05 November 2007

Lettera da Lhasa numero 89. Counterinsurgency, delle FFAA degli USA

Lettera da Lhasa numero 89. Counterinsurgency, delle FFAA degli USA
by Roberto Scaruffi

COUNTERINSURGENCY, Field Manual No. 3-24, Headquarters Department of the Army, Washington, DC, Marine Corps Warfighting Publication, No. 3-33.5, Headquarters Marine Corps Combat Development Command, Department of the Navy Headquarters, United States Marine Corps, Washington, DC, USA, 15 December 2006,
http://usacac.army.mil/cac/repository/materials/coin-fm3-24.pdf
(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006).


(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) è un manuale di un 280 pagine, delle FFAA gli USA, dedicato alla repressione delle guerra partigiana. La si chiami, se si crede, lotta contro o azione di repressione della guerra sovversiva o della guerra rivoluzionaria o del terrorismo (con caratteristiche non occasionali), o antiguerriglia. Guerra partigiana è un concetto classico, senza specifiche connotazioni politiche. Partigiano, come aggettivo, pure come sostantivo, deriva da parte, o partito ma sempre nel senso di parte. Per cui, può essere un partito più o meno politico, come una parte etnica o nazionale, od una parte di varie in conflitto. In genere, partigiano, nel senso di combattente, è usato col significato di irregolare dunque, inevitabilmente, con l’uso di mezzi di combattimento irregolari, eventualmente in parte artigianali, per quanto in guerra non vi sia mai un confine netto. Ognuno usa quel che ha o che trova, o che viene fornito. Nessuna guerra partigiana è autarchica (senz’aiuti esterni e, eventualmente, col nemico come unica o prevalente fonte di rifornimento di armamenti, oppure con industrie militari “partigiane”, ma occorrerebbero territori “liberati”), salvo che l’avversario non sia particolarmente debole. Si dovrebbe avere un caso di Stato collassato, ma allora non si avrebbe guerra partigiana autarchica bensi uno scontro tra guerre partigiane, dunque una guerra civile o lo scontro tra differenti eserciti rivoluzionari. Nel volume, ed in genere nell’asettico ma non meno ideologico linguaggio anglofono, si preferisce chiamare “insurrezione” la guerra partigiana e contro-insurrezione la sua repressione. L’acronimo o l’abbreviazione di counterinsurgency, contro/anti-insurrezione, è qui COIN.

Ecco i primi due paragrafi del volume, nella nota introduttiva:
“This manual is designed to fill a doctrinal gap. It has been 20 years since the Army published a field manual devoted exclusively to counterinsurgency operations. For the Marine Corps it has been 25 years. With our Soldiers and Marines fighting insurgents in Afghanistan and Iraq, it is essential that we give them a manual that provides principles and guidelines for counterinsurgency operations. Such guidance must be grounded in historical studies. However, it also must be informed by contemporary experiences.
“This manual takes a general approach to counterinsurgency operations. The Army and Marine Corps recognize that every insurgency is contextual and presents its own set of challenges. You cannot fight former Saddamists and Islamic extremists the same way you would have fought the Viet Cong, Moros, or Tupamaros; the application of principles and fundamentals to deal with each varies considerably. Nonetheless, all insurgencies, even today’s highly adaptable strains, remain wars amongst the people. They use variations of standard themes and adhere to elements of a recognizable revolutionary campaign plan. This manual therefore addresses the common characteristics of insurgencies. It strives to provide those conducting counterinsurgency campaigns with a solid foundation for understanding and addressing specific insurgencies.”

La breve nota introduttiva (che precede tutto: l’indice, la prefazione e poi l’introduzione) continua con la sottolineazione della necessità di essere pronti a tutte le situazioni e ricordando che i militari devono essere pronti a ricostruire Stati sia nelle strutture di sicurezza che materiali, e capaci di funzionare secondo criteri di legalità. L’introduzione è a firma di David H. Petraeus e di James F. Amos.

Il testo è ben scritto e completo. Vi si trova tutto. Essendo un volume generale, non si consideri questo “tutto” come una critica.

L’oggetto del contendere di una “insurrezione” e di chi l’oppone è il potere, il potere Statuale:
“1-3. Political power is the central issue in insurgencies and counterinsurgencies; each side aims to get the people to accept its governance or authority as legitimate. Insurgents use all available tools—political (including diplomatic), informational (including appeals to religious, ethnic, or ideological beliefs), military, and economic—to overthrow the existing authority. This authority may be an established government or an interim governing body. Counterinsurgents, in turn, use all instruments of national power to sustain the established or emerging government and reduce the likelihood of another crisis emerging.”

Tuttavia, più che assumere “il potere”, “lo Stato”, come un qualcosa lì, dato, e che differenti parti si battono per impadronirsene o per mantenerlo, sarebbe più opportuno evidenziare che con la guerra si costruire un potere politico, uno Stato, o si cambia uno Stato già esistente. Una guerra è sempre guerra rivoluzionaria. Gli USA che conducono una guerra globale, qualunque aggettivo appiccichino su di essa, o intervengano in conflitti locali o li suscitino, cambiano gli stessi USA. Tanto più succede quando l’oggetto del contendere sia un’entità Statutale, od uno spazio, sul cui territorio ci si batta per il suo controllo e per il contollo di un ordine legale su di esso esistente o che si vuol costruire. Ecco che una guerra, sia tra Stati o per il controllo di uno Stato, plasma, ristruttura, la Costituzione materiale di tutte le parti partecipano alla guerra. Una guerra è sempre guerra rivoluzionaria, pur in modo estremamente vario. Dipingere guerre od operazioni belliche come banali operazioni di polizia conduce a non comprendere la dimensione della guerra che si combatte. Gli stessi combattono, a vario titolo, una guerra non sono poi le stesse persone che erano prima, sia ritornino civili che restino militari.

(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) enfatizza che ogni caso di insurrezione è unico e se ne devono capire contesto e motivi:
“1-24. Each insurgency is unique, although there are often similarities among them. In all cases, insurgents aim to force political change; any military action is secondary and subordinate, a means to an end. Few insurgencies fit neatly into any rigid classification. In fact, counterinsurgent commanders may face a confusing and shifting coalition of many kinds of opponents, some of whom may be at odds with one another. Examining the specific type of insurgency they face enables commanders and staffs to build a more accurate picture of the insurgents and the thinking behind their overall approach. Such an examination identifies the following:
“= Root cause or causes of the insurgency.
“= Extent to which the insurgency enjoys internal and external support.
“= Basis (including the ideology and narrative) on which insurgents appeal to the target population.
“= Insurgents’ motivation and depth of commitment.
“= Likely insurgent weapons and tactics.
“= Operational environment in which insurgents seek to initiate and develop their campaign and strategy.”

Certo, capire contesti ed avversari sembra una cosa ovvia e naturale. Vedremo che è tutto più complesso e differente. Capire una molteplicità d’aspetti può precludere aspetti più essenziali ed al contrario evitati nella “comprensione”. Lo sforzo di capire le ragioni dell’altro può essere un modo per sopravvalutare, di fatto, l’altro, dunque per non capirlo, per non capire meccanismi elementari di psicologia individuale e collettiva rincorrendone di immaginari magari complessi quanto effimeri, dunque inutili e devianti. Un esempio di guerra in cui nessuno si pone il problema di capire l’altro, ma semplicemente di battersi per fini terra-terra, per fini specifici e del tutto materiali, è la seconda guerra mondiale. Non a caso è stata una guerra che, per lo meno rispetto al problema ognuno delle parti principali voleva risolvere in Europa e nel Pacifico, è stata risolutiva per un lungo periodo sia per vincenti sia per perdenti. Certo, a quella guerra sono subito subentrate divisioni nel campo vincenze, che tuttavia erano del tutto funzionali agli obiettivi della guerra e dunque volute dai vincenti primi. Guerricciole successive erano assestamenti tra i vincitori principali, assestamenti che continuano e forse s’evolveranno ora in qualcosa d’altro, ma non mettevano in discussione i risultati di lungo periodo di quel conflitto relativamente ai vinti. Certo, in conflitti tra i vincitori si inseriscono inevitabilmente i vinti quando di forza tale da sopravvivere a pur gravissime sconfitte belliche. La seconda guerra mondiale, senza bisogno di “capire” l’altro, fu comunque una guerra risolutiva rispetto ai compiti principali del periodo, proprio perché si sapeva che il contendere erano i controlli diretti di materie prime essenziali. Le ragioni erano semplici. Le ragioni sono sempre semplici. La guerra è sempre per distruggere l’altro e per asservirlo, quando non lo si voglia sterminare totalmente. Voler capire che abbia in testa il singolo automa mandato ad ammazzare ed a farsi ammazzare, oppure il profittatore, od il capo nobile, se esistono capi nobili, non è di grande utilità ai fini del risultato bellico. È chi, pur più forte, non sa bene che fare, che si trincera dietro studi dell’altro. Quando nessuno lo faceva, le guerre erano risolutive. Le guerre coloniali erano vinte o meno sulla base della forza militare e sistemica. I successi o meno dei domìni dipendevano dalla forza sistemica del vincente contingente e dalle specifiche tecniche di colonizzazione. Il vincente e le caratteristiche delle vittorie, così come il perdente e le caratteristiche delle sconfitte, plasmano la psicologia delle parti a loro opposte. Il singolo si vive sempre rispetto all’altro. Non esistono ragioni dell’altro costruite indipendentemente dalle tue. Certo, anche le tue, se sei debole, si costruiscono rispetto all’altro e ti faranno arrogante se l’altro è debole e codardo se l’altro è forte. Ma, appunto, solo se tu sei debole e vuoi essere debole. Se tu non sei debole, se tu non sei un debole, non hai bisogno né di arroganze né di codardie che anzi rifuggi. In guerra, in genere, per vaste masse e per i loro capi, l’aspettativa di vittoria e l’aspettativa di sconfitta plasmano le psicologie contingenti Non sono immanenti caratteristiche psicologiche che creano le possibilità di vittoria e di sconfitta contingente. Le “ragioni” sono costruzioni contingenti che hanno cause materiali, cause materiali che non sono altro che rapporti di forza tra le varie parti. Le guerre sono cose barbare. Il massimo esercizio della forza garantisce il successo. Addolcirle conduce solo a sconfitte od a vittorie non risolutive. La forza preponderante non usata in modo totale e devastante porta solo a prolungare ed a rendere più vasta la barbarie della guerra, proprio perché crea nell’altro l’aspettativa di poter vincere. Far la guerra per far finta di farla, piuttosto non la si faccia. Voler comprendere complesse motivazioni dell’altro è spesso parte del costrutto per perdere le guerre o per non vincerle davvero. Il modo per far la guerra in modo morale è evitare l’immoralità, non voler comprendere motivazioni dell’altro che non esistono. La moralità è in sé stesso, se la si ha. Non è nelle “motivazioni” dell’altro, non è nel farsi l’altro, l’avversario. Chissà se in Iraq ed altrove hanno sguinzagliato psicologi e culturalisti per comprendere “le ragioni”, “le motivazioni” dell’altro, mentre gestivano prigioni da maniaci alla cui dipendenze erano soldati e soldatesse maniaci. È tutta lì la differenza tra l’essere ed il non sapere cosa essere, dunque l’essere tutto quel che capita secondo patologie del momento e dell’ambiente circostante. Voler troppo capire fa, spesso, non capire nulla, magari perché non c’è nulla da capire dal lato in cui si vuol credere ci sia.

In “Legitimacy Is the Main Objective” (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006, p. 1-21), slogan e titolo di un paragrafo, da un lato si centra ciò che dovrebbe essere il fine di una guerra (od uno dei possibili modi di presentarne il fine), anche antipartigiana, sebbene subito si confonda il punto con chiacchiere “occidentali”, che tra l’altro sono del tutto tautologiche visto che nessuna democrazia “ateniese” è mai esisistita nella storia neppure nell’antica Atene. Legitimacy/La legittimità è semplicemente l’accettazione di un potere. La legittimità intrinseca non esiste, se non nel senso che qualunque potere sia universalmente accettato ai vari livelli, a cominciare dai più alti (gerarchicamente, nelle gerarchie formali) e fino alla massa della popolazione, sia tale. La Rule of Law, lo Stato di diritto, è ogni Stato con procedure accettate, non perché sia sottomesso ad una qualche legalità astratta e perfetta divinamente rilevabile. Se le legalità è quella delle commissioni giudicanti e dei plotoni d’esecuzione di una Čeka che deve terrorizzate per ottenere una qualche obbedienza elementare od una non disobbedienza, lo Stato di diritto è quello. Del resto, anche dove le leggi siano abbondanti e dettagliate, alla fine lo Stato di diritto è quello basato su procedure che, se i controlli sono deboli o pressoché inesistenti, è uno Stato di diritto che s’avvicina a, od è, arbitrio legalizzato ma magari accettato perché sotto la maschera di procedure in qualche modo collettive e visibili e che, per un motivo o per l’altro, nessuno mette apertamente in discussione. Lo Stato di diritto non è un qualche più o meno immaginario Stato dei diritti. Esso è semplicemente dove le procedure legali siano note e visibili dunque dove l’imprevedibilità del singolo “despota” sia superata. Non è, solo per questo, il regno della perfezione. Comunque, anche uno Stato con procedure di terrore rivoluzionario può essere uno splendido [dal punto di vista della Teoria dello Stato e del diritto] Stato di diritto se il terrore viene praticato con stretti criteri di legalità, d’osservanza di leggi. Non si confondano aspetti di legalità con ciò possa essere percepito come barbaro o repellente. Non è che friggere condannati, talvolta pure innocenti, su una sedia elettrica coi parenti delle vittime ed altri che assistano, sia un grande spettacolo teatrale, eppure è legale, legalissimo, da perfetto Stato di diritto se tutto si svolge secondo le procedure legali. Non si può poi sapere se la corte popolare che stabilisce la colpevolezza si preoccupi delle prove oppure delle proprie sensazioni e del clima eventualmente creatosi attorno ad un caso. Non possiamo neppure pensare che lo Stato di diritto esista o meno a seconda di nostre arbitrarie valutazioni o sensazioni. Alla fine, è legittimo ciò che viene accettato e viene accettato ciò che un potere ha la forza di imporre.

Ecco, che già, nel manuale (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006), legittimità e Stato di diritto divengono fattori di confusione a livello teorico e di limitazione dello spettro operativo di operazioni antipartigiane attirando l’attenzione su elementi che, alla fine, sono irrilevanti. La vittoria totale ed assoluta crea legittimità. Sulla legittimità della forza si fondano legalità e Stato di diritto. L’eticità del militare sarebbe di certo d’un qualche valore morale ed umano, sebbene non sembra che le truppe statunitensi, alla fine, brillino né per etica astratta né per astratta osservanza della legge. Per cui, s’agitano elementi di legalità con truppe che neppure sembrano essere particolarmente affezionate a una qualche correttezza o moralità comportamentale. Ciò, comunque, lo ripetiamo, neppure sarebbe decisivo. Sono livelli differenti. Se non fosse che (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) presenta la guerra antipartigiana un po’ come una, pur complessa, operazione di polizia, dunque con una qualche legalità “normale” che già esisterebbe o che si dovrebbe ricostruire oppure correggere e rafforzare.

Non è proprio questo il punto, nella realtà. L’Armata Rossa ha creato, nelle Russie, legittimità e Stato di diritto (pur di tipo non gradito al campo avverso), pressoché dal nulla, senza avere mai particolarmente brillato per etica. “Suppliva”, fin dai precursori alla Lenin e Trozky, la propaganda, dover essere senza che vi fosse l’essere. Si raccontavano e raccontavano al mondo d’una radiosa realtà immaginaria mentre le stesse squadracce mandate a sopprimere lo zar con famiglia, che erano già prigionieri, derubarono i cadaveri di tutto e per intascarselo personalmente: guerre e lavori di polizia si fanno del resto col materiale umano o subumano od a-umano che s’ha. Come i vincitori abbiano combattuto la seconda guerra mondiale dovrebbe essere risaputo. Non certo più nobilmente dei tedeschi ed altri. Questo non ha creato loro crisi di legittimità, ne mancanza di legittimità dei regimi da loro imposti, perché la loro vittoria era stata totale ed assoluta. Non è mai questione di processi elettorali democratico formali che sono solo forme non risolutive. I regimi a partito unico o senza partiti non sono per questo meno legittimi. La selezione democratico-formale evidenzia semmai, spesso, una certa insulazione dello Stato rispetto agli eletti, dunque una a-democraticità sostanziale. Infatti, sottosviluppismo e sviluppismo coesistono con le sfere politiche apparentemente più antitetiche rispetto alle nature sistemiche reali. Non che l’assenza di democrazia formale sia meglio, a meno che non si inventino sistemi davvero migliori di selezione nella sfera pubblica, cosa tuttavia ancora più ardua che un banale e rassicurante voto periodico in cui almeno la colpa dei danni si può dare agli elettori. La legittimità si fonda, comunque, sulla forza e sull’accettazione. Non su altro. Lo stesso vale per l’assenza di legittimità di poteri Statuali. Non basta che l’ONU riconosca un regime perché esso abbia una qualche legittimità interna. Lo si veda, oggi, nelle varie aree di Stati falliti o collassati che sono in aumento nel mondo. Votano, a e poi continuano a non esistere, non come veri Stati a legittimità interna.

Per cui, “legittimità” e “Stato di diritto” si traducono facilmente, per la FFAA statunitensi in autolimitazioni dello spettro operativo da parte degli alti comandi, con conflitti potratti all’infinito e senza risultati di legittimità e Stato di diritto, a parte elezioni che alla fine non hanno grande significato (se i risultati in legittimità e Stato di diritto neppure si vedono), come succede ora in Iraq ed Afganistan. Ma era già successo in Vietnam. Le seconda guerra mondiale che, dal lato Alleato, è stata combattuta coi mezzi più barbari, con l’unico principio del vincere a qualunque costo e col massimo annichilimento dell’avversario, ha prodotti risultati di legittimità e di Stato di diritto (che non ha nulla a che fare con astratte “libertà”; non si confondano i vari aspetti) come nessun altro conflitto successivo. Alla fine, per esempio, in Vietnam, gli USA hanno finito per usare i mezzi più barbari, ma concentrandosi sul livello macro. Eppure, il blocco psicologico ed operativo rispetto al vincere a qualunque costo e col massimo annichilimento dell’avversario in una guerra totale che andava ben oltre i convini vietnamiti e dell’Indocina ex-francese, pur senza temperare in realtà l’uso dei mezzi, ha reso vano qualunque sforzo. In guerra, la vittoria totale ed irreversibile crea legittimità e Stato di diritto, non la preoccupazione della legittimità e dello Stato di diritto che si cerca, vanamente, di far già vivere a conflitto aperto. Ecco che, pur con una potenza militare travolgente, non riescono a travolgere avversari militarmente più deboli. È quello che succede in Iraq ed Afganistan, ora, dove, tuttavia, se fosse solo interessato il controllo delle aree, l’avrebbero potuto ottenere più rapidamente e solidamente senz’abbattere i regimi esistenti.

“Legittimità” e “Stato di diritto” divengono così dei costrutti astratti, molto sovietici invero, fatti di elezioni, leggi, formali richieste di intervento o permanenza del “soccorso internazionalista”, anche se gli USA lo chiamano con linguaggi loro. Di per sé, le elezioni, come procedure formali di legiferazione, non creano legittimità né legalità. Possono creare anche solo come degli Stati-propaganda, mentre gli Stati reali sono altri, o neppure sono Stati. In effetti, è quello spesso si verifica. Gli USA si creano degli Stati-propaganda e dei non Stati, entità scaturite solo da loro ideologie fantasiose. Una deformazione ideologistica cerca cause ideologiche, fantasiose, della legittimità, così come della sua assenza. L’ideologia invece non ha alcun ruolo rispetto alla creazione o meno di legittimità e di legalità. Legittimità e legalità dipendono dall’uso della forza e dalla sua accettazione. Create legittimità e legalità, si possono calare sopra d’esse tutte le ideologie più convengono, se mai davvero servono a qualcosa.

Esiste, invero, un elemento chiave interno per la creazione o ricreazione di Stati: l’esistenza di un qualche fattore di reale unificazione di un’entità statuale, uno spirito dello Stato, che non deve comunque essere inteso come un fattore astrattamente spirituale, quanto procedurale o di riflessi condizionati per popolazioni con psicologie elementari governate da riflessi condizionati (più tipici d’insetti che di esseri liberi, tuttavia gli esseri reali sono come sono). Non si pensi a casi come la Germania od il Giappone, dove non c’erano fenomeni insurrezionali. La situazione, là, era semplicemente di potenze militari battute ed anche di nazioni battute in loro eccessive o non realistiche ambizioni d’un periodo, eppure con Stati che uscivano intatti, anzi rafforzati, dalla sconfitta militare. In Giappone, con l’impiccagione di oligarchi economici e col passagio in secondo piano del ruolo dell’Imperatore, ne esce rafforzato il potere assoluto delle oligarchie burocratiche modernizzatrici, una specie di capitalismo americano pur senza il ruolo chiave della borsa valori (seppur anche negli USA esista il cemento decisivo di oligarchie economico-finanziarie modernizzatrici). In Germania, con la liquidazione dello Stato parallelo nazionalsocialista, lo Stato tradizionale tedesco, esso stesso fortemente modernizzatore, può dedicarsi, sotto l’ombrello militare anglo-americano, alla costruzione economica e della Grande Germania essenzialmente economica o politico-economica, per un lungo periodo, sotto la maschera delle varie comunità europee all’inizio ridotte e settoriali. Quelli, non sono comunque casi di repressione di lotte partigiane. Lì, i vincitori, non devono creare legittimità o legalità. La legittimità dell’occupazione e della sottomissione derivava dalla netta vittoria militare. La legalità derivava dallo spirito dello Stato dei due casi citati che, con le conseguenti strutture di legalità precedenti, si perpetuava nella sconfitta e nell’occupazione. Si potrebbe semmai opinare che, dal punto di vista delle leggi della guerra, cioé della distruzione dell’avversario, eraro più consistenti piani poi non attuati di distruzione della potenza economica tedesca e giapponese con forme di destrutturazione economica riducendole per esempio al rango di province agricole. Anche lì, i vincitori s’erano fatti traviare dai fumi della loro propaganda divenuta loro stessa percezione per cui, improvvisamente e strumentalmente creatisi il nuovo nemico sovietico (ma non l’avevano “pompato” loro con ingenti aiuti durante la guerra?!), non potevano, s’erano detti, depauperare i vinti che ridivenivano (perché se li erano fatti ridivenire!) improvvisamente utili. Ma, allora, perché vincerli, perché imbarcarsi un una guerra preprogrammata, non certo capitata per caso o per destino ineluttabile, se per poi rilasciarli sviluppare come prima della guerra pur senza più, per un lungo periodo, ambizioni militari (dal lato dei vinti, viste le costrizioni della sconfitta), con questo potersi risviluppare liberi da preoccupazioni militari che era perfino un vantaggio per i vinti?

(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) si basa, naturalmente, sui casi offerti dalla storia recente. Si riferisce, per esempio, a casi alla vietnamita, all’afgana (non esiste vera differenza sostanziale tra il tentativo sovietico e poi quello statunitense-NATO fino ad ora: i nemici sono pure gli stessi, ora), all’irachena.

L’esame resta tuttavia sempre prigioniero dei pregiudizi ideologici propagandistici trasformati in vero modo d’essere, di percepire e pensare, degli stessi centri di potere statunitensi, o almeno di gran parte d’essi. Se anche esistono, presumibilmente, dei centri capaci di pensare in termini non ideologici, sono stati distrutti i linguaggi che permettono loro di parlare ad altri decisori chiave ed agli esecutori. La politica e le istituzioni formali USA sono del tutto dominate da procedure di percezione e di pensiero ideologiche, fantasiose, pur senza fantasia che permetta di adattarsi ad una realtà che dovrebbero prima poter comprendere, cosa che sulla base di metodologie ideologico-fantastiche diviene impossibile. Questo vale per tutti gli Stati occidentali, ma, verosimilmente, pure per un po’ tutti gli altri dove si sono sono create proprie rappresentazioni per le masse, rappresentazioni che si sono poi interiorizzate come proprio essere, come percezione vera del proprio essere. S’è avuta, un po’ dappertutto, una distruzione generalizzata della ragione a favore della propaganda interiorizzata come ragione. La realtà non può essere letta coi linguaggi della sua rappresentazione propagandistica. Se lo è, si legge una realtà filtrata sì da renderla immaginaria, dunque non capendola. Ciò che ha esisti devastanti per strati dirigenti. Un manager può anche raccontare agli operai, se crede, sebbene non vedo come possa essere minimamente proficuo, che l’impresa sia un ente di beneficenza. Se, però, si convince lui stesso che sia un’impresa di beneficenza e non di produzione di ricchezza e di profitto, la conduce facilmente alla distruzione, oppure ad una esistenza non ottimale (ad un barcamenarsi) con l’immagine falsa sottoposta poi alle pressioni degli interessi. Se un Presidente (di Stato presidenziale), così come tutta l’accademia (dunque i centri di produzione del pensiero e dei pensieri) sono convinti che le politiche siano questioni di valori astratti, e non di interessi e di obiettivi, si immagini che succede quando i “valori”, le ideologia, sono poi sottoposti ad interessi materialissimi come il fornitore che ha bisogno si consumino armamenti. È quello in realtà succede, in vario modo in vari contesti, dunque con caratteristiche differenti e con danni (o meno) differenti a seconda di equilibri sistemici.

In (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) c’è quest’asservimento a ideoligismi correnti, con continue confusioni tra fini e processo, e con fini e processo visti in modo del tutto astratto. Si continua a partire da ideologismi intellettualistici che si immaginano i singoli e le popolazioni di aree d’operazioni come da convincersi secondo procedure evidentemente giudicate convincenti su una visione immaginaria di quello gli stessi USA sono stati e sono. In realtà, il singolo è, in genere, essere elementare che è “convinto” e si convince solo sulla base della forza irresistibile ed indistruttibile. Quando non si convince, è perché una certa forza non lo è tale mentre, magari, la è quella dell’avversario. Il Vietnam viene giocato a questo livello. Idem l’Iraq e l’Afganistan. Nell’ultimo caso, ci si immaginano (nel fantastico “occidentale”) dei seminaristi islamici compattati da qualche inespugnabile spiritualità li renda invincibili. In realtà, chi si sottometta ad essi (o altri, non necessariamente con quelle caratteristiche “religiose”), e divenga parte di essi, lo fa perché li vive come forza irresistibile. Altrimenti si asservirebbero tutti ad altri.

Le vie della costruzione d’un potere possono avvenire nei modi più differenti. Nella guerra “rivoluzionaria” si costruisce, o meno, la propria forza, forza che poi legittima e fa legittimare chi si voglia, sempre che, successivamente, forze superiori in qualche modo emerse e manifestatesi non alterino i risultati di “legittimità” ottenuti.

Un governo fantoccio può poi divenire governo vero, per esempio su un successo economico che dia ad esso legittimità rispetto alla popolazione l’ha subito o su cui è stato appiccicato. Però, chi installi il governo fantoccio deve prima avere inequivocabilmente stravinto una guerra ed essersi imposto come potenza occupante. Finte o vere elezioni non danno maggiore legittimità ad un governo fantoccio. Anzi, elezioni potrebbero perfino indebolirlo perché mostrano una debolezza di chi lo imponga che si affida ad un qualche artificioso gradimento popolare anziché alla propria forza assoluta e totale. Si confrontino Iraq ed Afganistan con la Corea del Sud. Un potere stabilizzato e che ha acquistato una sua legittimità intrinseca basato su dei successi veri, come è il caso d’un boom economico non effimero, può poi passare alla democrazia formale. Prima, non serve a nulla, e può essere dannosa come tutte le finzioni che mostrino solo meglio debolezze.

Oppure, se si vuole costruire subito un potere come potere dotato di forza e legittimità intrinseca immediata, già durante la guerra, la via classica è quella della guerra rivoluzionaria, dunque di un potere che si costruisce attraverso una guerra rivoluzionaria con connessi terrori. L’aiuto esterno non contraddice l’uso di tale modello, sempre che il soccorso esterno non divenga, sul campo, sostitutivo dell’esercito rivoluzionario indigeno. In Vietnam, cinesi e russi si affiancano ai nord-vietnamiti. Gli statunitensi si sostituiscono alle truppe sud-vietnamite che divengono accessori, magari pure dannosi quando infiltrate dal nemico. In Corea, la Corea del Nord ha FFAA di tipo sovietico anche se poi gli Stati Uniti riescono a batterle. I cinesi, quando intervengono massicciamente, non si sostituiscono ad una inesistente legittimità nord-coreana. Intervengono sul terreno d’uno Stato nord-coreano solido che pur ha subito una batosta militare e che riesce comunque, con l’intervento diretto cinese, a ricrearsi. La ridivisione in due con una frontiera fortificata ridà legittimità ad un Nord che la centra sulla propria aggressività militare e, nel Sud che si preserva grazie agli statunitensi che continuano a presidiarlo, gli USA creno legittimità ad un regime che, col successo economico, conquista la popolazione e grazie al successo economico crea FFAA solide che non aveva mai avuto in precedenza. Nel Nord la tradizione militare e militarista si fondava, già prima della guerra di Corea del 1950-53 sulla guerra rivoluzionaria pur con decisivi aiuti militari sovietici. E sulla guerra rivoluzionaria del 1950-53, pur battuto nel tentativo di conquistare il Sud, il Nord si ricrea una forte legittimità interna. È irrilevante che essa sia poi, al Nord, nel concreto fondata su grandi differenze di classe, con schiavismo dei contadini e repressioni feroci: queste sono altro ordine di questioni.

Uno schema di guerra rivoluzionaria, se la guerra rivoluzionaria vince, si traduce nel controllo ferreo delle popolazioni con eventuale terrore di massa se necessario, e con tutte le tecniche connesse di dominio di popolazioni. Si veda la stessa storia statunitense, con una guerra rivoluzionaria prima contro la Corona britannica poi, ben più feroce e vera, contro i secessionisti del Sud democratico e delle autonomie locali. Dalla guerra rivoluzionaria contro il Sud nasce lo sviluppo impetuoso degli USA e la loro travolgente forza militare e militarista diretta alla conquista del mondo. Non è questione di spazi, di ambiente fisico favorevole o di risorse minerarie che esistono anche, magari ben più abbondanti, nelle altre parti delle Americhe.

Proprio per via dei pregiudizi ideologici, il volume (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) intraprende la via controproducende, per un manuale che si vorrebbe, pur ampio ed approfondito, di uso operativo da parte di comandanti sul campo, di classificare i movimenti partigiani o guerriglieri essenzialmente sulla base dell’apparenza della loro ispirazione. Questo è solo l’ultimo punto di una lista di casi possibili:
“1-23. Today’s operational environment also includes a new kind of insurgency, one that seeks to impose revolutionary change worldwide. Al Qaeda is a well-known example of such an insurgency. This movement seeks to transform the Islamic world and reorder its relationships with other regions and cultures. It is notable for its members’ willingness to execute suicide attacks to achieve their ends. Such groups often feed on local grievances. Al Qaeda-type revolutionaries are willing to support causes they view as compatible with their own goals through the provision of funds, volunteers, and sympathetic and targeted propaganda. While the communications and technology used for this effort are often new and modern, the grievances and methods sustaining it are not. As in other insurgencies, terrorism, subversion, propaganda, and open warfare are the tools of such movements. Today, these time-tested tools have been augmented by the precision munition of extremists—suicide attacks. Defeating such enemies requires a global, strategic response—one that addresses the array of linked resources and conflicts that sustain these movements while tactically addressing the local grievances that feed them.”

A parte, l’esempio infelice perché nessuno sa bene che sia Al-Qaeda e non è neppure certo esista davvero. Alla fine, è solo la rete di un centro saudita ricchissimo. Di sicuro non esiste come autorappresentatasi anche nelle più alte istituzioni degli USA, dove tutta la ricostruzione della favorella dell’11/9/2001 si basa sul nemico onnipresente e terribile, ...che, non stranamente, dopo la grande operazione d’allora, ora sarebbe ridotto [han certcato di raccontare!] a disseminare d’incendi la California. L’11/9/2001 ruota attorno ad altissima tecnologia solo gli USA avevano ed hanno, non certo su squadrette che puntando l’indice sequestano e dirigono aerei. Ad ogni modo, propaganda a parte, in Iraq, la rete di BinLaden è proprio una frazione marginale pur finanziatissima da soldi sauditi. Altrove, non si sa bene che faccia, salvo ora la nuova favoletta degli incendi in California. Si sa quel che faceva prima: cooperazioni con la CIA e gli inglesi per lo sfondamento del già impero sovietico. Del resto, la penisola arabica era colonia inglese ed ora è nell’area di interessi inglesi e statunitensi.

Comunque, per (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006), risolvere la questione delle insurrezioni partigiane o guerrigliere in più o meno solide ispirazioni, idiosincrazie, pregiudizi popolari e di periodo, permette di evitare quello che è il punto chiave. Pregiudizi, idiosincrasie, odi feroci, frustazioni, desideri, ossessioni, esistono in tutte le epoche storiche ed in tutti i luoghi. Non per questo ciò dà vita a movimenti insurrezionali.

Una cosa è asserire come astrattamente vero e come invito alla comprensione dei contesti che ogni caso di insurrezione sia unico e se ne debbano capire contesto e motivi. È il punto 1-24 sopra citato. Se non si dice che ciò è in realtà irrilevante o secondario rispetto al alcune caratteristiche dell’individuo, ecco che si centra un’attività militare e socio-politico-militare su aspetti irrilevanti.

In realtà, un movimento partigiano necessita di due elementi chiave: [1] delle strutture logistiche, [2] un qualche profitto non effimero né solo apparente per il singolo.

[1] Delle strutture logistiche. Strutture logistiche non derivano mai dal nulla né da propulsioni interne. Il campo delle manipolazioni, dato che poi di questo si tratta, è vasto e non staremo qui a dire nulla, se non che sono sempre poteri a dare la spinta, i soldi, le strutture, od a lasciare ci si procurino con “autofinanziamenti” vari. Perfino chi acquisti armi ed altro “dalla malavita”, se “la malavita” te le vende è perché fette di Stato vogliono armarti. Sennò, “la malavita” vende armi solo a chi voglia ammazzare la moglie. Non si fonda un movimento partigiano andando nei luoghi della mala a cercare un’arma da fuoco. Quanto al “prenderle al nemico”, non è mai così semplice salvo singoli pezzi, a meno che non si tratti di poteri in putrefazione ma allora sono frazioni dello stesso “nemico” che ti usano per fini loro od a cui t’associ. A Cuba, burocrazie statali conservatrici, che non usufruiscono dei benefici dell’essere area di intrattenimento di riccastri americani, usano il castrismo per preservare e rafforzare i propri privilegi. Nessun potere di disgrega per qualcuno che fa banditismo sulle montagne e per qualche attentato nelle città.
[2] Un qualche profitto non effimero né solo apparente per il singolo. Senza una qualche profitto per il singolo, senza una qualche concreta possibilità di esistenza, non necessariamente di grandi vittorie, nessuno si avventura in movimenti armati. Certo, il singolo isolato è sempre incontrollabile per cui qualora esca dalla massa per mettere in atto fenomeni delittuosi di qualunque genere può succedere di tutto, per quanto le possibilità del singolo siano in genere scarse ed i casi di ribellione del singolo alla fine rari. Il singolo è, alla fine, in genere, facilmente identificabile e neutralizzabile. Idem le piccole gang. Già la gang mafiosa non esiste senza appoggi e protezioni di potere.

Per cui, ma il volume (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) non se ne occupa, oltre al chi paga da individuarsi e da stroncarsi senza paraocchi chiunque sia, ciò che stronca un movimento partigiano è la distruzione di ogni possibilità esso possa operare e anche solo sopravvivere. Certo, chiunque può mettersi a vagare nella notte in squadra armata. Ma, già se attacchi un posto di polizia, prima o poi ti trovano, salvo il singolo che lo faccia per gioco e nel gioco riesca ad eccellere davvero. Il partecipante al movimento partigiano o terrorista può credere alla favoletta delle armi scaturite dal nulla od ai documenti falsi creati per capacità artigianale, sebbene, salvo piccolissimi gruppi, l’individuazione sia sempre abbastanza rapida. Se non si viene neutralizzati è perché uffici dello Stato vogliono lasciar operare il movimento partigiano o terrorista, oppure perché esso ha sostegni esterni tali da poter operare pur in condizioni avverse. Non serve a nulla sopravvalutare “fedi”, “religioni” “ideologie”, che sono sempre mitizzazioni di chi non riesca o non voglia a venire a capo di movimenti partigiani. Il singolo obbedisce a riflessi condizionati elementari. Un’apparente inespugnabile fortificazione non sopravvive senz’aria, energia, acqua, generi alimentari, altri approvvigionamenti. Più o meno, lo stesso vale per un gruppo di combattenti. Si guardi il caso del Che in Bolivia. Non esiste nessun ineluttabile potere d’attrazione del gruppo guerrigliero. L’individuo non si muove, non fa scelte, senza un qualche guadagno, un qualche interesse. Non è vero che le fedi mobilitino. Quando si mobilita, si fanatizza, sotto la copertura delle fedi, c’è altro. Nessuno, pur con la testa intossicata fin dalla nascita, si fa saltare per aria se poi alla famiglia non vengono date indennità o pensioni. Nessuna fede mobilita dove sia chiarissimo che nessuna azione individuale o collettiva non porti da nessuna parte e magari si traduca in un danno per chi si dice si voglia favorire.

Al contrario, è il senso di impotenza d’una parte pur fortissima in mezzi che induce, pur nell’abbondanza di risorse materiali, di informazione, d’ogni altro genere, a sopravvalutare la fede dell’avversario. È una vera sindrome di soggezione al fanatico, mentre il fanatico non esiste se altro ed altri non lo fabbrichini e non lo facciano esistere. Ognuno è spesso un potenziale fanatico. Tuttavia quasi nessuno esprime il suo fanatismo e le sue propensioni a delinquere e maniacali quando non le veda socialmente accettate od, almeno, protette dal potere. Il singolo diventa facilmente criminale e boia, ma solo quando si senta impunito, dunque protetto dal potere oltre che socialmente accettato ed esalatato, pur nella sua alienazione e, spesso, autodistruzione.

In “Ideology and Narrative” (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006, p. 1-14–1-15) c’è una accentuata sopravvalutazione dell’aspetto fideistico. Sarebbe più corretto dire che la fede è del tutto irrelevante, se ciò non conducesse un lettore acritico a concluderne che non si debbe vedere attorno alla fede che mercato e che dinamiche si sviluppino. La fede, di per sé, non spiega un movimento guerrigliero, possibilissimo anche senza fedi o con fedi fabbricate del tutto strumentalmente. Per la gran massa degli individui, lo stipendio fa la fede. Chi ne dà di più e più sicuri, e con controllo più rigido sui sottoposti, crea più “fede”.

Non esiste nulla “di natura” ineluttabile: “1-134. Insurgencies are protracted by nature.” Se un movimento partigiano viene subito stroncato ed affermata una solida autorità del potere o dello Stato, ecco che non è detto debba essere protratto. Se si liquida un’unità guerrigliera od anche tutte le unità guerrigliere ma tutte le precondizioni (interventi esterni e debolezza del potere, essenzialmente) perché il movimento partigiano continui ad esistere, ecco che esso verrà riprodotto. Ma non è ineluttabile. È deviante fissarsi su “condizioni oggettive” astratte. Le condizioni per l’esistenza di un movimento di resistenza non sono mai solo interne, intrinseche. Non è vero che l’oppressione crei rivolta collettiva. Dipenda da quale mercato si crei sull’“oppressione” e quale interessi sfruttino “l’oppressione”.

Si consideri questo passaggio:
“1-138. Information and expectations are related; skillful counterinsurgents manage both. To limit discontent and build support, the HN government and any counterinsurgents assisting it create and maintain a realistic set of expectations among the populace, friendly military forces, and the international community. IO (including psychological operations and the related activities of public affairs and civil-military operations) are key tools to accomplish this. Achieving steady progress toward a set of reasonable expectations can increase the populace’s tolerance for the inevitable inconveniences entailed by ongoing COIN operations. Where a large U.S. force is present to help establish a regime, such progress can extend the period before an army of liberation becomes perceived as an army of occupation.”

Nella costruzione delle Russie sovietiche, considerando gli altri come movimento insurrezionale o guerrigliero, il potere sovietico si costruì col terrore rosso anche contro operai e contadini, non con “friendly military forces.” Certo divenivano “amiche” per chi facesse lui stesso boia o collaborazionista dei boia. I “rossi” hanno vinto perché erano più spietati e percepiti come più forti. I “bianchi” hanno perso perché meno terrificanti e percepiti come più deboli. C’entrano poco propagande di “operai e contadini” contro “capitalisti e latifondisti”. I massacri bolscevichi non li aveva mai fatti lo zarismo contro cui tutti si ribellavano. I “rossi” russi vincono sulla loro credibilità terroristca mentre gli altri perdono per insufficiente credibilità terroristica. Devastazioni terroristiche, carestie senz’assistenza agli affamati, non producono ribellioni vere né nelle Russie sovietiche né nella Cina maoista. Il potere è vissuto come indistruttibile. Nessuno si ribella ad un potere indistruttibile, oppure le ribellioni individuali sono ridotte a delinquenze facilmente risolvibili caso per caso. Ma anche piccole rivolte disperate vengono facilmente soppresse, spesso senza neppure clamori.

Nel volume c’è tutto e ben esposto. Manca però il cuore. Puoi avere grandi basi militari però o non sicure o non si è sicuri appena si esca da esse. Poi avere tutta una miriade di organizzazioni civili che si accompagni, almeno sulla carta, all’azione militare. Però, poi, i maestri sono uccisi, i sindaci pure, le imprese di costruzioni o le mille altre organizzazioni dirette verso la popolazione liquidate da esecuzioni da parte dell’avversario. Anche l’intelligence tecnologizzata può essere ottima. Però, un’avversario inferiore in quasi tutto magari controlla il territorio perché la sua organizzazione di potere o di contropotere tiene mentre le tua, pur con abbondanza di mezzi, non tiene. Allora, sorgono i miti dell’invincibilità dell’organizzazione “comunista” o di quella “islamica” o del loro “fanatismo”, mentre non sono loro che sono forti ma tu che hai tutto che sei debole perché se non capisci che se allo stipendio ed all’arma non s’accompagna la lealtà che solo il terrore procura, se l’avversario è superiore anche solo nell’arte del terrore ecco che è superiore in tutto ciò che conta davvero perché governa anche al tuo interno mentre tu puoi distruggere solo ciò che vedi ed che è ben distinto per poter essere colpito. Il militare ed il funzionario civile tornano a casa dopo il lavoro. Se lì ed attorno domina “il nemico”, alla fine loro saranno fedeli “al nemico”, doverranno suoi collaboratori oppure saranno eliminati. Il dominio tuo o “del nemico” dipende solo da chi abbia un’organizzazione terroristica capillare ed onnipresente di spie e d’assassini. Il civile che ti saluta cordiale quando dai le sigarette o le caramelle non ha alcuna importanza, se non c’è esercizio (potenziale, se non occorre) del terrore. Il monopolio della forza è tutto lì.

Non si intenda terrore come stragismo, perché non v’è alcuna connessione, né come particolare sanguinarismo, perché senza l’autoconvinzione la sola minaccia non funziona. Eppure, se s’analizza la psicologia umana si vede come lo stipendio e la paura creino poi la fedeltà qualunque cosa si dica o si creda d’essere ed a meno che un potere superiore non t’induca alla fedeltà pur con stipendio altrui. Alla fine, il terrore che crea fedeltà e lealtà è il terrore attivo, quello interiorizzato come fede, quello che il soggetto pratica. Non è una gran cosa a dirla così, ma il potere si fonda, di fatto, sul singolo spia e sul singolo assassino se “lo Stato” ordina. Non si pensi a ciò in termini necessariamente sanguinari o truculenti, sebbene il vissuto concreto dipenda dalle situazione specifiche. Una cosa sono le Russie della guerra civile o delle reciproche guerre rivoluzionarie, altra gli Stati Uniti d’ora. Se nessuno, o pochi e raramente, si decida, nei pur libertari e liberisti USA a guerre partigiane, se non occasionalmente piccoli gruppi, è perché, in genere la comune secessionista (nel senso sociale e mini territoriale, che s’isola dal sistema fiscale e di polizia) viene liquidata dall’FBI o altri e, spesso, senza neppure tante raffinatezze.

Nel Vietnam, la partita tra due opposte entità Statuali venne giocata a questo livello, a livello di terrore capillare, col Sud già rinunciatario, perché senza pretese di conquista del Nord, dunque già con la psicologia del perdente pur con rifornimenti ed appoggi materiali superiori visto il sostegno USA. In Iraq, ora, egualmente, sebbene non vi sia un fronte perdente ed uno vincente, Stati Uniti a parte (escludendo che comunque il petrolio se l’appropriano, anche perdendo) bensì due (tre coi curdi che, salvo rimescolamenti futuri, od occupazioni estere, turche o turco-iraniane, si sono, comunque, già territorialmente separati dagli altri contendenti) che comunque resteranno, in un modo o nell’altro, perché hanno entrambi come retroterra due potenze per ora equivalenti (Iran e Sauditi) e perché ognuna copre una rete di fedeltà etniche. Non che le fedeltà etniche siano necessariamente indistruttibili, ma due ben alimentati (da Iran, e da Sauditi e Siriani) terrori contrapposti che trovino e mantengano ciascuno la sue rete di terrore etnico attivo e contrapposto, sono macchine lanciate alla reciproca distruzione o fino alla separazione territoriale, sempre che un altro potere superiore non riesca a distruggerle entrambe. Certo, possono esistere anche altre varianti. Gli USA e lo “Stato iracheno” che non riescono a creare un loro esercito ed una loro polizia, ma solo delle finzioni che poi svaniscono e che loro, illudendosi, cercano periodicamente di ricreare, indica che ai due (o più) terrori contrapposti (sciita e sunnita, con eventuali sottofiloni) non ri riesce a contrapporre, da parte degli USA, un terrore (“iracheno”) più forte ed autonomo da entrambi che li distrugga. Ecco, che si può avere tutto, sulla carta, delle perfette FFAA (statunitensi) a mille organizzazioni civili con abbondanza di progetti e di mezzi, però non si riesce a creare un proprio terrore contro tutti gli altri e che distrugga tutti gli altri. Il monopolio (“legittimo”, ma è tautologico) della forza è terrore rispetto ad altri che non possono esistere se esso esiste. Il monopolio della forza è terrorismo che si manifesta nelle mille abominie individuali in cui spesso si esplicano i poteri statali, eppure non ne esistono altri, non esistono altri modi per affrontare praticamente la questione, almeno secondo gli schemi correnti fino ad oggi. Se non esistono le abominie (per chi non sappia mantenrsi puro, ma non è cosa per “le masse”) dei poteri statali, esistono le abominie di altri poteri. Non è che l’informatore dello sbirro divenga puro se fa l’informatore del “partito rivoluzionario” o magari di entrambi e pure di qualche terza o quarta parte (mafie, etc.). La realtà è tale. Il monopolio della forza, che è l’obiettivo della COIN, è terrorismo di uno Stato contro altri terrorismi in essere o potenziali, dunque di altre entità di tipo statuale in essere o potenziali. Se v’è una COIN non inventata e non strumentale (ad altri fini), vi sono altri poteri di tipo statuale che insidiano quello la parte della COIN assume come “legittimo” (categoria tautologica, come già detto).o comunque da preservarsi o da crearsi o ricrearsi. La “conquista della popolazione”, il “sostegno popolare”, è vana declamazione se non diviene partecipazione della popolazione al terrorismo contro il nemico, contro la devianza. Se la popolazione non si fa parte combattente terroristica contro “il nemico”, la sovversione, si può pure declamare, nei manuali come (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006), di sostegno popolare, confuso per quello che ti fa il saluto con la mano, ti sorride o ti dà o finge di darti informazioni o partecipa ad elezioni. Tuttavia solo chi ha il sostegno terroristico attivo, rivoluzionario, della popolazione vince. Vince, dunque, chi organizza la popolazione per terrorismo, per milizia rivoluzionaria. Non esiste “il comunista” o “l’islamico radicale” o “il liberale” invincibile. Vince chi si fa milizia terroristica che batte quelle dell’avversario. Ciò in Vietnam l’hanno saputo fare “i comunisti”, nell’Afganistan pro-russo l’hanno saputo fare cellule di pretini o di catechisti islamici. I russi c’hanno provato ad applicare i loro schema solito, ma gli altri l’hanno applicato meglio. I talebani vincono i sovietici usando uno schema “sovietico”, “comunista”, di guerra rivoluzionaria. Ma alla fine gli aggettivi ideologici sono tutte etichette. I libri ideologici o religiosi sono cose ci si mettono su uno scaffale di casa, magari per qualche discendente appassionato. Il singolo ed i singoli che fanno reciproca massa vanno con chi dia loro più possibilità di sopravvivere. Senza la comprensione di questo meccanismo psicologico e senza i mezzi per renderlo operativo, vince “il nemico”. Il modello “comunista” nell’Afganistan pro-russo non ha funzionato, od ha funzionato solo in parte dal lato sovietico, perché erano più “comunisti” (come modello politico-militare) quelli organizzati ed armati dai pachistani con finanziamenti e fornitura di mezzi anglo-americani.

L’incapacità di ragionare in termini di guerra rivoluzionaria rende incapaci gli USA di confrontarsi seriamente all’attività di COIN. Alla guerra rivoluzionaria si può contrapporre solo un’altra guerra rivoluzionaria. Altrimenti, l’abbondanza di armamenti può non bastare quando l’avversario non sia del tutto sprovvisto di risorse materiale e di sostegni.

Contrariamente all’apparenza di tali manuali “tecnici”, il limite di fondo di (COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006) è l’essere troppo poco tecnico e troppo ideologico, anziché combattere con argomenti decisivi proprio le visioni ideologizzato-propagandistiche della realtà, fornendo soluzioni conformi alla realtà anziché ad ideologie politicantiche. L’accademia ha finito per divenire schiava e vittima del proprio asservimento alle propagande di pace e di guerra. I risultati sono lì. La superpotenza militare USA passa di sconfitta in sconfitta seppur il sistema USA possa permetterselo evidentemente, fino ad oggi, visto che è prosperato nonostante le sconfitte.


COUNTERINSURGENCY, Field Manual No. 3-24, Headquarters Department of the Army, Washington, DC, Marine Corps Warfighting Publication, No. 3-33.5, Headquarters Marine Corps Combat Development Command, Department of the Navy Headquarters, United States Marine Corps, Washington, DC, USA, 15 December 2006,
http://usacac.army.mil/cac/repository/materials/coin-fm3-24.pdf
(COUNTERINSURGENCY, 15 December 2006).