Letter from Lhasa, number 303. Scrivere i propri traumi fa bene. E non è
che l’inizio
by Roberto Abraham Scaruffi
Lo Iacono, G., Lo studio sperimentale della scrittura
autobiografica: la prospettiva di James Pennebaker, http://goo.gl/xlfuz
Gabriele Lo
Iacono
L’autore racconta
di studi quantitativo-sperimentali di Pennebaker.
James Pennebaker
“ha analizzato i benefici quantificabili
derivanti dalla stesura di testi autobiografici centrati su esperienze
stressanti.”
“Il fatto di scrivere dei pensieri e dei
sentimenti più profondi relativi ai propri traumi aveva indotto un
miglioramento dell’umore, un atteggiamento più positivo e una salute fisica
migliore.”
Dapprima si ha un
più intenso turbamento, poi seguito da un netto miglioramento delle condizioni
generali del soggetto. Scrivere di esperienze negative, o di esperienze in
genere, ristruttura il pensiero ed apre alla comprensione. Sebbene non sia
probabilmente la comprensione il meccanismo chiave del tutto.
Si può chiedere
al soggetto, genericamente, di scrivere di propri traumi, come si può
proficuamente indurlo a focalizzarsi su eventi specifici come un cambiamento
esistenziale o stanziale, per esempio un licenziamento, una sofferta rottura
sentimentale o qualunque altra cosa.
Si può egualmente
far scrivere e scrivere di traumi immaginari, di situazioni immaginarie. A
questo punto siamo oltre il trauma. Ci si colloca a livello esperienziale.
Esperienze vengono vissute scrivendole, dunque pensandole, in prima persona. Se
ne hanno gli stessi, può essere anche maggiori, benefici che restando sul reale
già vissuto.
Non credo sia
tanto l’esplorazione delle proprie emozioni e pensieri quanto dirigersi verso
nuove frontiere esistenziali, per quanto i due aspetti non siano disconnessi.
Vediamo meglio.
Che cosa succede
davvero?
Esiste una
tecnica che consiste nel ripetersi, estremizzando, peggiorando all’estremo,
qualcosa che si teme e con cui si vuole fare i conti. Fatto questo, il tutto
appare molto meno drammatico di come appariva anteriormente. Se si può
fronteggiare il peggio estremo, il male assoluto, anche il peggio con cui si ha
a che fare riduce la sua negatività.
Scrivere traumi o
cose sgradevoli è una maniera di fronteggiarli. Si rivive il proprio timore.
Più lo si fa, con ripetizioni ed estremizzazioni, più lo si relativizza. Per
quanto qualcosa possa essere terribile, diventa meno opprimente. Diventata
maneggiabile può eventualmente aprirsi la via ad una qualche soluzione o,
comunque, a renderla meno devastante. Non tutto è risolvibile. Ma si può sempre
cercare di minimizzare il danno, almeno per quanto dipenda da noi.
Esiste un altro
livello di cui non si parla in questo articolo, o magari il riferimento è solo
indiretto. La scrittura può divenire un valido sostituto di esperienze. Una
persona, la sua psicologia, è le sue esperienze. In fondo, le stesse differenze
tra persone, le differenze di percezione dunque di comprensione e
comunicazione, sono differenze esperienziali. Due persone con esperienze
differenti non possono realmente comunicare. Fingono di farlo. Comunicano
realmente solo due persone cresciute nelle identiche banalità o situazioni, e
con la stessa percezione di ciò hanno vissuto.
Ci sono mille
cose e luoghi che, per la ragioni più diverse, non avremo mai l’occasione di
vivere, di sperimentare, di farne l’esperienza. Con la scrittura si può. Chi
scrive si fa protagonista e parla di quello che sta facendo od ha fatto. Ha il
pieno comando della propria vita. Può lanciarsi nelle imprese più rischiose,
senza gli inconvenienti della realtà vera. Può commettere crimini o nobiltà, od
entrambi mescolati (i due aspetti non sono necessariamente contraddittori,
essendo i primi una questione di leggi e dipendendo le seconde dai propri
valori). Quanto più intenso e realistico è ciò che si vive scrivendolo, e con
piena partecipazione, percependo intensamente le emozioni con una totale
immedesimazione, tanto più esso entra nel patrimonio esperienziale dell’autore
cambiandone la personalità secondo il vissuto, vissuto letterario e psicologico
allo stesso tempo.
Se la vita
quotidiana è nettamente differente, probabilmente il soggetto necessita di
continui rinforzi, perché queste esperienze-testi non si allontanino nel tempo.
Anche uno sia stato in guerra e poi faccia il tranquillo impiegato, combinerà
le sue esperienze eventualmente straordinarie del passato con l’ordinarietà del
presente, per quanto sarà egualmente per sempre differente da chi quelle
esperienze passate non le abbia avute/vissute. Rinforzi ed integrazioni
necessariamente aggiornano e sviluppano quel vissuto passato (sia esso reale o
ci si sia creato con la scrittura), cosa che si può fare letterariamente se si
vive in prima persona quello che si narra quando lo si narra. Ci si deve ben immedesimare
totalmente, come in trance, per affrontare/scrivere come protagonisti una
storia di qualunque genere. Si può fare tutto, davvero tutto, nella narrazione,
come se fosse vero, magari pure meglio che se fosse vero.
Pericoli di
schizofrenia?! Sono molte le persone che si creano mille schizofrenie
quotidiane per meglio affrontare, credono, in realtà per evadere, le miserie
della vita. Essendo la scrittura prospettata vissuta intensamente in prima
persona, come protagonisti, una possibile tecnica per plasmare la propria
personalità, anzi essa può servire a costruire un vissuto che eviti qualunque
forma di schizofrenia. Nel momento in cui viviamo esperienze con totale
coinvolgimento, come in auto-ipnosi, non ci immaginiamo personalità parallele,
bensì sviluppiamo in qualche direzione voluta la nostra personalità.
Ecco che la
scrittura, con totale coinvolgimento, diviene ben più che una semplice terapia.
Non è il meccanismo dello spettatore o del lettore che si immedesima, si
identifica, nel personaggio del film o della narrazione. Lì è solo un
meccanismo di simpatia, un voler essere o voler credersi. Qui, nella scrittura,
siamo noi, protagonisti che stanno agendo.
Lo Iacono, G., Lo studio sperimentale della scrittura
autobiografica: la prospettiva di James Pennebaker, http://goo.gl/xlfuz