Ma i sindacati non potevano attuare immediatamente questo fine e pertanto essi rivolsero tutta la loro forza al fine immediato di migliorare le condizioni di vita del proletariato, domandando più alti salari, diminuiti orari di lavoro, un corpo di legislazione sociale. I movimenti successero ai movimenti, gli scioperi agli scioperi, la condizione di vita dei lavoratori divenne relativamente migliore. Ma tutti i risultati, tutte le vittorie dell’azione sindacale si fondano sulle basi antiche: il principio della proprietà privata resta intatto e forte, l’ordine della produzione capitalistica e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo restano intatti e anzi si complicano in forme nuove. La giornata di otto ore, l’aumento del salario, i benefici della legislazione sociale non toccano il profitto; gli squilibri che immediatamente l’azione sindacale determina nel saggio del profitto si compongono e trovano una sistemazione nuova nel gioco della libera concorrenza per le nazioni a economia mondiale come l’Inghilterra e la Germania, nel protezionismo per le nazioni a economia limitata come la Francia e l’Italia.
Il capitalismo cioè riversa o sulle masse amorfe nazionali o sulle masse coloniali le accresciute spese generali della produzione industriale. L’azione sindacale si rivela così assolutamente incapace a superare nel suo dominio e con i suoi mezzi, la società capitalista, si rivela incapace a condurre il proletariato alla sua emancipazione, a condurre il proletariato all’attuazione del fine alto e universale che si era inizialmente proposto. Secondo le dottrine sindacaliste, i sindacati avrebbero dovuto servire a educare gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati di industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti a impadronirsi del complesso meccanismo della produzione e degli scambi. I leaders operai dell’industria del cuoio saranno i più capaci a gestire questa industria, e così per l’industria metallurgica, per l’industria del libro, ecc. Illusione colossale.
La scelta dei leaders sindacali non avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza meramente giuridica, burocratica o demagogica. E quanto più le organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità tecnica industriale divenne un non valore ed ebbe il sopravvento la capacità burocratica e commerciale. Si venne così costituendo una vera e propria casta di funzionari e giornalisti sindacali, con una psicologia di corpo assolutamente in contrasto con la psicologia degli operai, la quale ha finito con l’assumere in confronto alla massa operaia la stessa posizione della burocrazia governativa in confronto dello Stato parlamentare: è la burocrazia che regna e governa. La dittatura proletaria vuole sopprimere l’ordine della produzione capitalistica, vuole sopprimere la proprietà privata, perché solo così può essere soppresso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La dittatura proletaria vuole sopprimere la differenza delle classi, vuole sopprimere la lotta delle classi, perché solo così può essere completa l’emancipazione sociale della classe lavoratrice. Per ottenere questo fine il Partito comunista educa il proletariato a organizzare la sua potenza di classe, a servirsi di questa potenza armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere.
Il compito del Partito comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e contadini in classe dominante, controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria, e rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata. Ma quest’azione distruttiva e di controllo deve essere immediatamente accompagnata da un’opera positiva di creazione di produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza politica, la dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi senza la produzione, e tanto meno la dittatura che, attuandosi nelle condizioni di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra esasperata e da mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno anzi di una intensa produzione.
Ed ecco il vasto e magnifico compito che dovrebbe aprirsi all’attività dei sindacati d’industria. Essi appunto dovranno attuare la socializzazione, essi dovranno iniziare un ordine nuovo di produzione, in cui l’impresa sia basata non sulla volontà di lucro del proprietario, ma sull’interesse solidale della comunità sociale che per ogni branca industriale esce dall’indistinto generico e si concreta nel sindacato operaio corrispondente. Nel Soviet ungherese i sindacati si sono astenuti da ogni lavoro creatore. Politicamente i funzionari sindacali suscitarono continui ostacoli alla dittatura, costituendo uno Stato nello Stato, economicamente rimasero inerti: più di una volta le fabbriche dovettero essere socializzate contro la volontà dei sindacati.
Ma i leaders delle organizzazioni ungheresi erano limitati spiritualmente, avevano una psicologia burocratico-riformista, e temevano continuamente di perdere il potere che avevano fino ad allora esercitato sugli operai. Poiché la funzione per cui il sindacato si era sviluppato fino alla dittatura era inerente al predominio della classe borghese, e poiché i funzionari non avevano una capacità tecnica industriale, essi sostenevano l’immaturità della classe proletaria alla gestione diretta della produzione, essi sostenevano la "vera" democrazia, cioè la conservazione della borghesia nelle sue posizioni principali di classe proletaria, essi volevano perpetuare ed esasperare l’era dei concordati, dei contratti di lavoro, della legislazione sociale, per essere in grado di far valere la loro competenza.
Essi volevano che si attendesse la ... rivoluzione internazionale, non potendo comprendere che la rivoluzione internazionale si manifestava appunto in Ungheria con la rivoluzione ungherese, in Russia con la rivoluzione russa, in tutta l’Europa con gli scioperi generali, con i pronunciamenti militari, con le condizioni di vita rese impossibili alla classe lavoratrice dalle conseguenze della guerra.


La visione di Antonio Gramsci (22 gennaio 1891..27 aprile 1937) giovane, eppur già passato attraverso l’esperienza della guerra, è da fumetto. “Due proletariati internazionali” [perché non “nazionali”?!] d’operai e di contadini avrebbero magicamente instaurato il loro potere di classe come conseguenza delle “lotta di classe internazionale” [la guerra?!].

In realtà, le Russie erano nel mezzo d’una sonora sconfitta bellica, cui avevano contribuito, per via della debolezza strutturale interna russa, i socialdemocratici bolscevici che, con l’aiuto della Germania, la potenza contro cui le Russie erano in guerra, dopo un lungo periodo di lavoro disgregatore anti-zarista, avevano fortunosamente preso il potere in nome della fine immediata della guerra e della terra ai contadini. Il potere formale, quasi casuamente conquistato, con un colpo di mano, a guerra ancora in corso, s’era poi consolidato nel corso, e forse grazie a, una lunga guerra civile con intervento anti-bolscevico [almeno ufficialmente; mai crede troppo alle intenzioni dichiarate] occidentale. Le Russie erano così divenute una grande caserma ad economia di guerra. I contadini, a parte qualche periodo d’arricchimento incoraggiato dalla Stato [in po’ come i mille fiori fioriscano e mille scuole contendano maoista, che servì far venire allo scoperto chi doveva poi essere ghigliottinato], avevano visto il peggioramento delle loro già misere condizioni, con carestie e stermini “rivoluzionari”. La gran massa degli operai non aveva avuto miglioramenti. Era tuttavia emersa una casta d’operai e piccolo-borghesi talvolta solo arrivisti, altre volte d’intelligenza più o meno brillante, che aveva rimpiazzato le classi legate alla zarismo, in un clima di terrorismo di Stato tipicamente asiatico e d’industrializzazione forzata dai successi considerevoli sebbene del tutto funzionalizzata alle esigenze d’una economia di guerra con nette prospettive imperialiste. Lo Stato, pur nelle sue mille burocrazie e milioni d’uffici di burocrati e burocratini arroganti e sanguisughe, diveniva onnipotente. Le sue classi alte prosperavano. Il proletariato restava nel servaggio e nella miseria solite. Certo, si vedeva idolatrato, come astrazione, nei manifesti e nelle propagande: il conto della propaganda e dei propagandisti glielo facevano ben pagare.

Per quanto riguarda l’Ungheria, da parte di un forte e florido impero multinazionale, la sua nascita, come Stato autonomo, era stata una delle conseguenze della sconfitta bellica e disgregazione dello stesso. Il 31 ottobre 1918, la vittoria della rivoluzione ungherese portò alla nomina del conte liberale Mihály Károlyi come Primo Ministro. A novembre, in Re abdicò e l’Ungheria divenne una Repubblica. Nel febbraio del 1919, il governo liberale aveva già perduto ogni supporto popolare, anche a seguito del non soddisfacente andamento dell’operazioni militari per fronteggiare le spinte indipendentiste di altre nazionalità (rumeni soprattutto) allora incorporate dello Stato ungherese. Il 21 marzo 1919, anche sotto la pressione delle potenze vincitrici occidentali che pretendevano dall’Ungheria più concessioni territoriali, Károlyi si demise. Sulla base, sia di spinte nazionaliste, che delle solite proclamazioni sociali (più che altro quella della terra ai contadini, perché gli operai lo sanno che avere come padrone “lo Stato” [dietro la frottola di sé stessi che divengono padroni e dittatori] non cambia nulla se non in peggio), il partito comunista, sotto la direzione di Béla Kun (20 febbraio 1886..1937 o 29 agosto 1938 o 30 novembre 1939 [ammazzato in Russia dallo Stato russo]) prese il potere e proclamò la Repubblica Sovietica Ungherese. Dopo alcuni brillanti successi militari in Slovacchia, successivamente, come conseguenza, sia del terrore rosso, a seguito di un tentativo di colpo di Stato, terrore rosso che portò all’esecuzione sommaria di 590 persone, che d’una riforma fondiaria più preoccupata d’espropriare i latifondisti che capace di redistribuire in modo efficiente la terra ai contadini, pure la Repubblica Sovietica perse rapidamente consensi. Con l’Armata Rossa ungherese che, a seguito delle pressioni delle potenze dell’Intesa, evitò il combattimento, il 6 agosto 1919 i rumeni occuparono Budapest. Le Russie Sovietiche non poterono o non vollero portare alcuno soccorso. Già durante la Repubblica Sovietica d’Ungheria, i bianchi avevano creato un loro governo a Szeged, nel sud-est ungherese (nella geopolitica odierna, in prossimità dei confini serbo e rumeno dell’Ungheria), sotto la direzione del conte István Bethlen de Bethlen (8 ottobre 1874..~5 ottobre 1946, assassinato a Mosca dai sovietici) e del già ammiraglio in capo (dell’Impero Austro-Ungarico) Miklós Horthy de Nagybánya (18 giugno 1868..9 febbraio 1957, in Portogallo). Montò il terrore bianco un po’ dappertutto, nel paese, fino a che l’esercito di Miklós Horthy, col consenso rumeno, il 16 novembre marciò su Budapest e prese il potere restaurando progressivamente lo Stato Ungherese e la legalità. I rumeni, lasciando l’Ungheria, si dedicarono al suo saccheggio.

Il giovine Gramsci, invece che concentrarsi sulla storia, si concentra sui pericoli che i sindacati ed il loro dualismo con partito socialista o comunista rappresenterebbero per la “rivoluzione proletaria”: “In Russia e in Ungheria gli operai e i contadini hanno instaurato la dittatura proletaria e tanto in Russia che in Ungheria la dittatura dovette sostenere un’aspra battaglia non solo contro la classe borghese, ma anche contro i sindacati: il conflitto tra la dittatura e i sindacati fu anzi una delle cause della caduta del Soviet ungherese, poiché i sindacati, se mai apertamente tentarono di rovesciare la dittatura, operarono sempre come organismi "disfattisti" della rivoluzione e incessantemente seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli operai e i soldati rossi.” La butta sul dover essere, anziché sull’essere. Che è il modo per non comprendere una realtà si voglia combattere.

Infatti, non ne cava nulla, dalla sua visione fumettistica. Checché ne pensasse lui allora, l’Ungheria, area moderna, seppur di fronte a sconvogimenti e decurtazioni post-bellici, aveva visto un’effimera vittoria dei cosiddetti comunisti. Falliti sul fronte della riforma agraria e pure su quello delle fabbriche, che nazionalizzate non divengono magicamente più produttive, ma anzi lo divengono meno soprattutto se il tessuno di medie e piccole imprese viene paralizzato dalla caccia al padrone da eliminare, avevano rapidamente perso ogni consenso anche senza intervento esterni che hanno reso solo più rapida e meno dolorosa la restaurazione dell’ordine di classe precedente. Diversa la situazione delle semi-asiatiche Russie. Grandi manifatture avevano permesso di fare a meno del “padrone”, rimpiazzato dalle burocrazie zariste (che avevano già confidenza con lo Stato produttore e committente talvolta unico) lasciate del tutto intatte dal potere sovietico. Con popolazioni abituate al servaggio, i bolscevichi, con la violenza spietata, s’erano costruita una base sociale, prima, per reggere sia le ribellioni interne che l’intervento straniero, poi, con la fase dell’industrializzazione forzata, per poter passare al terrore contro contadini da cui pretendevano troppo senza dare nulla, a parte l’iniziale redistribuzione della terra.

Il giovin Gramsci è preso tra un Bordiga [Amadeo Bordiga (13 giugno 1889..23 luglio 1970)] “spiritualista”-educatore attorno a cui si raccoglie, inizialmente, in Italia, il Partito pro-Russo (per Bordiga, il Comintern sarà invece un immaginario partito mondiale di un proletariato mondiale astrazione filosofico-hegeliana, non realtà) ed un soluzione alla russa del movimento operaio di cui lui è parte, a Torino, nell’Italia della riconversione post-bellica e della “vittoria multilata” del debole Stato savoiardo, soluzione alla russa che permetterebbe a lui, locale leader socialista, di divenire uno statista.

Ecco che Gramsci vuole vedere le questioni del dualismo esistente tra sindacati e partiti socialisti dal punto di vista dell’“educazione rivoluzionaria delle masse” [visione bordighiana, ma pure leniniana se concepita come convinzione delle “masse” a sottomettersi e seguire il partito boscevico per permettere ad esso la conquista rivoluzionaria, per colpo di Stato, del potere politico], e si “convince” lui stesso che il sindacato è talmente importante da dover divenire, già prima della rivoluzione, di fatto un partito rivoluzionario più che un sindacato. Le “masse”, “se devono convincersi che il sindacato è forse l’organismo proletario più importante della rivoluzione comunista, perché su di esso deve fondarsi la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere, devono anche convincersi della necessità di creare, prima della rivoluzione, le condizioni psicologiche e obiettive nelle quali sia impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari organismi in cui si incarni la lotta della classe proletaria contro il capitalismo.” In pratica, qui, per Gramsci, il sindacato deve prendere il posto del padrone, sia locale, che nazionale, che globale. Ed ecco che, per magia, tutto funziona alla perfezione e l’operaio diviene materialmente e spiritualmente ricco.

Ma, dice Gramsci, i sindacati reali non capiscono ciò che devono essere, mentre l’avrebbero capito “i Partiti socialisti”: “La lotta di classe ha assunto in tutti i paesi d’Europa e del mondo un carattere nettamente rivoluzionario. La concezione, che è propria della III Internazionale, secondo la quale la lotta di classe deve essere rivolta all’instaurazione della dittatura proletaria, ha il sopravvento sulla ideologia democratica e si diffonde irresistibilmente nelle masse. I Partiti socialisti aderiscono alla III Internazionale o almeno si atteggiano secondo i principi fondamentali elaborati al Congresso di Mosca; i sindacati invece sono rimasti fedeli alla "vera democrazia" e non trascurano nessuna occasione per indurre o costringere gli operai a dichiararsi avversari della dittatura e non attuare manifestazioni di solidarietà con la Russia dei Soviet.

Subito di seguito, Gramsci illumina sulla soluzione: “Questo atteggiamento dei sindacati fu rapidamente superato in Russia, poiché allo sviluppo delle organizzazioni di mestiere e d’industria si accompagnò parallelamente e con ritmo più accelerato lo sviluppo dei Consigli d’officina; esso ha invece eroso la base del potere proletario in Ungheria, ha determinato in Germania immani carneficine di operai comunisti e la nascita del fenomeno Noske, ha determinato in Francia il fallimento dello sciopero generale del 20-21 luglio e il consolidarsi del regime di Clemenceau, ha impedito finora ogni intervento diretto degli operai inglesi nella lotta politica e minaccia di scindere profondamente e pericolosamente le forze proletarie in tutti i paesi.
I Partiti Socialisti acquistano sempre più un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista; i sindacati invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista e a diventare organismi meramente nazionali. Ne nasce uno stato di cose insostenibile, una condizione di confusione permanente e di debolezza cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo squilibrio generale della società e favoriscono il pullulare dei fermenti di disgregazione morale e di imbarbarimento.

La soluzione, sono, per Gramsci, i Consigli Operai. Il sindacato s’evole quindi in “Consigli d’officina”, in Consigli Operai.

I consigli sono, nel concreto d’allora, evoluzione delle Commissioni Interne, con Commissari di Reparto che già a Torino erano stati eletti e si stavano eleggendo nelle maggiori aziende, consigli che, nelle visione dei loro adoratori, dovrebbero progredire di livello in livello fino a quello nazionale. Il movimento dei Consigli dovrebbe avere, suggeriscono, oltre alla base direttamente produttiva, anche una base territoriale, fatta di comitati territoriali, sempre su base di classe, dunque d’operai e di contadini, che in parallelo e mescolati ai consigli di fabbrica si centralizza nazionalmente.

Sull’Ordine Nuovo esistono diverse posizioni, o diverse accentuazioni, ora variamente combinate, anche a seconda del momento. Una normale “confusione” alla russa: tutto va bene purché sotto la direzione del partito rivoluzionario, di “noi” che vogliamo prendere il potere in nome degli operai dei contadini, si rimpiazzi lo Stato, il governo in realtà, oggi esistente. Dico “il governo”, perché poi, nei fatti, si sovietizzano polizia, forze armate, magistrature, così come tutti i funzionari dello Stato, ed a meno che loro non si pongano contro o se ne vadano, con la giustificazione degli “specialisti borghesi e piccolo-borghesi che lavorano “per noi” nessuno ha mai distrutto né rimpiazzato lo “Stato borghese”. Nulla si crea dal nulla. La questione sarebbe il come si crea un nuovo potere. Ma con la frottola della distruzione dello “Stato borghese”, e della creazione ex novo dello “Stato proletario”, la questione è stata in genere evitata, almeno in termini teorici rigorosi. Confuse ed ideoligizzate sono state spesso le discussioni sovietiche e para-sovietiche in tema di diritto pubblico. Nella pratica hanno mantenuto e sovietizzato, maoistizzato, ecc. l’esistente. Cosa che in genere ha significato peggioramento di già malfunzionanti macchine statali, oppure loro rovina dove, prima del “socialismo” imposto per occupazione militare, v’erano macchine statali ben funzionanti.

Si vogliono modelli di State building, si guardi all’esperienza giapponese. Il cosiddetto movimento socialista, o comunista, o proletario, o operaio e contadino, ha solo praticato modelli d’asservimento, di servaggio, eventualmente con forme di terrore, delle burocrazie “borghesi”. Non ha mai praticato la distruzione dello “Stato borghese”, che del resto avrebbe senso solo per rimpiazzare eventuali inefficienze con l’efficienza. Per l’irresponsabilità generalizzata ed il clientelismo, la via più rapida è la “politicizzazione”, la sindacalizzazione, dell’esistente. In tutti i modelli social-burocratici conta la sottomissione formale, non ciò che realmente le organizzazioni statali facciano. Alla corruzione dei vertici politici e del nuovo potere non può che corrispondere la stessa corruzione a tutti i livelli, con forme di schiavizzazione o di servaggio spinto dove sia assolutamente necessario raggiungere dei risultati in qualche specifico settore tecnologico-militare o -poliziesco.

Secondo Gramsci, proprio perché i sindacati si sono dedicati alla lotta di classe, e, tuttavia, la lotta di classe immediata consisteva, alla fine, nelle piccole conquiste quotidiane, ecco che la lotta di classe reale ha sostituito quella immaginaria, l’abolizione dello sfruttamento da ottenersi, magicamente, solo se si riesce ad “eliminare il capitalista (il proprietario privato) dal processo industriale di produzione e di eliminare quindi le classi.

Pur nell’impossiblità [fino al momento in cui Gramsci scrive] dei fini inizialmente dichiarati, il Grande Fine, il paradiso operaio e popolare, i sindacalisti s’erano dati una spiegazione falsa, secondo Gramsci, della loro funzione: “Secondo le dottrine sindacaliste, i sindacati avrebbero dovuto servire a educare gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati di industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti a impadronirsi del complesso meccanismo della produzione e degli scambi. I leaders operai dell’industria del cuoio saranno i più capaci a gestire questa industria, e così per l’industria metallurgica, per l’industria del libro, ecc. Illusione colossale.
La scelta dei leaders sindacali non avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza meramente giuridica, burocratica o demagogica. E quanto più le organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità tecnica industriale divenne un non valore ed ebbe il sopravvento la capacità burocratica e commerciale. Si venne così costituendo una vera e propria casta di funzionari e giornalisti sindacali, con una psicologia di corpo assolutamente in contrasto con la psicologia degli operai, la quale ha finito con l’assumere in confronto alla massa operaia la stessa posizione della burocrazia governativa in confronto dello Stato parlamentare: è la burocrazia che regna e governa. La dittatura proletaria vuole sopprimere l’ordine della produzione capitalistica, vuole sopprimere la proprietà privata, perché solo così può essere soppresso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

A Gramsci, che pur ha l’esperienza della guerra, preceduta e seguita da esperienze dirette nel movimento sindacale e socialista, sfuggono delle leggi sociologiche elementari. Se ci si contrappone frontalmente ad un potere sufficientemente radicato e diffuso, seppur con tutte le debolizze italiche, non si ha alcun seguito. Se ci si dedica al lavoro sindacale, o si fa solo propaganda che solo in contingenze particolari può dare un qualche seguito tuttavia senza vera sintonia con i lavoratori, oppure si finisce per fare i mediatori fra “il padrone” ed “il lavoratore”, con inevitabile triangolazione con lo Stato e la sua legislazione di protezione del lavoro. Il sindacalista, semmai è onesto e non pensa a farsi solo gli affari proprio, deve mediare. Ed anche se è disonesto e corrotto, deve almeno convincere il lavoratore che tutela un qualche suo interesse diretto. Il rivoluzionario fa invece propaganda, che può trovare qualche apparente seguito strumentale, ma che poi si rivela per quello che è, senza alcuna possibilità concreta. Il tutto, sempre che “il rivoluzionario” non sia funzionale a qualche potere che lo usi ed, evenetualmente, ne sia usato. È quello che successe ai bolscevichi: v’era l’interesse tedesco a demolire lo zarismo come v’era l’interesse di burocrazie statali a salvarsi dal collasso bellico dello zarismo. Quelle di Stato e Rivoluzione [il testo di Lenin] sulla distruzione dello “Stato borghese” sono fantasie mai realizzate nelle Russie, neppure con Lenin statista. Forse fu per quello che le relegò in un libretto di vasta diffusione. Del tipo: ecco quello che si dovrebbe fare e non si farà, tanto meno nelle Russie.

Così, nella realtà, s’agita il boscevismo “contro” il padrone, e magari con soddisfazione del padrone stesso, solo per interventi statali di fronte a problemi di riconversione industriale, in un contesto sottosviluppista dove riconversione significa tagli senza prospettive per chi venga estromesso dalle strutture produttive esistenti. La via d’uscita sarebbero politiche sviluppiste. Si chiedono, invece, strumentalmente soluzioni “bolsceviche” di redistribuzione del sottosviluppo solito. Più serio [più produttivo], sia dal punto di vista individuale che sociale, il pensare a sé stessi senza truffare il prossimo con “soluzioni collettive” che spesso non esistono, soliti sussidi che danneggiano tutti a parte.

In effetti, Gramsci pensava a sé, ma dietro la copertura del movimento socialista e delle masse operaie. Le Russie Sovietiche, sia per difesa contingente che per politiche imperialiste, avevano bisogno della crisi dell’occidente. A ciò, alla “crisi dell’occidente”, pensavano già attivamente e ben più produttivamente gli inglesi che lavoravano per guerre più risolutive della prima cosiddetta mondiale prematuramente conclusa. La Terza Internazionale è la longa manus dei servizi di sicurezza, spionaggio e sovversione dello Stato russo. Dallo zarismo al bolscevismo. Rafforzati per nuove avventure, dopo che lo zarismo non aveva saputo vincere una guerra e neppure sopravvivere al malcontento popolare. Che in concreto significava soldi e posti sia per altri russi intraprendenti che per stranieri si ponessero al servizio delle Russie ora ribattezzate Unione Sovietica. Certo, ogni mestiere ha i suoi rischi. Gramsci lo faranno finire in galera i suoi [la concorrenza per il favore russo!], opereranno per tenercerlo più a lungo possibile e l’ammazzeranno pure, visto che di galera lo Stato italico lo fa uscire. Gramsci muore avvelenato, dopo che un’agente russa gli ha preparato la cena.

Alle masse si deve vendere il futuro radioso. Per l’interesse russo, oltre che per sé leaders “rivoluzionari”, si dovevano sottrarre “le masse” ai sindacalisti ed ai riformisti. Di fronte alle crisi economico-produttive, sia volute da centri internazionali che da debolezze interne, si doveva vendere il toccasana rappresentato dal clamore russo: “Il compito del Partito comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e contadini in classe dominante, controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria, e rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata. Ma quest’azione distruttiva e di controllo deve essere immediatamente accompagnata da un’opera positiva di creazione di produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza politica, la dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi senza la produzione, e tanto meno la dittatura che, attuandosi nelle condizioni di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra esasperata e da mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno anzi di una intensa produzione.
Ed ecco il vasto e magnifico compito che dovrebbe aprirsi all’attività dei sindacati d’industria.

Che significa: aiutateci ad eliminare i riformisti dai sindacati perché fatta la rivoluzione “come in Russia”, c’occorrono dei sindacati “rivoluzionari”, cioè collaborazionisti dei nuovi padroni di Stato e dunque sbirrri contro gli operai; o c’appoggiate con le buone o saranno problemi supplementari pure per voi.

Gramsci additava poi il nefasto [per i “comunisti”] esempio ungherese: “Ma i leaders delle organizzazioni ungheresi erano limitati spiritualmente, avevano una psicologia burocratico-riformista, e temevano continuamente di perdere il potere che avevano fino ad allora esercitato sugli operai. Poiché la funzione per cui il sindacato si era sviluppato fino alla dittatura era inerente al predominio della classe borghese, e poiché i funzionari non avevano una capacità tecnica industriale, essi sostenevano l’immaturità della classe proletaria alla gestione diretta della produzione, essi sostenevano la "vera" democrazia, cioè la conservazione della borghesia nelle sue posizioni principali di classe proletaria [proprietaria, forse; non “proletaria”], essi volevano perpetuare ed esasperare l’era dei concordati, dei contratti di lavoro, della legislazione sociale, per essere in grado di far valere la loro competenza.
Essi volevano che si attendesse la ... rivoluzione internazionale, non potendo comprendere che la rivoluzione internazionale si manifestava appunto in Ungheria con la rivoluzione ungherese, in Russia con la rivoluzione russa, in tutta l’Europa con gli scioperi generali, con i pronunciamenti militari, con le condizioni di vita rese impossibili alla classe lavoratrice dalle conseguenze della guerra.

Infatti gli operai restarono coi riformisti, evitando di dare sostegno elettorale e di massa ai pro-russi. Poi divennero fascisti. Più tardi, quando con la guerra, e soprattutto quando la sconfitta fu chiara a tutti, ridivennero socialisti e comunisti. E poi tutti democristiani e socialdemocratici, quando le esigenze del Piano Marshall e le sceneggiate della guerra fredda imposero, alle principali aziende, la caccia agli “agenti russi” in fabbrica. Era la moda, e l’interesse delle “masse”. Meglio “sbagliare” con tutti, che “aver ragione” da soli.

Che Gramsci credesse davvero nei sindacati c’è da dubitarne fortemente. Per cui, lo stesso articolo qui riportato, si basa su una finzione. Per conformismo da movimento socialista e social-comunista, un Gramsci doveva credervi o fingere di credervi. Nei canoni, il cosiddetto “movimento operaio” doveva avere avere delle organizzazioni sindacali, delle organizzazioni politiche ed, invero, pure altre organizzazioni di mutuo soccorso, cooperative ecc. Le ragioni erano banalmente concorrenziali rispetto a quanto già esisteva nel movimento sociale cattolico, o cristiano o yiddish od altri ancora (gli stessi padroni illuminati od alcuni governi più precoci d’altri). In fondo, era uno schema d’organizzazione comunitaria, che si trova un po’ in tutte le classi e categorie sociali ed un po’ in tutti i tempi.

Gramsci si basa sulla finzione che, siccome i sindacati esistevano, e non si potevano semplicemente liquidare, tanto alle liquidazioni verbali o nelle intenzioni non sarebbe poi seguita la loro sparizione od indebolimento sostanziale, allora essi dovessero servire per la “rivoluzione proletaria”. Non potendoli eliminare occorreva farli propri, o spingerli a non frapporsi tra “la rivoluzione” ed i lavoratori.

Gramsci, ed è la ragione dell’Ordine Nuovo da lui di recente [maggio 1919] con altri creato, credeva nei consigli, in slavo soviet. Quando Gramsci, nell’articolo qui riportato, scrive che sui sindacati “deve fondarsi la socializzazione dell’industria”, pensa in realtà ai consigli di fabbrica. Per Gramsci è il consiglio operaio, di fabbrica, d’unità produttiva, che è la cellula della società cosiddetta socialista. A che servano i sindacati se c’è già il consiglio, non lo si capirebbe, se appunto Gramsci non assumesse una realtà che a lui non piace, o non piace più, l’esistenza di sindacati, per cercare di minarla non potendo semplicemente predicarne la liquidazione.

I consigli di fabbrica s’erano andati creando nel dopoguerra e la loro visione era parasindacale, com’è inevitabilmente ogni movimento centrato sull’unità produttiva. I riformisti lavoravano per mantenerli nell’alveo parasindacale. Altri li volevano potenziale contropotere da far poi divenire potere che sostituisse quello padronale e lo Stato che secondo la vulgata era Stato borghese, cioé “dei padroni” (sebbene non sia così meccanico, benché gli Stati abbiano una natura di classe o di blocchi di classi o di frazioni di classe: la realtà non è mai come nelle pure astrazioni hegeliane, né l’astrazione si può applicare alla realtà senza mediazioni che [ri]rendano eventualmente vera). Il consiglio di fabbrica era visto come la possiblità di rimpiazzare il padrone, e di condizionare i manager, o con loro cogestire, creando così le basi per qual socialismo o non capitalismo di cui tanto si parlava ma che nessuno sapeva che potesse essere davvero [la democrazia di borsa è quella che s’avvicina in realtà di più al “socialismo”, mentre la proprietà di Stato apre la via al servaggio ed al neoschiavismo]. Sulla carta è tutto facile. Nella pratica, non si gestisce una unità produttiva o militare con continue assemblee e votazioni. Rimosso “il padrone” o la proprietà individuale [privata] non per questo scompare il capitale ed il capitalismo. Non scompare neppure lo stesso “sfruttamento”, che nel Capitale [Das Kapital] è astrazione scientifica usata per spiegare il senso stesso del lavoro e della riproduzione sia semplice che allargata del processo produttico, senz’essere la categoria morale o moralistica usata nelle vulgate socialiste e comuniste. Si può essere marxiamente “sfruttati” anche con salari da un milione d’euro l’anno: appunto, la categoria marxiana è un’astrazione scientifica per spiegare il senso stesso dell’interazione produttiva, non una stigmatizzazione moralisteggiante. Che il plusvalore vada “allo Stato” od alla “società” non è affatto detto che faccia sparire lo “sfruttamento”. In realtà lo “sfruttamento” sparisce solo quando il plusvalore prodotto va a se stesso/a. Ardui i problemi “contabili” [ed anche metodologici: se ciò che era considerato plusvalore lo si considera retribuzione del lavoro composto manageriale?]. Se poi la produzione, grazie a consigli/soviet universalmente diffusi ed operanti, ed all’assenza di responsabilità individuale, è mal organizzata e declina, si continua ad essere sfruttati e si vive pure peggio che in condizioni di “sfruttamento padronale”. Ciò che può soddisfare la propria invidia [la distruzione dell’altro, “il ricco”] ma va contro il proprio interesse materiale. Ciò che s’è chiamato lotta di classe o odio di classe è spesso solo invidia “di classe”, che mira a sopprimere “il padrone”, “il ricco”, anche se poi si sta tutti i peggio e nuovi ricchi proliferano.

La stessa occupazione delle fabbriche del 31agosto 1920 e per circa un mese, che previene la serrata padronale, e col governo che genialmente evita ogni intervento repressivo, ha ragioni sindacal-rivendicative. Come al solito, i “rivoluzionari”, i “sovietici”, vogliono vedervi la prova che gli operai possono gestire le fabbriche senza padroni. Certo che possono. Se l’unico problema d’un azienda dovesse limitarsi a fare ogni giorno quello che faceva il giorni prima nei secoli dei secoli, qualunque azienda potrebbe andare avanti senz’altri che i lavoratori [managers inclusi] addetti alla produzione ed alla amministrazione corrente. Il “padrone” non ha una vera funzione, in quanto tale, tanto che la borsa valori supplisce ottimamente, negli Stati più svilupppati. Il “capitano d’industria” è del tutto irrilevante sia padrone o salariato, purché faccia il suo mestiere.

Nel 1920, quello che per taluni e per i lavoratori è un banale conflitto sindacale, pur in un contesto difficile perché di trasformazioni produttive in un’area geopolitica e geoeconomica debole, per altri diviene agitazione per la rivoluzione “alla russa”. Quella che è occupazione delle fabbriche come manovra nell’ambito d’uno scontro sindacale, diviene, per altri, gli operai che dovrebbero armarsi e marciare sui palazzi del potere, anche se nessuno poi lo fa davvero, anche perché perché l’occupazione delle fabbriche riguarda il triangolo industriale, mentre i palazzi del potere formale sono a Roma. Nessuno all’epoca, evidentemente, pensava alla secessione, per quel che se ne sa. La marcia su Roma la farà qualche d’un altro, col permesso del Re e dei suoi carabinieri e polizia.

Normale, che un rivoluzionario liberale, per nulla italiotico, alla Piero Gobetti (19 giugno 1901..16 febbraio 1926), già esaltatosi per la rivoluzione russa (il bolscevismo letto come movimento liberale), fosse entusiasta del movimento dei consigli di Torino e del Nord-Italia. È un modo di leggere le cose al di là delle etichette, al di là delle ideologie per le masse. È la visione d’un capitalismo che si liberi di “padroni” gretti e di parastato. Il bolscevismo come purga del capitalismo. Certo più brillante di un Benedetto Croce (25 febbraio 1866..20 novembre 1952), il filosofo delle conservazione, che vede il fascismo come vaccino dal boscevismo: lo diciamo non per ragioni di colore; non ci interessano i colori, pur così essenziali nel mondo dei clienti e dei servi; nell’analisi storica e politologica ciò che reale è razionale ed è sempre “bello” e “buono”; ma perché il bolscevismo lavorò più a fondo (non fu solo un governo ed un appendice dello Stato formale, come fu il cosiddetto fascismo, il socialismo autorizzato dal Re e dai suoi sbirri, di cui le corrotte oligarchie e burocrazie italiche si liberaroro, quando non servi più, facendone caricare dai carabinieri il massimo leader su un’ambulanza) seppur la sua natura di fatto semi-asiatica e la sua funzionalizzazione prima ad esigenze di guerra tedesche, poi al dominio imperiale britannico col suo modello di dominio fondato sul sottosviluppo altrui non potevano non sfuggire al giovanissimo, precocissimo e pure deceduto in ben giovane età Gobetti; nonostante ciò il bolscevismo si integrò con lo Stato zarista divenendone parte, rivitalizzandolo e così facendolo suo o divenendo d’esso (non è qui importante; ogni fenomeno ha sempre aspetti multipli, almeno doppi, in parte dipende dal punto di vista, dall’aspetto si vuole cogliere).

Il “bolscevismo” e l’operaismo di Gobetti fu una triangolazione per prendersela col “capitalismo” di parastato (e pur con Stato burocratico corrotto ed inefficiente) italiota. Al contrario, in Gramsci, la denuncia del patto scellerato (in realtà, un modello sottosviluppista compradoro, che era nei patti londinesi di creazione dello Stato italico) tra borghesia industriale del Nord con assistenza di Stato e le classi parassitarie del Sud fattesi savoiarde, con Sud ridotto a puro mercato di prodotti del Nord e serbatoio di manodopera, si risolve nella proposizione di un modello di piano “operaio e contadino”, la “socializzazione” delle produzione che di fatto esalterebbe solo le burocrazie corrotte ed inefficienti e chi ad esse ruota attorno, con ulteriore pauperizzazione degli stessi produttori. Ah, certo, queste non sono le intenzioni dichiarate. Ma, se uno si butta in un burrone, inutile dica che lo fa per per rimettersi in salute. Una banalità, la visione “storica” di Gramsci, che indica un’incomprensione totale dello spazio italico e della sua storia. In Gobetti, la ricerca intellettuale e le proposizioni pratiche sono fruttuosamente eclettiche, e movimentiste col vantaggio di tenere conto delle forze reali in campo ed in azione.

Alla fine della guerra, la Fiat si trova ad avere fatto un considerevole balzo in avanti. Essa era giunta ad occupare il primo posto in Europa per la produzione di massa di veicoli a motore e poteva essere annoverata tra i più potenti complessi industriali del mondo. La fine della droga bellica provoca su tutto il sistema produttivo italico, come in altri, altrove, crisi ed inflazione. La necessità d’una rapida riconversione dalla produzione bellica a quella civile provocò acute difficoltà tanto più le aziende si erano convertite all’economia di guerra. Ciò, in realtà, in Italia, valeva solo in alcuni casi, forse, talvolta, gonfiati perché l’assistenza statale di fatto delle commesse di guerra continuasse o passasse ad altre forme di sostegno. Un corso militarista sarebbe per esempio stato vantaggioso, sebbene lo Stato compradoro italico non godesse di reale autonomia nelle scelte, soprattutto in questo campo. Altre alternative erano possibili, per uno Stato capace, avesse voluto essere utile all’economia. La Fiat, visto il tipo di produzioni, bastava cambiare solo il colore della vernice in molti casi, non ebbe reali contraccolpi dalla fine dell’economia di guerra all’italica. Si trovò solo con un forte indebitamento. Ciò che non impedì, anzi si disse lo fece proprio perché indebitata, di tentare di scalare, nel 1919, il Credito Italiano. Fu bloccata solo dall’intervento governativo ed obbligata a disfarsi, con ricche plusvalenze, delle azioni rastrellate. Nel movimento dei Consigli di Fabbrica e l’occupazione delle fabbriche, di cui la Fiat fu uno dei centri maggiori, giocavano fattori sistemici, di debolezza statuale, come sindacali, miopia padronale inclusa, sebbene la Fiat avesse sempre guardato con attenzione al riformismo operaio e curato l’integrazione della forza-lavoro. Sebbene la forza lavoro, la sua composizione e comportamento, sia elemento del processo produttivo, sarebbe limitato vedere il fordismo come risposta alla “rivoluzione proletaria”. Il fordismo, l’organizzazione scientifica del lavoro [OSL], era la risposta tecnico-organizzativa alle necessità della produzione di massa. Questo significava pure, a livello soggettivo, la trasformazione o l’espulsione dal processo produttivo della forza lavoro refrattaria a passare da forme artigianali a forme più parcellizzate e macchinizzate del processo produttivo. L’operaio socialista, e poi comunista, è sempre stato nella grande industria del Nord, l’operaio più professionalizzato, mentre l’operaio massa [espressione successiva, non dei tempi cui qui ci riferiamo, a quel che ne sappiamo], era l’operaio appena inurbato o pendolare dalle campagne. “Cattolico” o “autonomo”. L’operaio professionalizzato, l’operaio di mestiere sopravvive fino agli anni ’70. Non a caso, forse, dagli anni ’80, il PCI, da “partito Costituzionale” evolve rapidamente verso qualcos’altro, e si prepara per qualunque avventura con nuovi padroni. Da partito di una cupola di Confidustria ben integrata nello Stato DC-PCI, il PCI diviene il partito d’una cupola di Confindustria che si “fascistizza” e va all’assalto eversivo (con sovversione intra-istituzionale, non con l’assalto di squadrismo esterno) del regime DC-PCI per mettere i suoi agenti diretti nel governo.

La Fiat, nel marzo 1921, annuncia il licenziamento di 1,500 operai a seguito della chiusura di alcuni stabilimenti. Qualcuno parla di licenziamenti di 4,000 operai, nel marzo-aprile del 1921, (http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=206 ; non ho capito se in tutto il Nord, o solo a Torino, o solo alla Fiat) “in buona parte comunisti”. Se uno stabilimento viene chiuso, salvo trasferimenti o riassunzioni, si licenziano tutti: certo, può anche essere fossero “tutti comunisti”, sebbene in Italia si siano scritte così tante frottole di regime per far divenire tutta la storia passata “comunista” [i dati elettorali, sia del PCd’I, che i primi del PCI, pur gonfiato dall’occupazione e dagli aiuti Alleati, non danno un quadro “comunista” quantitativamente così rilevante come sempre dipinto dalla propaganda di guerra e di post-guerra, filmetti e fumetti “storici” inclusi: la storia, dappertutto, è sempre differente dalle fiabe opportune e suadenti che pur si fissano nelle teste come uniche Verità]. Progettato nel 1915 secondo schemi fordisti (sebbene, nonostante le declamazioni, l’introduzione vera del fordismo e con catene di montaggio s’estese nel tempo), nel 1922 apre lo stabilimento del Lingotto, che è nella città di Torino, lungo la linea ferroviaria che porta alla stazione principale, Porta Nuova. Qualcuno ci dice che “nel 1930 al Lingotto l’occupazione era scesa sotto le 8.000 unità” [ http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=206 ]. Per cui il Lingotto, nel 1922-1923 (fu inaugurato nel 1923), o anni immediatamente successivi, assorbe un’occupazione operaia di ben più di 8,000 unità. La stessa occupazione Fiat era passata da 4,000 unità nel 1914 a 40,000 nel 1918 [ http://www.dse.unive.it/storia/sem06.htm ]. Sul Lingotto, una fonte del Comune di Torino ci dice che: “I lavori iniziarono nel 1916; nel 1921 furono ultimate le officine con la pista sul tetto, e dal 1922 iniziò la produzione. Gli operai addetti erano inizialmente circa 20.000.” [ http://www.comune.torino.it/pss03-06/669.pdf ]

Che Gramsci si mascheri dietro la finzione del sindacato che diviene buono e rivoluzionario, oppure che esalti la democrazia dei consigli d’officina, la sua visione è un concetto d’armonia dei produttori da socialismo utopistico. I “produttori” s’esprimono e s’unificano armoniosamente come tali, rimuovendo gli “sfruttatori”, “il padrone”, e tutto viene magicamente risolto secondo criteri d’ottimo sociale che sono naturalmente ed armoniosamente assicurati. Si produce quello che serve. Il lavoratore è felice ed appagato, e diviene benestante. Che poi prezzi concorrenziali ed iniziativa privata siano ben meno costosi e ben più efficienti di un piano che cerchi di soddisfare tutti in media governando tutto dal chiuso di uffici dove ci si deve immaginare i desideri, orientarli, cercare di soddisfarli, e tutto organizzare, oppur lasciare tutto disorganizzato, non sfiora neppure la mente del giovin intellettuale socialista o social-comunista. La pianificazione burocratica di tutta l’economia cozza contro ostacoli pratici. È già sufficientemente complicata quella aziendale che pur procede, più semplicemente, secondo logiche adattive.

Non solo i disastri, ma l’impotenza, dei piani “socialisti” sono ben visibili, come sono visibili invece, in aree non “socialiste”, non a “democrazia popolare”, i successi di piani mirati non alternativi all’iniziativa individuale ed al mercati, né con pretese totalizzanti. Se vuoi trasformare rapidamente Taiwan o la Corea in centri tecnologici avanzati, certo che occorre un qualche piano ed intervento efficiente per permettere di farlo superando inevitabili difficoltà e fallimenti del momento, cosa che non sempre il “capitalista” da solo può od è disposto fare. Ma per tutto il resto, dal tessuto di piccole imprese, ai negozietti o negozioni che proliferano dappetutto, un piano centrale sarebbe solo d’ostruzione e di danno, dunque uno spreco sia per i costi diretti che, ancor più, per i disastri che provoca. Certo, uno Stato che si lanci piani di modernizzazione deve saperlo fare, o volersi mettere in condizione di poterlo fare. Non basta sussisiare la grande industria. Il disastroso esempio italico, dopo le pur considerevole realizzazioni dell’IRI mussoliniana, è lì. Più lo Stato ha finanziato, più ha mantenuto e diffuso sosttosviluppo. Quello che è riuscito in Corea non è riuscito in Brasile. Esistono, nella letteratura economica od economico-politico-sociale, analisi sul perché la Corea abbia saputo per esempio dotarsi d’una industria computeristica avanzata mentre il Brasile non abbia ottenuto risultati comparabili nonostante gli sforzi e le intenzioni. Sono differenze interne, di attitudine a fare e di attitudine a non fare o far male. Un governo ed uno Stato efficiente assicurano l’ordine pubblico e l’ambiente favorevole al lavoro ed alla vita. Se pretendono d’organizzare il lavoro e la vita provocano solo danni, innanzitutto ai lavoratori stessi. Se vogliono fare qualcos’altro devono saperlo fare o volersi rapidamente mettere nelle condizioni per farlo. Riviste d’economia corporativa o brillanti teorizzazioni oxbridgiste sull’economia di piano possono essere affascinanti alla lettura. Nelle pratica non hanno mai funzionato, in tempi moderni o contemporanei.

Non vale neppure l’obiezione che il “socialismo” o “comunismo” di piano fossero cose nuove mai sperimentate prima dell’esperienza sovietica. Non è così. L’esperienza sovietica ripete in peggio, pur con successi considerevoli dal punto di vista dell’industrializzazione pesante militare, la tradizione russa di stato azienda con relativi schiavi o servi. Così come tutte le economie schiavistiche o servili hanno una lunga storia, pur con brillanti realizzazioni, almeno per l’archeologia, non sempre per le masse. Una cosa, sono le realizzazioni egizie nel governo delle acque, e dunque nella produzione agricola, o nella costruzione di città. Non sappiamo se le pur mirabili, oggi, piramidi avessero ricadute sociali o tecnologiche come, ad esempio, tempii, chiese, stadi, anfiteatri, industria militare moderna. L’economia di piano schiavistica o servile non è cosa nuova. Ha una lunga storia ed è stata ed è tuttora dominante in vaste aree del mondo. Si tratta di vedere, come si trattava di vedere ai tempi del giovin Gramsci, sia dopo che prima la prima guerra mondiale, se i “mali” del cosiddetto capitalismo fossero e siano alleviabili e risolvibili con una economia di piano, con una concreta economia di piano, non con una immaginaria in cui si decide quel che il cittadino felice dovrà consumare e poi effettivamente consuma felice e non necessita d’altro. Con la tecnonologia presente non sembra possibile. Tanto meno con la tecnologia d’un secolo fa. Tecnologia future la renderanno magari inutile, anche se fosse teoricamente possibile. Non possiamo comunque saperlo. I “mali del capitalismo” sono altri, così le possibili soluzioni, da quelli inventati dal “movimento socialista” per altri fini, non certo per la “causa del proletariato”. Le Russie volevano restaurarsi coi loro già sperimentati metodi semi-asiatici, anche se magari solo con quelli americani sarebbero davvero divenuti una grande potenza competitiva. La loro pianificazione viene da lì. S’eviti pure di scomodare un Marx senza seguito [lo citava Kautsky, e perché connazionale, per giustificare la prassi riformiste tedesche e poi lo usarono taluni russi di cultura filo-tedesca, come autorità, per differenziarsi da un ben più popolare socialismo populista russo], che nessuno leggeva e tanto meno studiava (se non poi per cavarne citazioni “bibbliche” per le liturgie della nuova Chiesa), in cui non v’è n’è traccia, se non qualche riferimento ipotetico in occasionali scritti politici. Uno dei bracci dell’imperialismo ed espansionismo russo-sovetico era la Terza Internazionale [Comintern], il cosiddetto “movimento comunista”, “movimento comunista” che doveva vendere, nel campo dell’immaginario popolare, quel che aveva: il paradiso “sovietico” del piano operaio e contadino.

I più furbi ed i più capaci di farsi notare divennero funzionari a pagamento dell’imperialismo sovietico, a cominciare da Gramsci, il cui dissenso col datore di lavoro coinciderà con l’arresto “fascista” proprio mentre andava ad incontrare un funzionario del suo datore di lavoro, il Comintern. Comintern che di fatto lo espellerà, isolandolo dagli altri prigionieri “comunisti” (quando dal semplice confino passerà alla galera), diffamandolo internazionalmente (ma col metodo del passaparola; pubblicamente resterà il “grande capo”, sì da poterlo accusare pubblicamente di tradimento se lui avesse mai pubblicizzato la rottura di fatto avvenuta) e lo terrà sotto controllo stretto in cambio d’un conto illimitato per libri e riviste (Sraffa certo non incontrava né assisteva Gramsci, né coordinava lo spionaggio ed altro contro di lui, per amicizia personale, visto che riferiva tutto a Togliatti ed al centro di Parigi); poi, guarda caso, Gramsci cadrà avvelenato il giorno stesso in cui, dopo anni di libertà condizionale, avrà ricevuto la comunicazione di libertà totale e giusto mangiato una cenetta appena preparata da un’agente dell’Ambasciata Sovietica di Roma che tra la notizia della libertà totale (da lei comunicata a Gramsci la mattina) e la preparazione delle cenetta era andata all’Ambasciata Sovietica, o chi per essa, a chiedere “istruzioni”. Veleno. Vomito e paralisi. Agonia. Decesso. Cremazione per cui s’era ossessivamente spesa la stessa agente sovietica aveva lui preparato la cenetta fatidica che conduce alla lunga agonia da avvelenamento. È tutto innocentemente scritto: le conseguenze e l’ambientazione, non ciò che avesse messo, magari innocentemente ed amorevolmente [le vie del condizionamento sono innumerevoli] nella minestrina o in altre parti dalla semplice cena. Mai usare la fantasia per cose così delicate. Basti leggere e rileggere quel poco cui si può accedere sul fatto e sui fatti. E su quello, sui fatti e circostanze del decesso si sono gettate coltri di menzogne. Nessuna ricerca, nessuno studio, nessun convegno. Solo menzogne, per far credere altro, che un banale vomito da cenetta, paralisi parziale da vomito-veleno non da altro, agonia e decesso da parte d’un ricoverato in discrete condizioni di salute. Tanto che aveva predisposto tutto per l’espatrio [vedere perché e come si disfa dei suoi preziosi Quaderni d’appunti per poi farseli spedire dove voleva andare: Parigi; avesse voluto metterli al sicuro “per la storia”, bastava mandarli a Mussolini!]. Al contrario, la menzognera “storiografia” picciista l’ha sempre descritto come da anni moribondo ed in carcere.

Amadeo Bordiga, il fondatore del PCd’I, a Livorno, al congresso socialista del 1921, quello della scissione del PSI e della nascita del PCd’I, interverrà, naturalmente, su queste tematiche sindacal-consiliari che erano il pane della politica del tempo, vista l’influenza dell’esperienza sia russa che italica. [Intervento di Bordiga al congresso socialista a Livorno 1921, Articolo per Ordine Nuovo del 20 gennaio 1921, trascritto dai compagni del Partito Comunista Internazionalista (Battaglia Comunista) [ http://www.internazionalisti.org/ ], edizione elettronica di riferimento, riveduta e corretta: http://www.marxists.org/italiano/bordiga/1921/1/20-inter.htm , http://www.classicitaliani.it/storia_materiali/bordiga_Livorno_1921.htm ]

Solite visione fumettistiche sullo Stato “borghese” russo spezzato per crearne uno nuovo: “La prova, anzi l’esempio concreto della realtà di questo sviluppo storico ce l’ha dato la rivoluzione russa. Essa ha iniziato l’effettiva liquidazione della guerra e mostrato che il proletariato non può sostituire se stesso alla borghesia se non spezzando tutte le istituzioni che la borghesia ha creato per il suo governo.” Alla fine, con la scusa degli “specialisti borghesi” utili al proletariato, nelle Russie si terranno non solo i veri specialisti, ma pure burocrati inetti e corrotti che creeranno il regime d’anarchia burocratica che collasserà l’Unione Sovietica negli anni ’80, dopo averla fatta vivacchiare certo come vasto impero e con molte realizzazioni da classifiche dei primati ma con vita grama per le vaste masse del nuovo servaggio della grossa caserma “sovietica”.

Artificiosa, ed egualmente fumettistica, in Bordiga, fondata sulla confusione tra parole e realtà, la contrappozione “riformisti”-“rivoluzionari”: “La contraddizione dei principi costringe la socialdemocrazia a fallire anche in pratica. Ovunque essa è andata al potere, in Ucraina, in Georgia, in Germania, e non solo parzialmente, ma ereditando tutto il potere dallo Stato borghese, è stata obbligata a ricorrere alla violenza e alla dittatura. Ma mentre la dittatura e il terrore in Russia sono stati applicati contro la borghesia, nei paesi socialdemocratici la dittatura e il terrore vengono applicati contro il proletariato.” Si danno etichette alle cose. Poi si dice che la realtà s’è conformata alla “teoria” ed al dover essere.

Ed ecco che in nome della “teoria”, del dover essere, e delle etichette di comodo opportunamente distribuite, i “rivoluzionari” sono saltati sul carro della rivoluzione russa per farne poi i loro usi interni e per riscrivere la storia. “Anche fra noi - egli dice - il dibattito e la lotta tra la sinistra marxista e il riformismo, produssero contrasti. Tra il 1900 e il 1914 la sinistra ebbe il sopravvento nella organizzazione politica, ma le mancò il tempo di sviluppare effettivamente la sua azione, soprattutto nei sindacati e nel campo della politica parlamentare e amministrativa. Il nostro Partito entrò nel periodo della guerra col suo vecchio meccanismo colla sua antica struttura, lasciando i capi parlamentari e sindacali riformisti ai loro posti. Quindi la stessa opposizione alla guerra non ebbe un carattere esclusivamente rivoluzionario e di classe, fu determinato da motivi di vario genere: sentimentali, umanitari, utilitari e così via.” Vi saranno state delle ragioni se i “grandi rivoluzionari”, che pur sembravano prevalere nel PSI d’allora, Mussolini era uno di loro, si sono poi accorti che non avevano agito secondo i canoni rivoluzionari, ma se ne sono accorti solo dopo la guerra, e pure chi, come Bordiga, se n’era accorto da sempre, non aveva tuttavia potuto far nulla. Come vi saranno state delle ragioni se, invece, i bolscevichi russi, non senza aiuto dei soldi e dei servizi di sicurezza tedeschi, avevano saputo sfasciare le Russie e poi, con un colpo di mano, prendere il potere formale, e, con armamenti certo non venuti dal nulla, battere i bianchi inteni e l’aiuto esterno ad essi fu dato. Anche in Italia, i soldi esteri erano affluiti, ma francesi, cioé inglesi in pratica, al socialista rivoluzionario Mussolini, perché l’Italia entrasse in guerra. I tedeschi avevano finanziato la rivoluzione bolscevica. I francesi il mussolinismo rivoluzionario interventista per soccorrere la monarchia obbligata a Londra ad intervenire in guerra al fianco loro ma in minoranza nel parlamento e nel paese, oltre che, come al solito, con esercito ed economia impreparate a combattere. Cose che all’epoca tutti sapevano. Tuttavia, eleganti, i “rivoluzionari” parlavano di massimi sistemi invece che di banali realtà storiche.

L’“insegnamento” strumentalmente assunto da Bordiga dalle Russie è la centralità del partito, rispetto ad ogni altra organizzazione operaia: “I socialdemocratici e gli unitari ci oppongono che gli organismi economici e politici attualmente posseduti dal Partito sono i migliori strumenti per la conquista del potere politico. Ma ciò è erroneo. Essi parlano in questo modo dei Comuni delle provincie e Cooperative come di fortilizi utili alla causa della rivoluzione. Questo concetto è errato. Questi organismi sono strumenti di conquista solo in quanto sono nelle mani di un Partito che si sappia servire di essi per poter abbattere il potere della borghesia. Se questa condizione non si avvera, questi sforzi diventano nuove catene per il proletariato. Ed è questa un’altra ragione perché da un partito rivoluzionario si deve escludere la parte socialdemocratica.

Gramsci guarda ai consigli di fabbrica, secondo lui ed altri il contropotere vivente e che già prefigura la società futura. Bordiga guarda al Partito che solo può evitare l’immiserimento sindacalista o fabbrichista. Nessuna delle due componenti del poi PCd’I ha però organizzato i drappelli per prendere i palazzi del potere e proclamare la Repubblica Sovietica d’Italia. Il movimento dei consigli di fabbrica, soprattutto chi ne dava un’interpretazione rivoluzionaria, accuserà i socialisti d’averli isolati nazionalmente. Invero, l’occupazione delle fabbriche riguarderà il triangolo industriale che non era certo tutta l’Italia, ma ne era sempre il cuore produttivo. Bordiga, cosciente, che senza “crollo” dello “Stato borghese” nessuno può dare il colpo per metter sé al governo, si limiterà a constatare che il partito rivoluzionario non esisteva e doveva essere dunque costruito. Di lì la scissione che era all’ordine del giorno di quel congresso del PSI, scissione russo-sovietica non certo davvero rivoluzionaria. Infatti, Bordiga, pur stragrandemente maggioritario nel PCd’I da lui creato, verrà rapidamente commissariato dal Comintern che pagherà i suoi funzionari italici e con loro e di brogli metterà poi formalmente in minoranza Bordiga per avere così il suo partitino satellite di avventurieri che tutto dovevano a Mosca. Il PCI sarà partito di massa [*] grazie al sostegno Alleato [**], non certo per quel PCd’I creato da Bordiga nel ’21 e sopravvissuto, con Togliatti, come banda di mercenari dei servizi di sicurezza sovietici che li usavano per le loro operazioni estere.

Le visioni riformistico-fabbrichiste di Gramsci, con la nuova società che nasce dalle unità produttive e rimpiazza la vecchia, e quelle rivoluzionario-sovietiche [di soviet territoriali, politici, sotto controllo di un mitico Partito di puri fanatici] di Bordiga, col suo Partito che educa e sottomette avanguardie e masse, si risolveranno, nella realtà, nella divisione tra i disposti a mettersi al servizio di Mosca in cambio di stipendi ed altro e coloro che resteranno fuori dal mercato degli agenti di Mosca. Già bordighiani, non tutti [infatti Togliatti, ex-bordighiano, non farà ammazzare pure Bordiga sia perché costui è fuori dal mercato politico “Alleato” ma anche perché temeva che qualcuno dei suoi “fanatici seguaci” non avrebbe lasciato impunito il delitto], diverranno “gramsciani” dunque agenti moscoviti. I gramsciano-togliattiani non discuteranno il “soviettismo” reale e faranno gli scondizolatori ligi di Mosca, salvo ritorsioni ed esecuzioni se cercheranno d’abbandonare la Chiesa moscovita e non si sottometteranno ad altre più potenti. I bordighiani resteranno legati al loro soviettismo e rivoluzionarismo mitizzato e mitico.

Per Bordiga, avversario d’ogni visione democratica, il soviet è importante solo se sotto la direzione del partito, partito di cui ha una concezione metafisico-religiosa, il partito come strumento della Storia, il braccio secolare dello Spirito Santo. Il Partito è lui Bordiga e chi è d’accordo con lui [***], oppure lui Bordiga ed apostoli di fede lavorano per preservare questo immaginario partito puro per quando la storia reale sarà pronta a comprenderlo e dar esso il posto di direzione assoluta ed indiscutibile che ad esso spetta. La clausura come purificazione di sé ed espiazione per chi non capisce, in attesa che il Cielo ristabilisca ognuno nel proprio ruolo, il Partito come direzione assoluta e fanatica ed i proletari come massa di manovra obbediente perché altrimenti non è proletariato vero, non è pronto. È semmai proletariato in sé, ma non per sé. Un’immaginaria traversata nel deserto mentre invero attorno tutto è in grande movimento e non v’è alcun deserto, ed il Paradiso quando il deserto sarà finito. L’“invarianza del marxismo” come Bibbia formato mega-enciclopedia oppure immaginata per chi non avesse neppure qualche confidenza con qualcuno dei volumi della mega-Bibbia, di cui comunque importante è l’intepretazione, che è data dal Partito, Bordiga e correligionari. Se “il marxismo” è “invariante” non occorre la democrazia, che comunque è vero non risolva problemi teorici e, talvolta neppure pratici. Ma neppure la non-democrazia risolve alcun problema. Resta, inoltre, la questione di come si faccia a sapere che chi si dichiara il Vate assoluto di quell’invarianza del marxismo con cui sola si può [secondo questa scuola di pensiero] creare il partito, educare il proletariato ed instaurare la sua dittatura, lo sia davvero. La Fede non necessita di dimostrazioni. Uno è stato a Mosca. S’è scontrato con Lenin e con Stalin. Sa. Studia. S’appassiona. Ecco che deve essere Il Messia.

È Bordiga stesso a dire esplicitamente cosa sia per lui il “socialismo moderno”, la “sua forma teoretica”: “[...] non è un sistema di opinioni in materia puramente politica o anche economico sociale, ma una concezione integrale del mondo in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue parti.” [Amadeo Bordiga, Critica alla filosofia. Escursione con il metodo di Marx intorno alla teoria borghese della conoscenza e alla non-scienza d'oggi, I. APPUNTI EPISTEMOLOGICI (1926-27),
www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ] Di questa casta monastica bordighiana prima sono “finiti” i singoli militanti, poi è finita pure quella finzione di Partito. Non che altri “partiti comunisti” o “partiti comunisti rivoluzionari” abbiano dato migliore prova si sé... Ci limitiamo solo a constatare un fatto. Questi si sono estinti. Certo, di questo filone, altre sigle sono apparse o precedenti eresie si sono, almeno come nome, perpetuate. Altri [i togliattiani e post togliattiani o simili, ed altre derivazioni della Casa moscovita stalinizzata, inclusi gli stalinisti “critici” trotskysti e simili] anguilleggiano tra panfili, salotti, presidenze nello “Stato borghese”, posti in parlamenti od altrove, o fanno i fessi “di base”.

La scuola bordighiana d’oggi, o qualcuno d’essa, dà questa classificazione teorica di Gramsci: “Sul piano dell'epistemologia Gramsci faceva parte di quella corrente variamente definita – neokantismo, pragmatismo, vitalismo, neo-positivismo, esistenzialismo, ecc. – che Lenin, anticipando successivi invarianti, criticò in quanto empiriocriticismo. Oggi la corrente sopravvive come nuova forma di vitalismo, negando la possibilità di trattare i dati sociali con gli stessi criteri con cui si trattano i fenomeni della natura. Con il ritorno a tali vecchie dicotomie si nega quindi la possibilità stessa di conoscere, di avvicinarsi alla realtà oggettiva, di prevedere gli eventi, insomma di far scienza unitaria fra società e natura, che sarebbero mondi separati.”
[ www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ]
Sia esatta o meno questa definizione, la fretta dell’adesione alla bibbia-enciclopedia del già tutto scritto nei libri del “marxismo inavariante” fa dimenticare che Lenin [Vladimir Il'ič Ul'janov, 22 aprile 1870..21 gennaio 1924)], più preoccupato di catechistica politica che di questioni metodologiche, in Materialismo ed Empiriocriticismo (1909) lancia certo vecchio materialismo francofono contro nuove correnti di pensiero contro cui lui voleva polemizzare. Che quello usato da Lenin fosse marxianesimo o epistemologia scientifica è del tutto improbabile. Le politicanterie non si conciliano per nulla con la ricerca scientifica. Lenin stava solo conducendo una lotta di frazione all’interno del bolscevismo: infatti, nel giugno 1909, Alexander Bogdanov (22 agosto [vecchio calendario russo] 1873..7 aprile 1928), un medico dai molteplici interessi, “colpevole” di apertura a correnti empiristiche del tempo (nel 1904-1906, aveva pubblicato i suoi tre volumi di Empiriomonismo), contro cui era stato scritto Materialismo ed Empiriocriticismo, sarà escuso dal CC bolscevico e espulso dalla stessa frazione bolscevica. In realtà faceva ombra a Lenin, cui stava contendendo la direzione delle frazione bolscevica.

La stessa definizione di realtà oggettiva non è risolvibile in formule e dipende dalla strumentazione usata e dalla possibilità d’usarla: affermata l’esistenza d’una realtà oggettiva, non s’è risolto come afferrala e che uso farne. Quanto alla fede, che è quello interessava affermare al Lenin vate della sua Chiesa, essa non necessita di razionalizzazioni. S’esiste, tanto più essa sia potente è certo espressione di forze materiali potenti. Ch’essa sia d’avanguardia, progressista [nel senso di progresso, non di buonismi sinistristi], rivoluzionaria [nel senso di trasformazioni modernizzatrici, non le solite rivoltate che cambiano il colore per riproporre, magari in peggio il solito] non è affatto detto. La fede bolscevica è lì, sotto forma di storia d’idee e d’eventi per chiunque la voglia analizzare in modo materialistico, non col solito idealismo che fa dipendere dalle conclusioni desiderate l’“analisi” svolta.

Nel 1926-27, Gramsci (a Ustica dal 7 dicembre 1926 al 20 gennaio 1927) e Bordiga erano assieme al confino ad Ustica. La solita fonte bordighiana appena citata c’informa d’una conversione di Gramsci:
“L'approccio alla teoria della conoscenza non era un modo per risolvere una discussione occasionale fra due dirigenti di partito, ma uno dei cardini su cui si stava giocando nientemeno che il futuro della rivoluzione e che a Lione aveva solo trovato un’occasione per diventare esplicito. Racconta lo stesso Bordiga:
““Dichiarai che non si è in diritto di dichiararsi marxisti, e nemmeno materialisti storici, solo perché si accettano come bagaglio di partito tesi di dettaglio, riferite vuoi all'azione sindacale, vuoi alla tattica parlamentare, vuoi a questioni di razza, di religione, di cultura; ma si è sotto la stessa bandiera politica solo quando si crede in una stessa concezione dell'Universo, della Storia e del compito dell'Uomo in essa. Sono certo di ben ricordare che Antonio mi rispose dandomi ragione sulla fondamentale conclusione da me così enunciata, ed ammise anzi che aveva allora scorto per la prima volta quella importante verità”.”
[ www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ]
Un Gramsci che, almeno per un momento, sarebbe trasceso dalla politica alla fede totalizzante bordighiana. Tuttavia, mentre Bordiga si dedicherà al suo partito scuola di fede totalizzante in tempi avversi e senza Stati e forze lo sostenessero, Gramsci ritornerà alla finzione di dirigente del PCd’I, pur di fatto espulso e mortalmente combattuto dalla Chiesa moscovita che lo considerava cosa sua da eliminare in modo ben più radicale che una banale detenzione temporanea in Italia.

E meno male che gli stessi ambienti scrivono: “Marx afferma infatti che può essere felice solo chi non inganna sé stesso; chi non assume posizioni basate su verità astratte e staccate dalla realtà; chi non ubbidisce all'attimo fuggente ma ad idee ben radicate. Sarà per contro "annientato" chi, avendo abbracciato idee dimostratesi false alla luce dell'esperienza, non vedrà salvezza che nell'illusione e nell'autoinganno. Tutto ciò è certo detto en passant, senza consapevolezza completa, ma, come vedremo, sarà il motivo dominante del primo capitolo dell'Ideologia tedesca: "Ogni profondo problema filosofico si risolve con la massima semplicità in un fatto empirico". La filosofia, come la religione, non è altro che il rifugio, la via di fuga nell'illusorio, un surrogato ideale della realtà su cui si può opinare.
[ www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ]

Appunto, dopo tante ideologie, che non sono né metodologie scientifiche per dinamiche sociali, né teorie e pratiche rivoluzionarie, basterebbe vedere le cose come sono nella loro materialità. Tolti colori, stendardi, inni, opuscoletti, libri e libroni, qual’è la differenza tra il sistema sovietico, fin dagli inizi, ed il solito servaggio russo, e tra il sistema maocinese ed il solito schiavismo cinese e cinesoide? Le differenze esistono nella accentuazione burocratica, conseguenza della “proletarizzazione” delle burocrazie, non nell’essenza di fondo: ad una differenza di composizione sociale interna d’una casta di regime non corrisponde un’alterazione dei meccanismi di base del sistema stesso. La struttura si dota d’una sovrastruttura e d’una infrastruttura corretta, eventualmente in peggio [dal punto di vista dell’efficienza sistemica]. Eppur Bordiga ed epigoni s’erano trovati una Russia Sovietica mitizzata, eventualmente solo nei suoi inizi, e se l’erano gelosamente conservata nei decenni. In effetti una fede è protetta da qualunque analisi critica. Tutto nella fede. Nulla contro la fede. Il “marxismo” diviene cosa da conclamare, non un metodo materialistico d’analisi di tutto, “marxismo” stesso incluso.


[*] Un po’ più piccolo del PSI alle prime elezioni, ma con ben più soldi e strutture.

[*] Così come, quando i russi erano amici dell’Italia di Mussolini, i togliattiani cooperavano variamente con la polizia “fascista”. “Caso Silone” a parte, troppo complesso per parlarne qui, ed altri episodi d’antifascismo in cui il PCd’I togliattiano era sempre contro gli antifascisti (vedi GL), di certo i togliattiani facevano eco alle calunnie messe in circolazione dal fascismo, o ne erano addirittura il tramite:
http://perso.orange.fr/italian.left/Comunism/Comuni40.htm . I togliattiani, sotto la copertura dei servizi di sicurezza sovietici, giravano l’Europa senza problemi. Ed, in Russia, i servizi sovietici eliminavano senza problemi i comunisti italiani “dissenzienti” [non sufficientemente servili] lì rifugiati. Ai buoni rapporti tra Unione Sovietica ed Italia “fascista” corrispondeva l’impunità di chi Mosca volesse proteggere e la non ingerenza “fascista” in faccende di liquidazioni volute dai sovietici. Vi sono pure storie di “comunisti” fatti cadere, cioé denunciati dai togliattiani alla polizia italiana che li arresta e li ammazza perché non trapeli la fonte della spiata. Di mezzo vi sono sempre togliattiani di grande fedeltà al boss e di sicura carriera. Anche nella liquidazione di Gramsci, lo Stato italiano non si preoccupa di fare serie indagini (uno in discrete condizioni di salute muore dopo due giorni di vomito dopo aver mangiato cibo preparato da un’agente sovietica nota alla polizia italiana, e neppure gli fanno una banale autopsia; anzi danno l’autorizzazione alla cremazione pressantemente richiesta dalla cittadina ed agente sovietica che gli ha preparato la minestirna fatale!). Lo stesso Togliatti era divenuto cittadino sovietico. Devono, poi, aver fatto carte false, per farlo ridivenire italiano, quandi sovietici ed alleati lo mandano in missione in Italia come garante, di parte sovietica, degli accordi spartitori tra Mosca e los ingleses.

[***] Lui che si finge testa collettiva o molteplice: “In questo momento io non lavoro con la mia testa, lavoro con la testa di Marx, con quella degli altri due morti, con tutte le teste di voialtri vivi che state in questa stanza e di tanti altri. Una volta che abbiamo acquisito un indubbio punto di vantaggio – quello di liberarci dal soggetto singolo –, il mondo che osserviamo non è più esterno, ne facciamo parte, è pieno di altri uomini che pensano come noi, è pieno di altre teste in relazione tra loro.” [Amadeo Bordiga, Critica alla filosofia. Escursione con il metodo di Marx intorno alla teoria borghese della conoscenza e alla non-scienza d'oggi, III. DAL MITO ORIGINARIO ALLA SCIENZA UNIFICATA DEL DOMANI,
www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ]

11 October 2006

Lettera da Lhasa numero 33. Il Nord Corea ha missili ed atomiche: ed allora?! alias Geopolitiche ingleses del sottosviluppo altrui

Lettera da Lhasa numero 33.
Il Nord Corea ha missili ed atomiche: ed allora?!
alias
Geopolitiche ingleses del sottosviluppo altrui

by Roberto Scaruffi

Prendendo le cose appena alla lontana, ma velocemente, si comprende più che tanti vani arzigogoli, e pur basati sugli impressionismi del momento, indotti dai media e da chi li concerta.

Los ingleses, già ai tempi dell’Impero e delle colonie disseminate su tutto il mondo, hanno individuato che chi controlla l’Eurasia controlla il mondo. Controllare l’Eurasia vuole innanzitutto dire che l’Eurasia non deve assolutamente controllare se stessa, perché, in tal caso, los ingleses sarebbero battuti nei loro sogni di dominio mondiale.

Perché l’Eurasia è così importante? Si veda la quantità di popolazione, dunque di mercati, la quantità e varietà di materie prime, gli sviluppi e civilizzazioni passati ed, in parte, presenti. L’Eurasia non è certo il mondo, ma è una sua frazione tuttora rilevantissima. Se los ingleses non la controllano, non controllano il mondo.

Per los ingleses, controllare significa subordinazione a loro, in un modo o nell’altro. Per farlo, hanno distrutto antiche civilizzazioni come l’indiana e la cinese, hanno imposto il loro monopolio mondiale delle materie prime, hanno scatenato due guerre cosiddette mondiale, hanno creato una grande area, ora solo sottosviluppata, o comunque a sviluppo non globalmente competitivo (vedi Russie, nonostante l’industrializzazione forzata funzionale al proprio militarismo), ora sottosviluppista, dall’est Europa alle Russie, alle Cine e sobborghi, destinata a fungere da congelatore per una parte maggioritaria dell’Eurasia, così sottratta alle potenze emergenti germanica e giapponese. Si lasci stare tutta la retorica “comunista” e “rivoluzionaria” costruita a Oxbridge per le masse credulone. Si guardi la realtà per quel che è.

Oggi che il congelatore è entrato in crisi col crollo parziale delle Russie e con lo sviluppo delle Indie e delle Cine, los ingleses devono inventarsi qualcosa d’altro per non perdere un controllo vieppiù difficile ed impossibile. Continua il tentativo d’assalto alle Russie oggi circondate da una fascia di basi militari USA che punta allo sfruttamento ed al trasporto del petrolio sotto controllo inglés ed in alternativa a quello sotto il controllo delle Russie. E così via per altre materie prime e mercati non meno importanti del petrolio. Le Cine continuano nella loro tradizione di prostituzione agli anglo-americani, seppur dietro il velo di forsennati nazionalismi paranoico-parolai. Los ingleses si sono ora inventati la guerra totale permanente mascherata da quello che hanno confusamente definito come “terrorismo”. Naturalmente “terrorismo”, “terrorista” o “Stato canaglia” è chiunque loro decidano sia loro nemico. Basta subordinarsi a loro e si diviene invece buoni dall’oggi al domani.

Destino, seppur contrastato, della potenza germanica è la sua compenetrazione e fusione con le Russie, che rappresentano sia mercati e materie prime che intelligenze. Destino del Giappone è insidiare, dominare, compenetrarsi con aree che la Cina, e pure la Russia, considera come sue, ed, eventualmente, conquistare la stessa Cina e le stesse Russie asiatiche.

Come conseguenza della seconda guerra cosiddetta mondiale, voluta ed accuratamente preparata da los ingleses, come la prima, il Giappone ha perso la Manchuria (i territori sopra la Corea, sulla carta geografica), che il Giappone stava industrializzando, Taiwan, che il Giappone aveva sviluppato come sua provincia agricola, e la Corea, brillantemente colonizzata dal Giappone come moderna area industriale ed agricola.

Come prassi inglés ricorrente un po’ dappertutto nel mondo, la Corea, troppo temibile unita, era stata spartita, divisa in due. La Manchuria era ritornata alla sottosviluppata e forsennatamente sottosviluppista Cina maoista [maoista di Mao; la maoista successiva e contemporanea cercherà invece sue vie allo sviluppo seppur combinate con meccanismi arretrato-schiavistici di dominio interno]. Taiwan, tolta al Giappone, era stata usata da los ingleses per scaricarvi il loro Chiang Kai-shek, nell’attesa di rimpiazzarlo nel consesso internazionale col loro Mao. Al più prostituito e sottosviluppista, los ingleses hanno dato la Cina. Il prostituito, ma non sottosviluppista, è stato invece relegato a Taiwan.

Chiang Kai-shek, all’inizio sostenuto da Germania ed Italia, oltre che dell’URSS, con l’attacco ed occupazione giapponese di aree decisive della Cina, era divenuto valletto anglo-americano. E lo era stato, pur contrastato, ma con persistente supporto sovietico, fino alla fine dalla seconda guerra mondiale. USA e GB usavano la Cina non occupata dai giapponesi come loro base aerea e militare, pur guardandosi bene dal formare anche un solo reparto cinonazionalista che potesse sbaragliare i cinomaoisti. Anzi, corrompevano i già corrotti generali di Chiang Kai-shek perché passassero a Mao, o, comunque, perché non lo combattessero.

Infatti, los ingleses, con cooperazione russa, si erano creati il loro Mao che avevano usato per creare uno Stato nello Stato. Uno dei personaggi chiave per l’operazione, e per tanti sviluppi successivi cinesi, fu Kang Sheng, di famiglia di proprietari fondari, divenuto “comunista” ed agente sovietico. Ci si chieda sempre da dove vengono i soldi, ed il sostegno materiale e propagandistico, per “lunghe marce”, “armate rivoluzionarie”, il “Mao Zedong pensiero”, la costruzione mondiale ideologica e pratica del “maoismo”, lo stesso lungo golpe sottosviluppista maoista, la “Rivoluzione Culturale”. Il tutto sotto l’apparente direzione d’un oscuro e disprezzato commesso di bibblioteca emigrato a Pechino, poi ritornato nelle zone natie, che non era neppure nelle grazie moscovite, e che, da governante, viene rinchiuso nel Palazzo Imperiale tra giovanissime schiave sempre disponibili.

La risposta la si trova vedendo come ideologie e personaggi che sembrano, o sempre esistiti, o usciti dal nulla, vengano costruiti a Oxbridge, oltre che, naturalmente, sul campo. Ma i servizi inglesi sono magmatiche mafie che mai appaiono in prima persona: compagnie commerciali, scuole, preti e pastori, criminalità organizzata, agenti d’altri Stati. Eppure operano ed ottimamente. Nelle Cine realizzarono un vero mega prodigio. Se i “tedeschi” bolscevici hanno industrializzato le Russie, salvo entrare in crisi dopo che le Russie, con la seconda guerra mondiale, passano sotto controllo britannico (nel 1941, su orchestazione britannica, era pronta l’occupazione sovietica di tutta l’Europa, prevenuta di una decina di giorni dall’attacco difensivo tedesco), i maoisti cinesi, Mao vivente, hanno solo ulteriormente sottosviluppato una Cina già sottosviluppata. Quando il partito cinese si ribella ad un tale sfascio ed alle carestie che sterminano decine di milioni di contadini, ecco che viene scantenata la “rivoluzione culturale”, il colpo di Stato maoista, che i media ingleses presentano mondialmente come grande prodigio rivoluzionario, che annichila per un altro decennio, ed oltre, la Cina Popolare.

Finita la guerra, los ingleses, usando Mao, erano andati allo sfondamento della Repubblica di Cina di Chiang Kai-shek, che ufficialmente era tra le grandi potenze mondiali, relegandola a Taiwan. Ed avevano pure sfondato la Cina ridotta e grande caserma sottosviluppista dove neppure le carestie facevano più notizia, anzi venivano tenute accuratemente nascoste dagli apparati propagandistici mondiali ingleses. Poi s’erano inventati l’insulsa teoria d’una sola Cina, naturalmente individuata nella Cina Popolare, ed evevano scaricato la Repubblica di Cina per rimpiazzarla, anche ufficialmente, con la Cina Popolare cui dopo erano così state restituite sia Hong Kong che Macao. Unica condizione era il congelamento della divisione “cinese” (è un punto di vista cinese che Taiwan sia cinese, seppur sia stata in parte cinesizzata con l’occupazione cinese dal 1945 e poi con la grande migrazione a seguito della disfatta Repubblica di Cina nel 1949), seppur Taiwan sia il 2% della popolazione cinese e solo il 0.375% come territorio. Tuttavia Taiwan, anche per il precedente influsso giapponese, e poi grazie alla guerra di Corea, ha goduto di una sviluppo moderno ed oggi d’avanguardia in molti settori, mentre la Cina cerca solo ora d’uscire del sottosviluppo seppur, per il momento, a ritmi accelerati.

Appunto, è un classico, per los ingleses, preparsi e dividere per futuro uso. L’uso presente di Taiwan, col nazionalismo maniacale cinese già esaltato con quella dottrina d’una sola Cina, e ulteriormente sospinto ora sull’onda del presente forte sviluppo quantitativo cinese, è di fungere da scusa per un conflitto tra Cina e Giappone che servirebbe a los ingleses per cercare di ridistruggere e ricongelare l’est-Asia. Taiwan tende, e sarebbe la soluzione normale e naturale, all’indipendenza formale, tuttavia forsennatamente osteggiata da los ingleses ed alleati. La Cina vuole invece lo schema Hong Kong: incamerare Taiwan, suppur con qualche apparente garanzia di temporanea autonomia per maoizzarla senza clamori, sebbene Taiwan sia già controllata da Pechino in suoi gangli vitali, anche se si preferisce tacerlo. Se la Cina cercasse d’occupare Taiwan subito dopo le Olimpiadi di Pechino del 2008, per esempio nel 2009, se non già a giochi olimpici del 2008 appena chiusi, qualcosa succederebbe. Lo scontro sarebbe soprattutto col Giappone che è oramai nell’ottica del riamo accelerato, per reazione alla stessa Cina che modernizza le sue FFAA per operazioni offensive, oltre che all’instabilità generale ed all’indebolimento de los ingleses, che rende inevitabile che una grande potenza come è il Giappone debba poter difendersi da sola, rinunciando alle comode ipocrisie derivate dalla sconfitta bellica.

Per cui si prospetta una guerra cino-giapponese prima della fine del decennio. La storia, quando non la si lascia lavorare fino in fondo, ritorna. Cina e Giappone non possono coesistere da eguali, anche perché il Giappone è una grande potenza economica, mentre la Cina nazicomunista è grossa solo come popolazione, nonostante lo sviluppo accelerato in corso, ed ha al suo interno forti spinte centrifughe essendo troppo grossa per essere davvero un singolo Stato gestibile centralmente secondo criteri statuali tradizionali. Infatti, le singole province della Cina popolare sono già di fatto singoli Stati che applicano le leggi come vogliono localmente. Di fatto, s’inventano loro la legge, seppur nell’ambito d’orientamenti generali. Il Giappone è invece troppo piccolo per la sua numerosa popolazione (130 milioni) e per la sua potenza economica, per cui necessita d’espandersi tutt’attorno, ed ha già mostrato di disporre di un eccellente modello di colonizzazione fortemente modernizzatore delle aree occupate. Corea, Manchuria, Taiwan sono davvero naturalmente giapponesi. La stessa Cina, probabilmente, soprattutto quando l’ordine interno nazicomunista-paraschiavistico oppure interventi sovversivi ingleses [uno schema di sovversione poliziesco giudiziaria all’italica farebbe esplodere la Cina Popolare, ben meno resiliente dello spazio italico] soffocheranno lo sviluppo accelerato presente.

Non solo la Cina di Mao. Neppure la Corea nasce dal nulla. Neppure il suo “leggendario” leader, il cui figlio ora detiene i gangli centrali del potere, è magicamente apparso né s’è per magia imposto. Sono in realtà esistiti due Kim Il Sung. Il vero Kim Il Sung era un leggendario resistente e combattente anti-giapponese [1]. Il finto Kim Il Sung è quello creato dai sovietici [2], che individuarono e costruirono l’ufficiale del loro esercito Kim Sŏng-ju come loro leader per la Corea. Nato nel 1912 in Corea, la famiglia di Kim Sŏng-ju, come molte altre, si trasferì in Manchuria nel 1920 per sfuggire alla carestia. Qui apprese il cinese e si avvicinò al cino-comunismo. Durante la seconda guerra mondiale, Kim Sŏng-ju fu addestrato dai sovietici e divenne ufficiale dell’Armata Rossa fino alla fine della guerra. Tornò in Corea nel settembre 1945 con le forze d’occupazione sovietiche. La Corea era stata divisa tra sovietici e statunitensi. Kim Sŏng-ju scelto e posto dai sovietici a capo della parte sovietica come fantoccio sovietico.

Con aiuto sovietico, Kim Sŏng-ju costruì rapidamente forze armate coreane sul modello delle sovietiche con armamento pesante, aviazione, e ben addestrate ad ogni forma di guerra e guerriglia. Invece, nelle parte americana della Corea non ci si preoccupò per nulla di creare delle vere forze armate. In fondo, al blocco industriale militare statunitense occorreva una guerra in Corea.

Del resto, la modernizzazione giapponese della Corea aveva concentrato l’industria pesante al Nord. Il Nord era la parte più promettente, che gli USA, e los ingleses in generale, si proponevano di neutralizzare relegandola nel campo sovietico.

Dopo che la Corea di Kim Sŏng-ju ebbe un ruolo decisivo nella sconfitta, voluta da los ingleses, del Kuomintang e nella conseguente vittoria della Cina di Mao, il 25 giugno 1950 essa attaccò la Corea del Sud per occuparla, ed infatti ne occupò gran parte. La controffensiva statunitense, che riprese il Sud ed occupò parte del Nord, Pyŏngyang inclusa (il 19 ottobre 1950), obbligò il governo nord-coreano a rifugiarsi in Cina. Solo il 15 ottobre vi fu l’intervento cinese, che permise di riconquistare sia Pyŏngyang, in dicembre, che Seul, nel gennaio successivo. L’attuale frontiera tra Nord e Sud è la linea dell’armistizio del 27 luglio 1953.

Il regime nord-coreano è chiaramente centrato sulle forze armate e sul relativo blocco industriale militare. Sulla base della Costituzione del 1972, Kim Sŏng-ju alias Kim Il Sung divenne Presidente, posizione formale soppressa dopo la sua morte. Destinato a succedergli fu il figlio Kim Jong-il (nato nel 1941), configurando così un vertice con capo di fatto ereditario. Nessuno può sapere se questo aspetto si consoliderà. Non è comunque molto rilevante, il capo supremo essendo evidentemente funzionale a tutto il blocco d’interessi che ad esso ruota attorno e di cui esso dev’essere espressione.

È stravagante, e consono al solito metodo inglés della calunnia del nemico, definire tale regime come “una dittatura”. Le dittature (come vengono correntemente intese) non possono esistere, per il semplice motivo che nessun “dittatore” può poi davvero contollare l’esecuzione degli ordini, né impedire che i sottoposti si ribellino e lo liquidino. Sono, al contrario i blocchi d’interesse, che permettono ai regimi di durare. Tutti i regimi a democrazia popolare sono ben peggio di “dittature”, sono democrazie dei maniaci, dove ognuno cerca di conformarsi a ciò che pensa gli altri vogliano si conformi. Comitati democratico-maniacali governano tutto, dall’edificio dove s’abita, alla fabbrica, all’ufficio, a tutti gli aspetti della vita. Ognuno s’opprime ed opprime il prossimo, per la comune infelicità eppur felice della schiavitù e tormento comune. Il super-sfruttamento dei contadini, con fenomeni di loro misere condizioni di vita ed, eventualmente, di carestie, non è davvero raro in Asia, né storicamente altrove. Semmai, la sua persistenza indica una debolezza interna d’un regime che, pur capace di mantenere un vasto apparato industriale e militare, non è capace di far fare un salto decisivo all’agricoltura con la sua industrializzazione. Dovrebbe infatti permettere il libero proliferare dell’industria leggera che creerebbe una società che l’arretrato modello di dominio interno teme di non sapere come controllare.

È questo un chiaro blocco nello sviluppo economico-sociale. Senza rivoluzione agricola, che aumenti in modo decisivo la produttività del lavoro del settore, nessun paese, o Stato, od area, non può divernire compiutamente industriale e postindustriale concorrenziale. Non solo le campagne non riescono a produrre a sufficienza per tutta la popolazione. Assorbendo le campagne troppa manodopera, questa situazione neppure permette di liberare forza-lavoro per altri salti in avanti verso l’ulteriore industrializzazione e verso la terziarizzazione dell’economia. Per tali sviluppi, occorrerebbe comunque un’economia concorrenziale e che permettesse lo sviluppo autonomo di settori diversi dalla sola industria pesante statale. Ideale, ma troppo temibile sia per los ingleses che per le burocrazie consolidatesi, sarebbe una rapida integrazione del Nord militare col Sud altamente industrializzato e moderno. Per quanto, anche le fusioni di Stati non siano esenti da problemi rilevanti, come l’esperienza tedesca dimostra.

È su questa incapacità di sviluppo organico e concorrenzionale che è crollata la semiasiatica URSS, essa stessa centrata sull’industria pesante militare ed incapace di una liberalizzazione economico-sociale che permettesse il libero proliferare di un’industria leggera senza cui, tra l’altro, neppure c’è rivoluzione agricola. Tuttavia, nelle aree cinesi e cinesoidi esiste una lunga tradizione di schiavismo di fatto. Lo schiavo dell’Asia dell’Est si ribella solo se si sente sottomesso a forze più forti di quelle contro cui si ribella. Altrimenti, è uno schiavo contento di essere schiavo. Eventualmente infelice e misero, ma felice della schiavitù millenaria che è parte insopprimibile del suo ordine naturale. Semmai, fugge altrove, se riesce. Oggi i contadini coreani delle aree più povere fuggono in Cina, se possono. Fuggono per fame. Non è vero che lo schiavo est-asiatico voglia “la libertà”. Neppure altrove, “la libertà” ha grande valore per la media degli individui. Servi si sentono ben più felici.

I commerci e scambi tra Stati ed aree sono la chiave dello sviluppo reciproco. Barriere ed embarghi formali e di fatto, sono invece ottimi se si vuole tenere un’area in una qualche arretratezza. A los ingleses fa paura una Corea unica. Sarebbe troppo grande, popolata e potente. Preferiscono inventarsi crisi che non esistono, per tenere divisa la Corea e relativamente arretrato ed isolato il Nord Corea, che pur sfugge loro di mano. Le tecnologie missilissiche e nucleari, lungi dall’essere uno spreco, sono tecnologie internazionalmente vendibili, oltre ad effetti di ricaduta e diffusivi interni che possono avere.

La geopolitica inglés è una geopolitica dello sviluppo compradoro (rispetto a loro) oppure del sottosviluppo. È il loro modello di dominio. In effetti, l’Impero Romano, come altri, è crollato proprio perché la sua multinazionalizzazione l’aveva deromanizzato. L’impero inglés vuole restare rigidamente inglés, preservare la centralità etnica inglés, schiavizzando gli altri, o riducendoli al sottosviluppo se la schiavizzazione si riveli impraticabile.

Poi, nella realtà, le cose non vanno mai secondo le intenzioni. Tuttavia, l’ispirazione e l’aspirazione inglés è questa. Non che sia diversa da altre. Lo stesso cinese, pur credendo solo in sé contro tutti, se deve credere, o fingere di credere, in qualcosa di superiore, crede alla razza cinese (in realtà non esiste una razza cinese, ma i 90% dei cinopopolari sono di “razza” han) superiore a tutte le altre che vede solo come un ammasso disprezzabile anche se talvolta composto temporaneamente da razze momentaneamente più sviluppate. Anche per il cinese, o lo straniero diviene loro servo o va distrutto. Una cooperazione in qualche modo paritaria, provoca nel cinese un insuperabile disgusto. Sordo rancore quando sono obbligati a farsi aiutare. Oppressione e distruzione dell’altro quando esso venga da loro sottomesso. S’è ben lungi dal cosmopolitismo cattolico o da quello islamico, in cui la razza diviene secondaria o irrilevante rispetto alla fede, anche solo dichiarata.

Che grandi aree come la persiana o la coreana accedano allo sviluppo tecnologico d’avanguardia, anche in modo del tutto parziale, suscita ne los ingleses, come nei cinesi ed in altri, una avversione totale. Allora, la solita geopolitica del sottosviluppo altrui, diviene politica della distruzione altrui, seppur tenendo realisticamente o codardamente conto di chi si ha di fronte. Ad alcuni, gli esperiementi missilistici e nucleari sono permessi. Evidentemente si conta di controllarli ed, eventualmente, distruggerli in altro modo. Per altri non sono consentiti. Anche se poi non sempre si sa o si può davvero distruggerli.

Nel caso dei test sia missilistici che nucleari coreani c’è un timore supplementare, sia da parte de los ingleses, che dei cinesi, che dei russi. Che il Giappone gonfi gli eventi come scusa per un suo rapido riarmo pure nucleare. È proprio quello il Giappone che sta facendo. Se le Cine continuano ed essere in vario modo sotto controllo inglés e facilmente distruggibili, il Giappone, invece, se riprende la via dell’espansione economico-militare asiatica e della colonizzazione, può davvero soppiantare los ingleses in tutta l’Asia in un periodo non lungo. È quello che cercherà di fare, sfuttando le numerose crisi che si profilano all’orizzonte e che gli stessi ingleses, col loro miope modello di dominio, hanno creato e creano.

Tra l’altro, pur sconfitti, ma solo militarmente, nell’ultima guerra mondiale ormai distantissima, sia i giapponesi che i tedeschi hanno mostrato d’avere un modello di dominio ben più stabile e solido di quello inglés. Il modello di dominio giapponese, come quello germanico, è cooperativo e fondato su una lenta espansione-replicazione della propria struttura economica che incorpora e viene incorporata dalle aree su cui s’espande.

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[1] http://www.gwu.edu/~nsarchiv/coldwar/interviews/episode-5/hong1.html
[2] http://vn.vladnews.ru/Arch/2003/ISS345/News/upd10.HTM