Lettera da Lhasa numero 72. L’investimento estero diretto in Cina
by Roberto Scaruffi
Whalley, J. and Xian Xin, China’s FDI and non-FDI economies and the sustainability of future high Chinese growth, Working Paper 12249, NBER, Cambridge, MA, USA, May 2006,
http://www.nber.org/papers/w12249
(Whalley, May 2006).
John Whalley
Xian Xin
La ricerca (Whalley, May 2006) valuta il contributo degli investimenti stranieri diretti (FDI, Foreign Direct Investment) alla crescita cinese. Le imprese ad investimento estero (FIEs, Foreign Invested Enterprises) contribuiscono per più del 50% alle esportazioni cinesi e per un 60% alle sue importazioni. Nei due anni precedenti la ricerca, esse costituivano più del 20% del PIL (GDP) cinese pur impiegando solo il 3% della forza lavoro. Le FIEs hanno contribuito al 40% della crescita dell’economia cinese nel 2003 e 2004.
Si tralascino pure le considerazioni, del resto non essenziali nella ricerca, sulla sostenibilità dello sviluppo cinese, che è attorno al 10%. Esiste una legge generale che un’economia, maturando, abbia una crescita decrescente. Tuttavia non non esiste nessun limite alla sostenibilità dello sviluppo sostenuto, soprattutto quando si era e si è nelle condizioni della Cina e Stati limitrofi, dove tutto necessita di essere costruito spesso ex-novo. Inoltre, col trasferimento in Cina di produzioni prima effettuate altrove, il limite dello sviluppo è, per ciò che riguarda il contributo esterno, la convenienza. Infatti, ora ci sono produzioni, ma certo esistono dei costi di aggiustamento (dunque non c’è una astratta convenienza al di fuori di essi, nella contabilità costi-benefici), che si trasferiscono in Vietnam, per esempio. Per cui, un’economia può pure svilupparsi al 300% l’anno e ciò può essere sostenibile, sostenibilissimo. Del resto, in aree non sviluppate, le percentuali dipendono dall’impatto contabile di nuovi produzioni su valori preesistenti, in genere contenuti. Certo, quando, in Cina, il settore delle costruzioni avrà raggiunto un qualche livello di saturazione, o la produzione si indirizzerà in misura maggiore verso altri settori o sbocchi, oppure si avrà un inevitabile declino dei tassi d’incremento del PIL. Per quanto esista, in Cina, un vasto mercato potenziale di necessità d’ogni genere d’alta, media e bassa tecnologia, inclusi beni di consumo ed immobili nelle campagne e, specificamente, per gli ora contadini che sono un 45% della forza lavoro e parte ben maggiore come popolazione classificata come “delle campagne”. Ci sarebbe anche la necessità di modernizzare l’agricolutura che è sempre restata arretrata, in Cina. Per quanto non esista nulla di deterministico né predeterminabile sulle direzioni che potrà prendere lo sviluppo cinese, od una nuova ondata di sottosviluppo cinese.
Quando gli USA vollero cercare di stroncare le esportazioni giapponesi, imposero continue rivalutazioni valutarie dello yen, che non bloccarano le esportazioni e facilitarono l’esportazione dei capitalin giapponesi negli USA e nel mondo. Dipende da cosa si esporta e da altri fattori. La Cina non è comunque il Giappone, né il suo tipo di sviluppo è paragonabile a quello giapponese. Il Giappone passò attraverso una profonda, seppur rapidissima, modernizzazione interna a tutti i livelli. In Cina, si ha solo modernizzazione di strutture produttive. Non è la stessa cosa. Modernizzare lo Stato, cosa che in Cina non sta avvenendo, non è neppure questione di “democratizzazione” che, di per sé, non risolverebbe alcun problema di modernizzazione dello Stato, neppure in Cina. Anzi, senza un qualche guscio adeguato potrebbe perfino peggiorare le condizioni generali dello Stato cinese che è già controllato da una vera e propria democrazia di massa dei corrotti e dei maniaci (stile terroristico-giacobino) organizzati dal PCC e che impedisce la modernizzazione dello Stato.
Forme di integrazione della Cina nel mercato mondiale hanno accresciuto il suo sviluppo, proprio perché le necessità di produrre, e gli sbocchi della produzione, restano grandi. Del resto, l’“integrazione” della Cina è stata perseguita dalla potenze mondiali proprio perché area utile da sfruttarsi. Così come per la Cina è utile sfruttare l’opportunità d’essere sfruttata per costruirsi strutture e capacità.
“Before China’s accession to WTO, less than 60% of inward FDI went to the manufacturing sector. But after China joined the WTO, more inward FDI went to the manufacturing sector and its share reached over 70% as the share of FDI going to the real estate sector decreased sharply. In agriculture, before China joined the WTO, only 1% of accumulated FDI went to this sector, but in recent years the agricultural share of new FDI increased to 2%.”
(Whalley, May 2006).
Gli investimenti diretti esteri in Cina sono in settori ad alta tecnologia, ciò che è ulteriormente vantaggoso per la RPC.
“Not surprisingly, labor productivity in FIEs is significantly higher than that of the non-FIEs since only 3% of labor produces 22% of China’s GDP and over 55% of China’s exports in 2004. The remaining 97% of China’s labor force produces 78% of GDP.”
In pratica, in un sistema che resta largamente burocratizzato (nel senso di burocratizzato corrotto, ridondande, inefficiente e costosissimo), gli investimenti diretti esteri permettono al sistema burocratico d’avere più mezzi per perpetuarsi. Sempre difficile fare i conti “se”. Tuttavia, senza quel contributo estero, almeno un 20% di PIL e più delle metà delle esportazioni mancherebbe. Forse, anche molto di più, se il contesto fosse di permanenza della chiusura maoista classica o d’una apertura unilaterale non sfruttata delle maggiori economie del mondo. Al contrario, lo “sfruttamento estero”, con investimenti diretti in Cina, permette o può permettere effetti diffusivi degli stessi. Anche le imprese estere domani chiudessero resterebbero le professionalità da esse create, oltre al reddito creato nel frattempo, sebbene tali vantaggi potenziali potrebbero restare inutilizzati. Non v’è mai nulla d’assolutamente meccanico in ciò che può succedere. Oggi, gli effetti positivi ci sono: “A majority of the literature supports the position that inward FDI has played an important role in both China’s economy and its fast growth [...].”
Nella ricerca si troverà la struttura del FDI e la sua evoluzione. Si noterà come esso si concentri sempre più nel settore manifatturiero.
Si troveranno pure i test econometrici degli autori: “These data indicate that while FIEs produce one fifth of China’s total GDP, the FIE subpart of the Chinese economy grew three times faster than the non-FIE portion between 1995 and 2004, considerably faster than China’s economy as a whole. In the last two years (2003 and 2004), over 40% of China’s growth comes from FIEs and in the last decade (from 1995 to 2004), over 30% of China’s economic growth.”
Whalley, J. and Xian Xin, China’s FDI and non-FDI economies and the sustainability of future high Chinese growth, Working Paper 12249, NBER, Cambridge, MA, USA, May 2006,
http://www.nber.org/papers/w12249
(Whalley, May 2006).
by Roberto Scaruffi
Whalley, J. and Xian Xin, China’s FDI and non-FDI economies and the sustainability of future high Chinese growth, Working Paper 12249, NBER, Cambridge, MA, USA, May 2006,
http://www.nber.org/papers/w12249
(Whalley, May 2006).
John Whalley
Xian Xin
La ricerca (Whalley, May 2006) valuta il contributo degli investimenti stranieri diretti (FDI, Foreign Direct Investment) alla crescita cinese. Le imprese ad investimento estero (FIEs, Foreign Invested Enterprises) contribuiscono per più del 50% alle esportazioni cinesi e per un 60% alle sue importazioni. Nei due anni precedenti la ricerca, esse costituivano più del 20% del PIL (GDP) cinese pur impiegando solo il 3% della forza lavoro. Le FIEs hanno contribuito al 40% della crescita dell’economia cinese nel 2003 e 2004.
Si tralascino pure le considerazioni, del resto non essenziali nella ricerca, sulla sostenibilità dello sviluppo cinese, che è attorno al 10%. Esiste una legge generale che un’economia, maturando, abbia una crescita decrescente. Tuttavia non non esiste nessun limite alla sostenibilità dello sviluppo sostenuto, soprattutto quando si era e si è nelle condizioni della Cina e Stati limitrofi, dove tutto necessita di essere costruito spesso ex-novo. Inoltre, col trasferimento in Cina di produzioni prima effettuate altrove, il limite dello sviluppo è, per ciò che riguarda il contributo esterno, la convenienza. Infatti, ora ci sono produzioni, ma certo esistono dei costi di aggiustamento (dunque non c’è una astratta convenienza al di fuori di essi, nella contabilità costi-benefici), che si trasferiscono in Vietnam, per esempio. Per cui, un’economia può pure svilupparsi al 300% l’anno e ciò può essere sostenibile, sostenibilissimo. Del resto, in aree non sviluppate, le percentuali dipendono dall’impatto contabile di nuovi produzioni su valori preesistenti, in genere contenuti. Certo, quando, in Cina, il settore delle costruzioni avrà raggiunto un qualche livello di saturazione, o la produzione si indirizzerà in misura maggiore verso altri settori o sbocchi, oppure si avrà un inevitabile declino dei tassi d’incremento del PIL. Per quanto esista, in Cina, un vasto mercato potenziale di necessità d’ogni genere d’alta, media e bassa tecnologia, inclusi beni di consumo ed immobili nelle campagne e, specificamente, per gli ora contadini che sono un 45% della forza lavoro e parte ben maggiore come popolazione classificata come “delle campagne”. Ci sarebbe anche la necessità di modernizzare l’agricolutura che è sempre restata arretrata, in Cina. Per quanto non esista nulla di deterministico né predeterminabile sulle direzioni che potrà prendere lo sviluppo cinese, od una nuova ondata di sottosviluppo cinese.
Quando gli USA vollero cercare di stroncare le esportazioni giapponesi, imposero continue rivalutazioni valutarie dello yen, che non bloccarano le esportazioni e facilitarono l’esportazione dei capitalin giapponesi negli USA e nel mondo. Dipende da cosa si esporta e da altri fattori. La Cina non è comunque il Giappone, né il suo tipo di sviluppo è paragonabile a quello giapponese. Il Giappone passò attraverso una profonda, seppur rapidissima, modernizzazione interna a tutti i livelli. In Cina, si ha solo modernizzazione di strutture produttive. Non è la stessa cosa. Modernizzare lo Stato, cosa che in Cina non sta avvenendo, non è neppure questione di “democratizzazione” che, di per sé, non risolverebbe alcun problema di modernizzazione dello Stato, neppure in Cina. Anzi, senza un qualche guscio adeguato potrebbe perfino peggiorare le condizioni generali dello Stato cinese che è già controllato da una vera e propria democrazia di massa dei corrotti e dei maniaci (stile terroristico-giacobino) organizzati dal PCC e che impedisce la modernizzazione dello Stato.
Forme di integrazione della Cina nel mercato mondiale hanno accresciuto il suo sviluppo, proprio perché le necessità di produrre, e gli sbocchi della produzione, restano grandi. Del resto, l’“integrazione” della Cina è stata perseguita dalla potenze mondiali proprio perché area utile da sfruttarsi. Così come per la Cina è utile sfruttare l’opportunità d’essere sfruttata per costruirsi strutture e capacità.
“Before China’s accession to WTO, less than 60% of inward FDI went to the manufacturing sector. But after China joined the WTO, more inward FDI went to the manufacturing sector and its share reached over 70% as the share of FDI going to the real estate sector decreased sharply. In agriculture, before China joined the WTO, only 1% of accumulated FDI went to this sector, but in recent years the agricultural share of new FDI increased to 2%.”
(Whalley, May 2006).
Gli investimenti diretti esteri in Cina sono in settori ad alta tecnologia, ciò che è ulteriormente vantaggoso per la RPC.
“Not surprisingly, labor productivity in FIEs is significantly higher than that of the non-FIEs since only 3% of labor produces 22% of China’s GDP and over 55% of China’s exports in 2004. The remaining 97% of China’s labor force produces 78% of GDP.”
In pratica, in un sistema che resta largamente burocratizzato (nel senso di burocratizzato corrotto, ridondande, inefficiente e costosissimo), gli investimenti diretti esteri permettono al sistema burocratico d’avere più mezzi per perpetuarsi. Sempre difficile fare i conti “se”. Tuttavia, senza quel contributo estero, almeno un 20% di PIL e più delle metà delle esportazioni mancherebbe. Forse, anche molto di più, se il contesto fosse di permanenza della chiusura maoista classica o d’una apertura unilaterale non sfruttata delle maggiori economie del mondo. Al contrario, lo “sfruttamento estero”, con investimenti diretti in Cina, permette o può permettere effetti diffusivi degli stessi. Anche le imprese estere domani chiudessero resterebbero le professionalità da esse create, oltre al reddito creato nel frattempo, sebbene tali vantaggi potenziali potrebbero restare inutilizzati. Non v’è mai nulla d’assolutamente meccanico in ciò che può succedere. Oggi, gli effetti positivi ci sono: “A majority of the literature supports the position that inward FDI has played an important role in both China’s economy and its fast growth [...].”
Nella ricerca si troverà la struttura del FDI e la sua evoluzione. Si noterà come esso si concentri sempre più nel settore manifatturiero.
Si troveranno pure i test econometrici degli autori: “These data indicate that while FIEs produce one fifth of China’s total GDP, the FIE subpart of the Chinese economy grew three times faster than the non-FIE portion between 1995 and 2004, considerably faster than China’s economy as a whole. In the last two years (2003 and 2004), over 40% of China’s growth comes from FIEs and in the last decade (from 1995 to 2004), over 30% of China’s economic growth.”
Whalley, J. and Xian Xin, China’s FDI and non-FDI economies and the sustainability of future high Chinese growth, Working Paper 12249, NBER, Cambridge, MA, USA, May 2006,
http://www.nber.org/papers/w12249
(Whalley, May 2006).