23 October 2006

Lettera da Lhasa numero 34. Il Gramsci de “I Sindacati e la Dittatura” (1919), con cenni a Bordiga e Gobetti

Lettera da Lhasa numero 34. Il Gramsci de “I Sindacati e la Dittatura” (1919), con cenni a Bordiga e Gobetti
by Roberto Scaruffi

http://www.marxists.org/italiano/archive/gramsci/19/10-25-sind.htm
Antonio Gramsci 1919
I sindacati e la dittatura
Pubblicato per la prima volta ne "L’Ordine Nuovo", 25 ottobre 1919; Trascritto per Internet da Antonio Maggio - Primo Maggio.
La lotta di classe internazionale è culminata nella vittoria degli operai e contadini di due proletariati internazionali. In Russia e in Ungheria gli operai e i contadini hanno instaurato la dittatura proletaria e tanto in Russia che in Ungheria la dittatura dovette sostenere un’aspra battaglia non solo contro la classe borghese, ma anche contro i sindacati: il conflitto tra la dittatura e i sindacati fu anzi una delle cause della caduta del Soviet ungherese, poiché i sindacati, se mai apertamente tentarono di rovesciare la dittatura, operarono sempre come organismi "disfattisti" della rivoluzione e incessantemente seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli operai e i soldati rossi.
Un esame anche rapido, delle ragioni e delle condizioni di questo conflitto non può non essere utile all’educazione rivoluzionaria delle masse, le quali, se devono convincersi che il sindacato è forse l’organismo proletario più importante della rivoluzione comunista, perché su di esso deve fondarsi la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere, devono anche convincersi della necessità di creare, prima della rivoluzione, le condizioni psicologiche e obiettive nelle quali sia impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari organismi in cui si incarni la lotta della classe proletaria contro il capitalismo.
La lotta di classe ha assunto in tutti i paesi d’Europa e del mondo un carattere nettamente rivoluzionario. La concezione, che è propria della III Internazionale, secondo la quale la lotta di classe deve essere rivolta all’instaurazione della dittatura proletaria, ha il sopravvento sulla ideologia democratica e si diffonde irresistibilmente nelle masse. I Partiti socialisti aderiscono alla III Internazionale o almeno si atteggiano secondo i principi fondamentali elaborati al Congresso di Mosca; i sindacati invece sono rimasti fedeli alla "vera democrazia" e non trascurano nessuna occasione per indurre o costringere gli operai a dichiararsi avversari della dittatura e non attuare manifestazioni di solidarietà con la Russia dei Soviet.
Questo atteggiamento dei sindacati fu rapidamente superato in Russia, poiché allo sviluppo delle organizzazioni di mestiere e d’industria si accompagnò parallelamente e con ritmo più accelerato lo sviluppo dei Consigli d’officina; esso ha invece eroso la base del potere proletario in Ungheria, ha determinato in Germania immani carneficine di operai comunisti e la nascita del fenomeno Noske, ha determinato in Francia il fallimento dello sciopero generale del 20-21 luglio e il consolidarsi del regime di Clemenceau, ha impedito finora ogni intervento diretto degli operai inglesi nella lotta politica e minaccia di scindere profondamente e pericolosamente le forze proletarie in tutti i paesi.
I Partiti Socialisti acquistano sempre più un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista; i sindacati invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista e a diventare organismi meramente nazionali. Ne nasce uno stato di cose insostenibile, una condizione di confusione permanente e di debolezza cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo squilibrio generale della società e favoriscono il pullulare dei fermenti di disgregazione morale e di imbarbarimento.
I sindacati hanno organizzato gli operai secondo i principi della lotta di classe e sono stati essi stessi le prime forme organiche di questa lotta. Gli organizzatori hanno sempre detto che solo la lotta di classe può condurre il proletariato alla sua emancipazione e che l’organizzazione sindacale ha precisamente il fine di sopprimere il profitto individuale e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, poiché essa si propone di eliminare il capitalista (il proprietario privato) dal processo industriale di produzione e di eliminare quindi le classi.
Ma i sindacati non potevano attuare immediatamente questo fine e pertanto essi rivolsero tutta la loro forza al fine immediato di migliorare le condizioni di vita del proletariato, domandando più alti salari, diminuiti orari di lavoro, un corpo di legislazione sociale. I movimenti successero ai movimenti, gli scioperi agli scioperi, la condizione di vita dei lavoratori divenne relativamente migliore. Ma tutti i risultati, tutte le vittorie dell’azione sindacale si fondano sulle basi antiche: il principio della proprietà privata resta intatto e forte, l’ordine della produzione capitalistica e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo restano intatti e anzi si complicano in forme nuove. La giornata di otto ore, l’aumento del salario, i benefici della legislazione sociale non toccano il profitto; gli squilibri che immediatamente l’azione sindacale determina nel saggio del profitto si compongono e trovano una sistemazione nuova nel gioco della libera concorrenza per le nazioni a economia mondiale come l’Inghilterra e la Germania, nel protezionismo per le nazioni a economia limitata come la Francia e l’Italia.
Il capitalismo cioè riversa o sulle masse amorfe nazionali o sulle masse coloniali le accresciute spese generali della produzione industriale. L’azione sindacale si rivela così assolutamente incapace a superare nel suo dominio e con i suoi mezzi, la società capitalista, si rivela incapace a condurre il proletariato alla sua emancipazione, a condurre il proletariato all’attuazione del fine alto e universale che si era inizialmente proposto. Secondo le dottrine sindacaliste, i sindacati avrebbero dovuto servire a educare gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati di industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti a impadronirsi del complesso meccanismo della produzione e degli scambi. I leaders operai dell’industria del cuoio saranno i più capaci a gestire questa industria, e così per l’industria metallurgica, per l’industria del libro, ecc. Illusione colossale.
La scelta dei leaders sindacali non avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza meramente giuridica, burocratica o demagogica. E quanto più le organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità tecnica industriale divenne un non valore ed ebbe il sopravvento la capacità burocratica e commerciale. Si venne così costituendo una vera e propria casta di funzionari e giornalisti sindacali, con una psicologia di corpo assolutamente in contrasto con la psicologia degli operai, la quale ha finito con l’assumere in confronto alla massa operaia la stessa posizione della burocrazia governativa in confronto dello Stato parlamentare: è la burocrazia che regna e governa. La dittatura proletaria vuole sopprimere l’ordine della produzione capitalistica, vuole sopprimere la proprietà privata, perché solo così può essere soppresso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La dittatura proletaria vuole sopprimere la differenza delle classi, vuole sopprimere la lotta delle classi, perché solo così può essere completa l’emancipazione sociale della classe lavoratrice. Per ottenere questo fine il Partito comunista educa il proletariato a organizzare la sua potenza di classe, a servirsi di questa potenza armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere.
Il compito del Partito comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e contadini in classe dominante, controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria, e rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata. Ma quest’azione distruttiva e di controllo deve essere immediatamente accompagnata da un’opera positiva di creazione di produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza politica, la dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi senza la produzione, e tanto meno la dittatura che, attuandosi nelle condizioni di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra esasperata e da mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno anzi di una intensa produzione.
Ed ecco il vasto e magnifico compito che dovrebbe aprirsi all’attività dei sindacati d’industria. Essi appunto dovranno attuare la socializzazione, essi dovranno iniziare un ordine nuovo di produzione, in cui l’impresa sia basata non sulla volontà di lucro del proprietario, ma sull’interesse solidale della comunità sociale che per ogni branca industriale esce dall’indistinto generico e si concreta nel sindacato operaio corrispondente. Nel Soviet ungherese i sindacati si sono astenuti da ogni lavoro creatore. Politicamente i funzionari sindacali suscitarono continui ostacoli alla dittatura, costituendo uno Stato nello Stato, economicamente rimasero inerti: più di una volta le fabbriche dovettero essere socializzate contro la volontà dei sindacati.
Ma i leaders delle organizzazioni ungheresi erano limitati spiritualmente, avevano una psicologia burocratico-riformista, e temevano continuamente di perdere il potere che avevano fino ad allora esercitato sugli operai. Poiché la funzione per cui il sindacato si era sviluppato fino alla dittatura era inerente al predominio della classe borghese, e poiché i funzionari non avevano una capacità tecnica industriale, essi sostenevano l’immaturità della classe proletaria alla gestione diretta della produzione, essi sostenevano la "vera" democrazia, cioè la conservazione della borghesia nelle sue posizioni principali di classe proletaria, essi volevano perpetuare ed esasperare l’era dei concordati, dei contratti di lavoro, della legislazione sociale, per essere in grado di far valere la loro competenza.
Essi volevano che si attendesse la ... rivoluzione internazionale, non potendo comprendere che la rivoluzione internazionale si manifestava appunto in Ungheria con la rivoluzione ungherese, in Russia con la rivoluzione russa, in tutta l’Europa con gli scioperi generali, con i pronunciamenti militari, con le condizioni di vita rese impossibili alla classe lavoratrice dalle conseguenze della guerra.


La visione di Antonio Gramsci (22 gennaio 1891..27 aprile 1937) giovane, eppur già passato attraverso l’esperienza della guerra, è da fumetto. “Due proletariati internazionali” [perché non “nazionali”?!] d’operai e di contadini avrebbero magicamente instaurato il loro potere di classe come conseguenza delle “lotta di classe internazionale” [la guerra?!].

In realtà, le Russie erano nel mezzo d’una sonora sconfitta bellica, cui avevano contribuito, per via della debolezza strutturale interna russa, i socialdemocratici bolscevici che, con l’aiuto della Germania, la potenza contro cui le Russie erano in guerra, dopo un lungo periodo di lavoro disgregatore anti-zarista, avevano fortunosamente preso il potere in nome della fine immediata della guerra e della terra ai contadini. Il potere formale, quasi casuamente conquistato, con un colpo di mano, a guerra ancora in corso, s’era poi consolidato nel corso, e forse grazie a, una lunga guerra civile con intervento anti-bolscevico [almeno ufficialmente; mai crede troppo alle intenzioni dichiarate] occidentale. Le Russie erano così divenute una grande caserma ad economia di guerra. I contadini, a parte qualche periodo d’arricchimento incoraggiato dalla Stato [in po’ come i mille fiori fioriscano e mille scuole contendano maoista, che servì far venire allo scoperto chi doveva poi essere ghigliottinato], avevano visto il peggioramento delle loro già misere condizioni, con carestie e stermini “rivoluzionari”. La gran massa degli operai non aveva avuto miglioramenti. Era tuttavia emersa una casta d’operai e piccolo-borghesi talvolta solo arrivisti, altre volte d’intelligenza più o meno brillante, che aveva rimpiazzato le classi legate alla zarismo, in un clima di terrorismo di Stato tipicamente asiatico e d’industrializzazione forzata dai successi considerevoli sebbene del tutto funzionalizzata alle esigenze d’una economia di guerra con nette prospettive imperialiste. Lo Stato, pur nelle sue mille burocrazie e milioni d’uffici di burocrati e burocratini arroganti e sanguisughe, diveniva onnipotente. Le sue classi alte prosperavano. Il proletariato restava nel servaggio e nella miseria solite. Certo, si vedeva idolatrato, come astrazione, nei manifesti e nelle propagande: il conto della propaganda e dei propagandisti glielo facevano ben pagare.

Per quanto riguarda l’Ungheria, da parte di un forte e florido impero multinazionale, la sua nascita, come Stato autonomo, era stata una delle conseguenze della sconfitta bellica e disgregazione dello stesso. Il 31 ottobre 1918, la vittoria della rivoluzione ungherese portò alla nomina del conte liberale Mihály Károlyi come Primo Ministro. A novembre, in Re abdicò e l’Ungheria divenne una Repubblica. Nel febbraio del 1919, il governo liberale aveva già perduto ogni supporto popolare, anche a seguito del non soddisfacente andamento dell’operazioni militari per fronteggiare le spinte indipendentiste di altre nazionalità (rumeni soprattutto) allora incorporate dello Stato ungherese. Il 21 marzo 1919, anche sotto la pressione delle potenze vincitrici occidentali che pretendevano dall’Ungheria più concessioni territoriali, Károlyi si demise. Sulla base, sia di spinte nazionaliste, che delle solite proclamazioni sociali (più che altro quella della terra ai contadini, perché gli operai lo sanno che avere come padrone “lo Stato” [dietro la frottola di sé stessi che divengono padroni e dittatori] non cambia nulla se non in peggio), il partito comunista, sotto la direzione di Béla Kun (20 febbraio 1886..1937 o 29 agosto 1938 o 30 novembre 1939 [ammazzato in Russia dallo Stato russo]) prese il potere e proclamò la Repubblica Sovietica Ungherese. Dopo alcuni brillanti successi militari in Slovacchia, successivamente, come conseguenza, sia del terrore rosso, a seguito di un tentativo di colpo di Stato, terrore rosso che portò all’esecuzione sommaria di 590 persone, che d’una riforma fondiaria più preoccupata d’espropriare i latifondisti che capace di redistribuire in modo efficiente la terra ai contadini, pure la Repubblica Sovietica perse rapidamente consensi. Con l’Armata Rossa ungherese che, a seguito delle pressioni delle potenze dell’Intesa, evitò il combattimento, il 6 agosto 1919 i rumeni occuparono Budapest. Le Russie Sovietiche non poterono o non vollero portare alcuno soccorso. Già durante la Repubblica Sovietica d’Ungheria, i bianchi avevano creato un loro governo a Szeged, nel sud-est ungherese (nella geopolitica odierna, in prossimità dei confini serbo e rumeno dell’Ungheria), sotto la direzione del conte István Bethlen de Bethlen (8 ottobre 1874..~5 ottobre 1946, assassinato a Mosca dai sovietici) e del già ammiraglio in capo (dell’Impero Austro-Ungarico) Miklós Horthy de Nagybánya (18 giugno 1868..9 febbraio 1957, in Portogallo). Montò il terrore bianco un po’ dappertutto, nel paese, fino a che l’esercito di Miklós Horthy, col consenso rumeno, il 16 novembre marciò su Budapest e prese il potere restaurando progressivamente lo Stato Ungherese e la legalità. I rumeni, lasciando l’Ungheria, si dedicarono al suo saccheggio.

Il giovine Gramsci, invece che concentrarsi sulla storia, si concentra sui pericoli che i sindacati ed il loro dualismo con partito socialista o comunista rappresenterebbero per la “rivoluzione proletaria”: “In Russia e in Ungheria gli operai e i contadini hanno instaurato la dittatura proletaria e tanto in Russia che in Ungheria la dittatura dovette sostenere un’aspra battaglia non solo contro la classe borghese, ma anche contro i sindacati: il conflitto tra la dittatura e i sindacati fu anzi una delle cause della caduta del Soviet ungherese, poiché i sindacati, se mai apertamente tentarono di rovesciare la dittatura, operarono sempre come organismi "disfattisti" della rivoluzione e incessantemente seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli operai e i soldati rossi.” La butta sul dover essere, anziché sull’essere. Che è il modo per non comprendere una realtà si voglia combattere.

Infatti, non ne cava nulla, dalla sua visione fumettistica. Checché ne pensasse lui allora, l’Ungheria, area moderna, seppur di fronte a sconvogimenti e decurtazioni post-bellici, aveva visto un’effimera vittoria dei cosiddetti comunisti. Falliti sul fronte della riforma agraria e pure su quello delle fabbriche, che nazionalizzate non divengono magicamente più produttive, ma anzi lo divengono meno soprattutto se il tessuno di medie e piccole imprese viene paralizzato dalla caccia al padrone da eliminare, avevano rapidamente perso ogni consenso anche senza intervento esterni che hanno reso solo più rapida e meno dolorosa la restaurazione dell’ordine di classe precedente. Diversa la situazione delle semi-asiatiche Russie. Grandi manifatture avevano permesso di fare a meno del “padrone”, rimpiazzato dalle burocrazie zariste (che avevano già confidenza con lo Stato produttore e committente talvolta unico) lasciate del tutto intatte dal potere sovietico. Con popolazioni abituate al servaggio, i bolscevichi, con la violenza spietata, s’erano costruita una base sociale, prima, per reggere sia le ribellioni interne che l’intervento straniero, poi, con la fase dell’industrializzazione forzata, per poter passare al terrore contro contadini da cui pretendevano troppo senza dare nulla, a parte l’iniziale redistribuzione della terra.

Il giovin Gramsci è preso tra un Bordiga [Amadeo Bordiga (13 giugno 1889..23 luglio 1970)] “spiritualista”-educatore attorno a cui si raccoglie, inizialmente, in Italia, il Partito pro-Russo (per Bordiga, il Comintern sarà invece un immaginario partito mondiale di un proletariato mondiale astrazione filosofico-hegeliana, non realtà) ed un soluzione alla russa del movimento operaio di cui lui è parte, a Torino, nell’Italia della riconversione post-bellica e della “vittoria multilata” del debole Stato savoiardo, soluzione alla russa che permetterebbe a lui, locale leader socialista, di divenire uno statista.

Ecco che Gramsci vuole vedere le questioni del dualismo esistente tra sindacati e partiti socialisti dal punto di vista dell’“educazione rivoluzionaria delle masse” [visione bordighiana, ma pure leniniana se concepita come convinzione delle “masse” a sottomettersi e seguire il partito boscevico per permettere ad esso la conquista rivoluzionaria, per colpo di Stato, del potere politico], e si “convince” lui stesso che il sindacato è talmente importante da dover divenire, già prima della rivoluzione, di fatto un partito rivoluzionario più che un sindacato. Le “masse”, “se devono convincersi che il sindacato è forse l’organismo proletario più importante della rivoluzione comunista, perché su di esso deve fondarsi la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere, devono anche convincersi della necessità di creare, prima della rivoluzione, le condizioni psicologiche e obiettive nelle quali sia impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari organismi in cui si incarni la lotta della classe proletaria contro il capitalismo.” In pratica, qui, per Gramsci, il sindacato deve prendere il posto del padrone, sia locale, che nazionale, che globale. Ed ecco che, per magia, tutto funziona alla perfezione e l’operaio diviene materialmente e spiritualmente ricco.

Ma, dice Gramsci, i sindacati reali non capiscono ciò che devono essere, mentre l’avrebbero capito “i Partiti socialisti”: “La lotta di classe ha assunto in tutti i paesi d’Europa e del mondo un carattere nettamente rivoluzionario. La concezione, che è propria della III Internazionale, secondo la quale la lotta di classe deve essere rivolta all’instaurazione della dittatura proletaria, ha il sopravvento sulla ideologia democratica e si diffonde irresistibilmente nelle masse. I Partiti socialisti aderiscono alla III Internazionale o almeno si atteggiano secondo i principi fondamentali elaborati al Congresso di Mosca; i sindacati invece sono rimasti fedeli alla "vera democrazia" e non trascurano nessuna occasione per indurre o costringere gli operai a dichiararsi avversari della dittatura e non attuare manifestazioni di solidarietà con la Russia dei Soviet.

Subito di seguito, Gramsci illumina sulla soluzione: “Questo atteggiamento dei sindacati fu rapidamente superato in Russia, poiché allo sviluppo delle organizzazioni di mestiere e d’industria si accompagnò parallelamente e con ritmo più accelerato lo sviluppo dei Consigli d’officina; esso ha invece eroso la base del potere proletario in Ungheria, ha determinato in Germania immani carneficine di operai comunisti e la nascita del fenomeno Noske, ha determinato in Francia il fallimento dello sciopero generale del 20-21 luglio e il consolidarsi del regime di Clemenceau, ha impedito finora ogni intervento diretto degli operai inglesi nella lotta politica e minaccia di scindere profondamente e pericolosamente le forze proletarie in tutti i paesi.
I Partiti Socialisti acquistano sempre più un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista; i sindacati invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista e a diventare organismi meramente nazionali. Ne nasce uno stato di cose insostenibile, una condizione di confusione permanente e di debolezza cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo squilibrio generale della società e favoriscono il pullulare dei fermenti di disgregazione morale e di imbarbarimento.

La soluzione, sono, per Gramsci, i Consigli Operai. Il sindacato s’evole quindi in “Consigli d’officina”, in Consigli Operai.

I consigli sono, nel concreto d’allora, evoluzione delle Commissioni Interne, con Commissari di Reparto che già a Torino erano stati eletti e si stavano eleggendo nelle maggiori aziende, consigli che, nelle visione dei loro adoratori, dovrebbero progredire di livello in livello fino a quello nazionale. Il movimento dei Consigli dovrebbe avere, suggeriscono, oltre alla base direttamente produttiva, anche una base territoriale, fatta di comitati territoriali, sempre su base di classe, dunque d’operai e di contadini, che in parallelo e mescolati ai consigli di fabbrica si centralizza nazionalmente.

Sull’Ordine Nuovo esistono diverse posizioni, o diverse accentuazioni, ora variamente combinate, anche a seconda del momento. Una normale “confusione” alla russa: tutto va bene purché sotto la direzione del partito rivoluzionario, di “noi” che vogliamo prendere il potere in nome degli operai dei contadini, si rimpiazzi lo Stato, il governo in realtà, oggi esistente. Dico “il governo”, perché poi, nei fatti, si sovietizzano polizia, forze armate, magistrature, così come tutti i funzionari dello Stato, ed a meno che loro non si pongano contro o se ne vadano, con la giustificazione degli “specialisti borghesi e piccolo-borghesi che lavorano “per noi” nessuno ha mai distrutto né rimpiazzato lo “Stato borghese”. Nulla si crea dal nulla. La questione sarebbe il come si crea un nuovo potere. Ma con la frottola della distruzione dello “Stato borghese”, e della creazione ex novo dello “Stato proletario”, la questione è stata in genere evitata, almeno in termini teorici rigorosi. Confuse ed ideoligizzate sono state spesso le discussioni sovietiche e para-sovietiche in tema di diritto pubblico. Nella pratica hanno mantenuto e sovietizzato, maoistizzato, ecc. l’esistente. Cosa che in genere ha significato peggioramento di già malfunzionanti macchine statali, oppure loro rovina dove, prima del “socialismo” imposto per occupazione militare, v’erano macchine statali ben funzionanti.

Si vogliono modelli di State building, si guardi all’esperienza giapponese. Il cosiddetto movimento socialista, o comunista, o proletario, o operaio e contadino, ha solo praticato modelli d’asservimento, di servaggio, eventualmente con forme di terrore, delle burocrazie “borghesi”. Non ha mai praticato la distruzione dello “Stato borghese”, che del resto avrebbe senso solo per rimpiazzare eventuali inefficienze con l’efficienza. Per l’irresponsabilità generalizzata ed il clientelismo, la via più rapida è la “politicizzazione”, la sindacalizzazione, dell’esistente. In tutti i modelli social-burocratici conta la sottomissione formale, non ciò che realmente le organizzazioni statali facciano. Alla corruzione dei vertici politici e del nuovo potere non può che corrispondere la stessa corruzione a tutti i livelli, con forme di schiavizzazione o di servaggio spinto dove sia assolutamente necessario raggiungere dei risultati in qualche specifico settore tecnologico-militare o -poliziesco.

Secondo Gramsci, proprio perché i sindacati si sono dedicati alla lotta di classe, e, tuttavia, la lotta di classe immediata consisteva, alla fine, nelle piccole conquiste quotidiane, ecco che la lotta di classe reale ha sostituito quella immaginaria, l’abolizione dello sfruttamento da ottenersi, magicamente, solo se si riesce ad “eliminare il capitalista (il proprietario privato) dal processo industriale di produzione e di eliminare quindi le classi.

Pur nell’impossiblità [fino al momento in cui Gramsci scrive] dei fini inizialmente dichiarati, il Grande Fine, il paradiso operaio e popolare, i sindacalisti s’erano dati una spiegazione falsa, secondo Gramsci, della loro funzione: “Secondo le dottrine sindacaliste, i sindacati avrebbero dovuto servire a educare gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati di industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti a impadronirsi del complesso meccanismo della produzione e degli scambi. I leaders operai dell’industria del cuoio saranno i più capaci a gestire questa industria, e così per l’industria metallurgica, per l’industria del libro, ecc. Illusione colossale.
La scelta dei leaders sindacali non avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza meramente giuridica, burocratica o demagogica. E quanto più le organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità tecnica industriale divenne un non valore ed ebbe il sopravvento la capacità burocratica e commerciale. Si venne così costituendo una vera e propria casta di funzionari e giornalisti sindacali, con una psicologia di corpo assolutamente in contrasto con la psicologia degli operai, la quale ha finito con l’assumere in confronto alla massa operaia la stessa posizione della burocrazia governativa in confronto dello Stato parlamentare: è la burocrazia che regna e governa. La dittatura proletaria vuole sopprimere l’ordine della produzione capitalistica, vuole sopprimere la proprietà privata, perché solo così può essere soppresso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

A Gramsci, che pur ha l’esperienza della guerra, preceduta e seguita da esperienze dirette nel movimento sindacale e socialista, sfuggono delle leggi sociologiche elementari. Se ci si contrappone frontalmente ad un potere sufficientemente radicato e diffuso, seppur con tutte le debolizze italiche, non si ha alcun seguito. Se ci si dedica al lavoro sindacale, o si fa solo propaganda che solo in contingenze particolari può dare un qualche seguito tuttavia senza vera sintonia con i lavoratori, oppure si finisce per fare i mediatori fra “il padrone” ed “il lavoratore”, con inevitabile triangolazione con lo Stato e la sua legislazione di protezione del lavoro. Il sindacalista, semmai è onesto e non pensa a farsi solo gli affari proprio, deve mediare. Ed anche se è disonesto e corrotto, deve almeno convincere il lavoratore che tutela un qualche suo interesse diretto. Il rivoluzionario fa invece propaganda, che può trovare qualche apparente seguito strumentale, ma che poi si rivela per quello che è, senza alcuna possibilità concreta. Il tutto, sempre che “il rivoluzionario” non sia funzionale a qualche potere che lo usi ed, evenetualmente, ne sia usato. È quello che successe ai bolscevichi: v’era l’interesse tedesco a demolire lo zarismo come v’era l’interesse di burocrazie statali a salvarsi dal collasso bellico dello zarismo. Quelle di Stato e Rivoluzione [il testo di Lenin] sulla distruzione dello “Stato borghese” sono fantasie mai realizzate nelle Russie, neppure con Lenin statista. Forse fu per quello che le relegò in un libretto di vasta diffusione. Del tipo: ecco quello che si dovrebbe fare e non si farà, tanto meno nelle Russie.

Così, nella realtà, s’agita il boscevismo “contro” il padrone, e magari con soddisfazione del padrone stesso, solo per interventi statali di fronte a problemi di riconversione industriale, in un contesto sottosviluppista dove riconversione significa tagli senza prospettive per chi venga estromesso dalle strutture produttive esistenti. La via d’uscita sarebbero politiche sviluppiste. Si chiedono, invece, strumentalmente soluzioni “bolsceviche” di redistribuzione del sottosviluppo solito. Più serio [più produttivo], sia dal punto di vista individuale che sociale, il pensare a sé stessi senza truffare il prossimo con “soluzioni collettive” che spesso non esistono, soliti sussidi che danneggiano tutti a parte.

In effetti, Gramsci pensava a sé, ma dietro la copertura del movimento socialista e delle masse operaie. Le Russie Sovietiche, sia per difesa contingente che per politiche imperialiste, avevano bisogno della crisi dell’occidente. A ciò, alla “crisi dell’occidente”, pensavano già attivamente e ben più produttivamente gli inglesi che lavoravano per guerre più risolutive della prima cosiddetta mondiale prematuramente conclusa. La Terza Internazionale è la longa manus dei servizi di sicurezza, spionaggio e sovversione dello Stato russo. Dallo zarismo al bolscevismo. Rafforzati per nuove avventure, dopo che lo zarismo non aveva saputo vincere una guerra e neppure sopravvivere al malcontento popolare. Che in concreto significava soldi e posti sia per altri russi intraprendenti che per stranieri si ponessero al servizio delle Russie ora ribattezzate Unione Sovietica. Certo, ogni mestiere ha i suoi rischi. Gramsci lo faranno finire in galera i suoi [la concorrenza per il favore russo!], opereranno per tenercerlo più a lungo possibile e l’ammazzeranno pure, visto che di galera lo Stato italico lo fa uscire. Gramsci muore avvelenato, dopo che un’agente russa gli ha preparato la cena.

Alle masse si deve vendere il futuro radioso. Per l’interesse russo, oltre che per sé leaders “rivoluzionari”, si dovevano sottrarre “le masse” ai sindacalisti ed ai riformisti. Di fronte alle crisi economico-produttive, sia volute da centri internazionali che da debolezze interne, si doveva vendere il toccasana rappresentato dal clamore russo: “Il compito del Partito comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e contadini in classe dominante, controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria, e rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata. Ma quest’azione distruttiva e di controllo deve essere immediatamente accompagnata da un’opera positiva di creazione di produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza politica, la dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi senza la produzione, e tanto meno la dittatura che, attuandosi nelle condizioni di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra esasperata e da mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno anzi di una intensa produzione.
Ed ecco il vasto e magnifico compito che dovrebbe aprirsi all’attività dei sindacati d’industria.

Che significa: aiutateci ad eliminare i riformisti dai sindacati perché fatta la rivoluzione “come in Russia”, c’occorrono dei sindacati “rivoluzionari”, cioè collaborazionisti dei nuovi padroni di Stato e dunque sbirrri contro gli operai; o c’appoggiate con le buone o saranno problemi supplementari pure per voi.

Gramsci additava poi il nefasto [per i “comunisti”] esempio ungherese: “Ma i leaders delle organizzazioni ungheresi erano limitati spiritualmente, avevano una psicologia burocratico-riformista, e temevano continuamente di perdere il potere che avevano fino ad allora esercitato sugli operai. Poiché la funzione per cui il sindacato si era sviluppato fino alla dittatura era inerente al predominio della classe borghese, e poiché i funzionari non avevano una capacità tecnica industriale, essi sostenevano l’immaturità della classe proletaria alla gestione diretta della produzione, essi sostenevano la "vera" democrazia, cioè la conservazione della borghesia nelle sue posizioni principali di classe proletaria [proprietaria, forse; non “proletaria”], essi volevano perpetuare ed esasperare l’era dei concordati, dei contratti di lavoro, della legislazione sociale, per essere in grado di far valere la loro competenza.
Essi volevano che si attendesse la ... rivoluzione internazionale, non potendo comprendere che la rivoluzione internazionale si manifestava appunto in Ungheria con la rivoluzione ungherese, in Russia con la rivoluzione russa, in tutta l’Europa con gli scioperi generali, con i pronunciamenti militari, con le condizioni di vita rese impossibili alla classe lavoratrice dalle conseguenze della guerra.

Infatti gli operai restarono coi riformisti, evitando di dare sostegno elettorale e di massa ai pro-russi. Poi divennero fascisti. Più tardi, quando con la guerra, e soprattutto quando la sconfitta fu chiara a tutti, ridivennero socialisti e comunisti. E poi tutti democristiani e socialdemocratici, quando le esigenze del Piano Marshall e le sceneggiate della guerra fredda imposero, alle principali aziende, la caccia agli “agenti russi” in fabbrica. Era la moda, e l’interesse delle “masse”. Meglio “sbagliare” con tutti, che “aver ragione” da soli.

Che Gramsci credesse davvero nei sindacati c’è da dubitarne fortemente. Per cui, lo stesso articolo qui riportato, si basa su una finzione. Per conformismo da movimento socialista e social-comunista, un Gramsci doveva credervi o fingere di credervi. Nei canoni, il cosiddetto “movimento operaio” doveva avere avere delle organizzazioni sindacali, delle organizzazioni politiche ed, invero, pure altre organizzazioni di mutuo soccorso, cooperative ecc. Le ragioni erano banalmente concorrenziali rispetto a quanto già esisteva nel movimento sociale cattolico, o cristiano o yiddish od altri ancora (gli stessi padroni illuminati od alcuni governi più precoci d’altri). In fondo, era uno schema d’organizzazione comunitaria, che si trova un po’ in tutte le classi e categorie sociali ed un po’ in tutti i tempi.

Gramsci si basa sulla finzione che, siccome i sindacati esistevano, e non si potevano semplicemente liquidare, tanto alle liquidazioni verbali o nelle intenzioni non sarebbe poi seguita la loro sparizione od indebolimento sostanziale, allora essi dovessero servire per la “rivoluzione proletaria”. Non potendoli eliminare occorreva farli propri, o spingerli a non frapporsi tra “la rivoluzione” ed i lavoratori.

Gramsci, ed è la ragione dell’Ordine Nuovo da lui di recente [maggio 1919] con altri creato, credeva nei consigli, in slavo soviet. Quando Gramsci, nell’articolo qui riportato, scrive che sui sindacati “deve fondarsi la socializzazione dell’industria”, pensa in realtà ai consigli di fabbrica. Per Gramsci è il consiglio operaio, di fabbrica, d’unità produttiva, che è la cellula della società cosiddetta socialista. A che servano i sindacati se c’è già il consiglio, non lo si capirebbe, se appunto Gramsci non assumesse una realtà che a lui non piace, o non piace più, l’esistenza di sindacati, per cercare di minarla non potendo semplicemente predicarne la liquidazione.

I consigli di fabbrica s’erano andati creando nel dopoguerra e la loro visione era parasindacale, com’è inevitabilmente ogni movimento centrato sull’unità produttiva. I riformisti lavoravano per mantenerli nell’alveo parasindacale. Altri li volevano potenziale contropotere da far poi divenire potere che sostituisse quello padronale e lo Stato che secondo la vulgata era Stato borghese, cioé “dei padroni” (sebbene non sia così meccanico, benché gli Stati abbiano una natura di classe o di blocchi di classi o di frazioni di classe: la realtà non è mai come nelle pure astrazioni hegeliane, né l’astrazione si può applicare alla realtà senza mediazioni che [ri]rendano eventualmente vera). Il consiglio di fabbrica era visto come la possiblità di rimpiazzare il padrone, e di condizionare i manager, o con loro cogestire, creando così le basi per qual socialismo o non capitalismo di cui tanto si parlava ma che nessuno sapeva che potesse essere davvero [la democrazia di borsa è quella che s’avvicina in realtà di più al “socialismo”, mentre la proprietà di Stato apre la via al servaggio ed al neoschiavismo]. Sulla carta è tutto facile. Nella pratica, non si gestisce una unità produttiva o militare con continue assemblee e votazioni. Rimosso “il padrone” o la proprietà individuale [privata] non per questo scompare il capitale ed il capitalismo. Non scompare neppure lo stesso “sfruttamento”, che nel Capitale [Das Kapital] è astrazione scientifica usata per spiegare il senso stesso del lavoro e della riproduzione sia semplice che allargata del processo produttico, senz’essere la categoria morale o moralistica usata nelle vulgate socialiste e comuniste. Si può essere marxiamente “sfruttati” anche con salari da un milione d’euro l’anno: appunto, la categoria marxiana è un’astrazione scientifica per spiegare il senso stesso dell’interazione produttiva, non una stigmatizzazione moralisteggiante. Che il plusvalore vada “allo Stato” od alla “società” non è affatto detto che faccia sparire lo “sfruttamento”. In realtà lo “sfruttamento” sparisce solo quando il plusvalore prodotto va a se stesso/a. Ardui i problemi “contabili” [ed anche metodologici: se ciò che era considerato plusvalore lo si considera retribuzione del lavoro composto manageriale?]. Se poi la produzione, grazie a consigli/soviet universalmente diffusi ed operanti, ed all’assenza di responsabilità individuale, è mal organizzata e declina, si continua ad essere sfruttati e si vive pure peggio che in condizioni di “sfruttamento padronale”. Ciò che può soddisfare la propria invidia [la distruzione dell’altro, “il ricco”] ma va contro il proprio interesse materiale. Ciò che s’è chiamato lotta di classe o odio di classe è spesso solo invidia “di classe”, che mira a sopprimere “il padrone”, “il ricco”, anche se poi si sta tutti i peggio e nuovi ricchi proliferano.

La stessa occupazione delle fabbriche del 31agosto 1920 e per circa un mese, che previene la serrata padronale, e col governo che genialmente evita ogni intervento repressivo, ha ragioni sindacal-rivendicative. Come al solito, i “rivoluzionari”, i “sovietici”, vogliono vedervi la prova che gli operai possono gestire le fabbriche senza padroni. Certo che possono. Se l’unico problema d’un azienda dovesse limitarsi a fare ogni giorno quello che faceva il giorni prima nei secoli dei secoli, qualunque azienda potrebbe andare avanti senz’altri che i lavoratori [managers inclusi] addetti alla produzione ed alla amministrazione corrente. Il “padrone” non ha una vera funzione, in quanto tale, tanto che la borsa valori supplisce ottimamente, negli Stati più svilupppati. Il “capitano d’industria” è del tutto irrilevante sia padrone o salariato, purché faccia il suo mestiere.

Nel 1920, quello che per taluni e per i lavoratori è un banale conflitto sindacale, pur in un contesto difficile perché di trasformazioni produttive in un’area geopolitica e geoeconomica debole, per altri diviene agitazione per la rivoluzione “alla russa”. Quella che è occupazione delle fabbriche come manovra nell’ambito d’uno scontro sindacale, diviene, per altri, gli operai che dovrebbero armarsi e marciare sui palazzi del potere, anche se nessuno poi lo fa davvero, anche perché perché l’occupazione delle fabbriche riguarda il triangolo industriale, mentre i palazzi del potere formale sono a Roma. Nessuno all’epoca, evidentemente, pensava alla secessione, per quel che se ne sa. La marcia su Roma la farà qualche d’un altro, col permesso del Re e dei suoi carabinieri e polizia.

Normale, che un rivoluzionario liberale, per nulla italiotico, alla Piero Gobetti (19 giugno 1901..16 febbraio 1926), già esaltatosi per la rivoluzione russa (il bolscevismo letto come movimento liberale), fosse entusiasta del movimento dei consigli di Torino e del Nord-Italia. È un modo di leggere le cose al di là delle etichette, al di là delle ideologie per le masse. È la visione d’un capitalismo che si liberi di “padroni” gretti e di parastato. Il bolscevismo come purga del capitalismo. Certo più brillante di un Benedetto Croce (25 febbraio 1866..20 novembre 1952), il filosofo delle conservazione, che vede il fascismo come vaccino dal boscevismo: lo diciamo non per ragioni di colore; non ci interessano i colori, pur così essenziali nel mondo dei clienti e dei servi; nell’analisi storica e politologica ciò che reale è razionale ed è sempre “bello” e “buono”; ma perché il bolscevismo lavorò più a fondo (non fu solo un governo ed un appendice dello Stato formale, come fu il cosiddetto fascismo, il socialismo autorizzato dal Re e dai suoi sbirri, di cui le corrotte oligarchie e burocrazie italiche si liberaroro, quando non servi più, facendone caricare dai carabinieri il massimo leader su un’ambulanza) seppur la sua natura di fatto semi-asiatica e la sua funzionalizzazione prima ad esigenze di guerra tedesche, poi al dominio imperiale britannico col suo modello di dominio fondato sul sottosviluppo altrui non potevano non sfuggire al giovanissimo, precocissimo e pure deceduto in ben giovane età Gobetti; nonostante ciò il bolscevismo si integrò con lo Stato zarista divenendone parte, rivitalizzandolo e così facendolo suo o divenendo d’esso (non è qui importante; ogni fenomeno ha sempre aspetti multipli, almeno doppi, in parte dipende dal punto di vista, dall’aspetto si vuole cogliere).

Il “bolscevismo” e l’operaismo di Gobetti fu una triangolazione per prendersela col “capitalismo” di parastato (e pur con Stato burocratico corrotto ed inefficiente) italiota. Al contrario, in Gramsci, la denuncia del patto scellerato (in realtà, un modello sottosviluppista compradoro, che era nei patti londinesi di creazione dello Stato italico) tra borghesia industriale del Nord con assistenza di Stato e le classi parassitarie del Sud fattesi savoiarde, con Sud ridotto a puro mercato di prodotti del Nord e serbatoio di manodopera, si risolve nella proposizione di un modello di piano “operaio e contadino”, la “socializzazione” delle produzione che di fatto esalterebbe solo le burocrazie corrotte ed inefficienti e chi ad esse ruota attorno, con ulteriore pauperizzazione degli stessi produttori. Ah, certo, queste non sono le intenzioni dichiarate. Ma, se uno si butta in un burrone, inutile dica che lo fa per per rimettersi in salute. Una banalità, la visione “storica” di Gramsci, che indica un’incomprensione totale dello spazio italico e della sua storia. In Gobetti, la ricerca intellettuale e le proposizioni pratiche sono fruttuosamente eclettiche, e movimentiste col vantaggio di tenere conto delle forze reali in campo ed in azione.

Alla fine della guerra, la Fiat si trova ad avere fatto un considerevole balzo in avanti. Essa era giunta ad occupare il primo posto in Europa per la produzione di massa di veicoli a motore e poteva essere annoverata tra i più potenti complessi industriali del mondo. La fine della droga bellica provoca su tutto il sistema produttivo italico, come in altri, altrove, crisi ed inflazione. La necessità d’una rapida riconversione dalla produzione bellica a quella civile provocò acute difficoltà tanto più le aziende si erano convertite all’economia di guerra. Ciò, in realtà, in Italia, valeva solo in alcuni casi, forse, talvolta, gonfiati perché l’assistenza statale di fatto delle commesse di guerra continuasse o passasse ad altre forme di sostegno. Un corso militarista sarebbe per esempio stato vantaggioso, sebbene lo Stato compradoro italico non godesse di reale autonomia nelle scelte, soprattutto in questo campo. Altre alternative erano possibili, per uno Stato capace, avesse voluto essere utile all’economia. La Fiat, visto il tipo di produzioni, bastava cambiare solo il colore della vernice in molti casi, non ebbe reali contraccolpi dalla fine dell’economia di guerra all’italica. Si trovò solo con un forte indebitamento. Ciò che non impedì, anzi si disse lo fece proprio perché indebitata, di tentare di scalare, nel 1919, il Credito Italiano. Fu bloccata solo dall’intervento governativo ed obbligata a disfarsi, con ricche plusvalenze, delle azioni rastrellate. Nel movimento dei Consigli di Fabbrica e l’occupazione delle fabbriche, di cui la Fiat fu uno dei centri maggiori, giocavano fattori sistemici, di debolezza statuale, come sindacali, miopia padronale inclusa, sebbene la Fiat avesse sempre guardato con attenzione al riformismo operaio e curato l’integrazione della forza-lavoro. Sebbene la forza lavoro, la sua composizione e comportamento, sia elemento del processo produttivo, sarebbe limitato vedere il fordismo come risposta alla “rivoluzione proletaria”. Il fordismo, l’organizzazione scientifica del lavoro [OSL], era la risposta tecnico-organizzativa alle necessità della produzione di massa. Questo significava pure, a livello soggettivo, la trasformazione o l’espulsione dal processo produttivo della forza lavoro refrattaria a passare da forme artigianali a forme più parcellizzate e macchinizzate del processo produttivo. L’operaio socialista, e poi comunista, è sempre stato nella grande industria del Nord, l’operaio più professionalizzato, mentre l’operaio massa [espressione successiva, non dei tempi cui qui ci riferiamo, a quel che ne sappiamo], era l’operaio appena inurbato o pendolare dalle campagne. “Cattolico” o “autonomo”. L’operaio professionalizzato, l’operaio di mestiere sopravvive fino agli anni ’70. Non a caso, forse, dagli anni ’80, il PCI, da “partito Costituzionale” evolve rapidamente verso qualcos’altro, e si prepara per qualunque avventura con nuovi padroni. Da partito di una cupola di Confidustria ben integrata nello Stato DC-PCI, il PCI diviene il partito d’una cupola di Confindustria che si “fascistizza” e va all’assalto eversivo (con sovversione intra-istituzionale, non con l’assalto di squadrismo esterno) del regime DC-PCI per mettere i suoi agenti diretti nel governo.

La Fiat, nel marzo 1921, annuncia il licenziamento di 1,500 operai a seguito della chiusura di alcuni stabilimenti. Qualcuno parla di licenziamenti di 4,000 operai, nel marzo-aprile del 1921, (http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=206 ; non ho capito se in tutto il Nord, o solo a Torino, o solo alla Fiat) “in buona parte comunisti”. Se uno stabilimento viene chiuso, salvo trasferimenti o riassunzioni, si licenziano tutti: certo, può anche essere fossero “tutti comunisti”, sebbene in Italia si siano scritte così tante frottole di regime per far divenire tutta la storia passata “comunista” [i dati elettorali, sia del PCd’I, che i primi del PCI, pur gonfiato dall’occupazione e dagli aiuti Alleati, non danno un quadro “comunista” quantitativamente così rilevante come sempre dipinto dalla propaganda di guerra e di post-guerra, filmetti e fumetti “storici” inclusi: la storia, dappertutto, è sempre differente dalle fiabe opportune e suadenti che pur si fissano nelle teste come uniche Verità]. Progettato nel 1915 secondo schemi fordisti (sebbene, nonostante le declamazioni, l’introduzione vera del fordismo e con catene di montaggio s’estese nel tempo), nel 1922 apre lo stabilimento del Lingotto, che è nella città di Torino, lungo la linea ferroviaria che porta alla stazione principale, Porta Nuova. Qualcuno ci dice che “nel 1930 al Lingotto l’occupazione era scesa sotto le 8.000 unità” [ http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=206 ]. Per cui il Lingotto, nel 1922-1923 (fu inaugurato nel 1923), o anni immediatamente successivi, assorbe un’occupazione operaia di ben più di 8,000 unità. La stessa occupazione Fiat era passata da 4,000 unità nel 1914 a 40,000 nel 1918 [ http://www.dse.unive.it/storia/sem06.htm ]. Sul Lingotto, una fonte del Comune di Torino ci dice che: “I lavori iniziarono nel 1916; nel 1921 furono ultimate le officine con la pista sul tetto, e dal 1922 iniziò la produzione. Gli operai addetti erano inizialmente circa 20.000.” [ http://www.comune.torino.it/pss03-06/669.pdf ]

Che Gramsci si mascheri dietro la finzione del sindacato che diviene buono e rivoluzionario, oppure che esalti la democrazia dei consigli d’officina, la sua visione è un concetto d’armonia dei produttori da socialismo utopistico. I “produttori” s’esprimono e s’unificano armoniosamente come tali, rimuovendo gli “sfruttatori”, “il padrone”, e tutto viene magicamente risolto secondo criteri d’ottimo sociale che sono naturalmente ed armoniosamente assicurati. Si produce quello che serve. Il lavoratore è felice ed appagato, e diviene benestante. Che poi prezzi concorrenziali ed iniziativa privata siano ben meno costosi e ben più efficienti di un piano che cerchi di soddisfare tutti in media governando tutto dal chiuso di uffici dove ci si deve immaginare i desideri, orientarli, cercare di soddisfarli, e tutto organizzare, oppur lasciare tutto disorganizzato, non sfiora neppure la mente del giovin intellettuale socialista o social-comunista. La pianificazione burocratica di tutta l’economia cozza contro ostacoli pratici. È già sufficientemente complicata quella aziendale che pur procede, più semplicemente, secondo logiche adattive.

Non solo i disastri, ma l’impotenza, dei piani “socialisti” sono ben visibili, come sono visibili invece, in aree non “socialiste”, non a “democrazia popolare”, i successi di piani mirati non alternativi all’iniziativa individuale ed al mercati, né con pretese totalizzanti. Se vuoi trasformare rapidamente Taiwan o la Corea in centri tecnologici avanzati, certo che occorre un qualche piano ed intervento efficiente per permettere di farlo superando inevitabili difficoltà e fallimenti del momento, cosa che non sempre il “capitalista” da solo può od è disposto fare. Ma per tutto il resto, dal tessuto di piccole imprese, ai negozietti o negozioni che proliferano dappetutto, un piano centrale sarebbe solo d’ostruzione e di danno, dunque uno spreco sia per i costi diretti che, ancor più, per i disastri che provoca. Certo, uno Stato che si lanci piani di modernizzazione deve saperlo fare, o volersi mettere in condizione di poterlo fare. Non basta sussisiare la grande industria. Il disastroso esempio italico, dopo le pur considerevole realizzazioni dell’IRI mussoliniana, è lì. Più lo Stato ha finanziato, più ha mantenuto e diffuso sosttosviluppo. Quello che è riuscito in Corea non è riuscito in Brasile. Esistono, nella letteratura economica od economico-politico-sociale, analisi sul perché la Corea abbia saputo per esempio dotarsi d’una industria computeristica avanzata mentre il Brasile non abbia ottenuto risultati comparabili nonostante gli sforzi e le intenzioni. Sono differenze interne, di attitudine a fare e di attitudine a non fare o far male. Un governo ed uno Stato efficiente assicurano l’ordine pubblico e l’ambiente favorevole al lavoro ed alla vita. Se pretendono d’organizzare il lavoro e la vita provocano solo danni, innanzitutto ai lavoratori stessi. Se vogliono fare qualcos’altro devono saperlo fare o volersi rapidamente mettere nelle condizioni per farlo. Riviste d’economia corporativa o brillanti teorizzazioni oxbridgiste sull’economia di piano possono essere affascinanti alla lettura. Nelle pratica non hanno mai funzionato, in tempi moderni o contemporanei.

Non vale neppure l’obiezione che il “socialismo” o “comunismo” di piano fossero cose nuove mai sperimentate prima dell’esperienza sovietica. Non è così. L’esperienza sovietica ripete in peggio, pur con successi considerevoli dal punto di vista dell’industrializzazione pesante militare, la tradizione russa di stato azienda con relativi schiavi o servi. Così come tutte le economie schiavistiche o servili hanno una lunga storia, pur con brillanti realizzazioni, almeno per l’archeologia, non sempre per le masse. Una cosa, sono le realizzazioni egizie nel governo delle acque, e dunque nella produzione agricola, o nella costruzione di città. Non sappiamo se le pur mirabili, oggi, piramidi avessero ricadute sociali o tecnologiche come, ad esempio, tempii, chiese, stadi, anfiteatri, industria militare moderna. L’economia di piano schiavistica o servile non è cosa nuova. Ha una lunga storia ed è stata ed è tuttora dominante in vaste aree del mondo. Si tratta di vedere, come si trattava di vedere ai tempi del giovin Gramsci, sia dopo che prima la prima guerra mondiale, se i “mali” del cosiddetto capitalismo fossero e siano alleviabili e risolvibili con una economia di piano, con una concreta economia di piano, non con una immaginaria in cui si decide quel che il cittadino felice dovrà consumare e poi effettivamente consuma felice e non necessita d’altro. Con la tecnonologia presente non sembra possibile. Tanto meno con la tecnologia d’un secolo fa. Tecnologia future la renderanno magari inutile, anche se fosse teoricamente possibile. Non possiamo comunque saperlo. I “mali del capitalismo” sono altri, così le possibili soluzioni, da quelli inventati dal “movimento socialista” per altri fini, non certo per la “causa del proletariato”. Le Russie volevano restaurarsi coi loro già sperimentati metodi semi-asiatici, anche se magari solo con quelli americani sarebbero davvero divenuti una grande potenza competitiva. La loro pianificazione viene da lì. S’eviti pure di scomodare un Marx senza seguito [lo citava Kautsky, e perché connazionale, per giustificare la prassi riformiste tedesche e poi lo usarono taluni russi di cultura filo-tedesca, come autorità, per differenziarsi da un ben più popolare socialismo populista russo], che nessuno leggeva e tanto meno studiava (se non poi per cavarne citazioni “bibbliche” per le liturgie della nuova Chiesa), in cui non v’è n’è traccia, se non qualche riferimento ipotetico in occasionali scritti politici. Uno dei bracci dell’imperialismo ed espansionismo russo-sovetico era la Terza Internazionale [Comintern], il cosiddetto “movimento comunista”, “movimento comunista” che doveva vendere, nel campo dell’immaginario popolare, quel che aveva: il paradiso “sovietico” del piano operaio e contadino.

I più furbi ed i più capaci di farsi notare divennero funzionari a pagamento dell’imperialismo sovietico, a cominciare da Gramsci, il cui dissenso col datore di lavoro coinciderà con l’arresto “fascista” proprio mentre andava ad incontrare un funzionario del suo datore di lavoro, il Comintern. Comintern che di fatto lo espellerà, isolandolo dagli altri prigionieri “comunisti” (quando dal semplice confino passerà alla galera), diffamandolo internazionalmente (ma col metodo del passaparola; pubblicamente resterà il “grande capo”, sì da poterlo accusare pubblicamente di tradimento se lui avesse mai pubblicizzato la rottura di fatto avvenuta) e lo terrà sotto controllo stretto in cambio d’un conto illimitato per libri e riviste (Sraffa certo non incontrava né assisteva Gramsci, né coordinava lo spionaggio ed altro contro di lui, per amicizia personale, visto che riferiva tutto a Togliatti ed al centro di Parigi); poi, guarda caso, Gramsci cadrà avvelenato il giorno stesso in cui, dopo anni di libertà condizionale, avrà ricevuto la comunicazione di libertà totale e giusto mangiato una cenetta appena preparata da un’agente dell’Ambasciata Sovietica di Roma che tra la notizia della libertà totale (da lei comunicata a Gramsci la mattina) e la preparazione delle cenetta era andata all’Ambasciata Sovietica, o chi per essa, a chiedere “istruzioni”. Veleno. Vomito e paralisi. Agonia. Decesso. Cremazione per cui s’era ossessivamente spesa la stessa agente sovietica aveva lui preparato la cenetta fatidica che conduce alla lunga agonia da avvelenamento. È tutto innocentemente scritto: le conseguenze e l’ambientazione, non ciò che avesse messo, magari innocentemente ed amorevolmente [le vie del condizionamento sono innumerevoli] nella minestrina o in altre parti dalla semplice cena. Mai usare la fantasia per cose così delicate. Basti leggere e rileggere quel poco cui si può accedere sul fatto e sui fatti. E su quello, sui fatti e circostanze del decesso si sono gettate coltri di menzogne. Nessuna ricerca, nessuno studio, nessun convegno. Solo menzogne, per far credere altro, che un banale vomito da cenetta, paralisi parziale da vomito-veleno non da altro, agonia e decesso da parte d’un ricoverato in discrete condizioni di salute. Tanto che aveva predisposto tutto per l’espatrio [vedere perché e come si disfa dei suoi preziosi Quaderni d’appunti per poi farseli spedire dove voleva andare: Parigi; avesse voluto metterli al sicuro “per la storia”, bastava mandarli a Mussolini!]. Al contrario, la menzognera “storiografia” picciista l’ha sempre descritto come da anni moribondo ed in carcere.

Amadeo Bordiga, il fondatore del PCd’I, a Livorno, al congresso socialista del 1921, quello della scissione del PSI e della nascita del PCd’I, interverrà, naturalmente, su queste tematiche sindacal-consiliari che erano il pane della politica del tempo, vista l’influenza dell’esperienza sia russa che italica. [Intervento di Bordiga al congresso socialista a Livorno 1921, Articolo per Ordine Nuovo del 20 gennaio 1921, trascritto dai compagni del Partito Comunista Internazionalista (Battaglia Comunista) [ http://www.internazionalisti.org/ ], edizione elettronica di riferimento, riveduta e corretta: http://www.marxists.org/italiano/bordiga/1921/1/20-inter.htm , http://www.classicitaliani.it/storia_materiali/bordiga_Livorno_1921.htm ]

Solite visione fumettistiche sullo Stato “borghese” russo spezzato per crearne uno nuovo: “La prova, anzi l’esempio concreto della realtà di questo sviluppo storico ce l’ha dato la rivoluzione russa. Essa ha iniziato l’effettiva liquidazione della guerra e mostrato che il proletariato non può sostituire se stesso alla borghesia se non spezzando tutte le istituzioni che la borghesia ha creato per il suo governo.” Alla fine, con la scusa degli “specialisti borghesi” utili al proletariato, nelle Russie si terranno non solo i veri specialisti, ma pure burocrati inetti e corrotti che creeranno il regime d’anarchia burocratica che collasserà l’Unione Sovietica negli anni ’80, dopo averla fatta vivacchiare certo come vasto impero e con molte realizzazioni da classifiche dei primati ma con vita grama per le vaste masse del nuovo servaggio della grossa caserma “sovietica”.

Artificiosa, ed egualmente fumettistica, in Bordiga, fondata sulla confusione tra parole e realtà, la contrappozione “riformisti”-“rivoluzionari”: “La contraddizione dei principi costringe la socialdemocrazia a fallire anche in pratica. Ovunque essa è andata al potere, in Ucraina, in Georgia, in Germania, e non solo parzialmente, ma ereditando tutto il potere dallo Stato borghese, è stata obbligata a ricorrere alla violenza e alla dittatura. Ma mentre la dittatura e il terrore in Russia sono stati applicati contro la borghesia, nei paesi socialdemocratici la dittatura e il terrore vengono applicati contro il proletariato.” Si danno etichette alle cose. Poi si dice che la realtà s’è conformata alla “teoria” ed al dover essere.

Ed ecco che in nome della “teoria”, del dover essere, e delle etichette di comodo opportunamente distribuite, i “rivoluzionari” sono saltati sul carro della rivoluzione russa per farne poi i loro usi interni e per riscrivere la storia. “Anche fra noi - egli dice - il dibattito e la lotta tra la sinistra marxista e il riformismo, produssero contrasti. Tra il 1900 e il 1914 la sinistra ebbe il sopravvento nella organizzazione politica, ma le mancò il tempo di sviluppare effettivamente la sua azione, soprattutto nei sindacati e nel campo della politica parlamentare e amministrativa. Il nostro Partito entrò nel periodo della guerra col suo vecchio meccanismo colla sua antica struttura, lasciando i capi parlamentari e sindacali riformisti ai loro posti. Quindi la stessa opposizione alla guerra non ebbe un carattere esclusivamente rivoluzionario e di classe, fu determinato da motivi di vario genere: sentimentali, umanitari, utilitari e così via.” Vi saranno state delle ragioni se i “grandi rivoluzionari”, che pur sembravano prevalere nel PSI d’allora, Mussolini era uno di loro, si sono poi accorti che non avevano agito secondo i canoni rivoluzionari, ma se ne sono accorti solo dopo la guerra, e pure chi, come Bordiga, se n’era accorto da sempre, non aveva tuttavia potuto far nulla. Come vi saranno state delle ragioni se, invece, i bolscevichi russi, non senza aiuto dei soldi e dei servizi di sicurezza tedeschi, avevano saputo sfasciare le Russie e poi, con un colpo di mano, prendere il potere formale, e, con armamenti certo non venuti dal nulla, battere i bianchi inteni e l’aiuto esterno ad essi fu dato. Anche in Italia, i soldi esteri erano affluiti, ma francesi, cioé inglesi in pratica, al socialista rivoluzionario Mussolini, perché l’Italia entrasse in guerra. I tedeschi avevano finanziato la rivoluzione bolscevica. I francesi il mussolinismo rivoluzionario interventista per soccorrere la monarchia obbligata a Londra ad intervenire in guerra al fianco loro ma in minoranza nel parlamento e nel paese, oltre che, come al solito, con esercito ed economia impreparate a combattere. Cose che all’epoca tutti sapevano. Tuttavia, eleganti, i “rivoluzionari” parlavano di massimi sistemi invece che di banali realtà storiche.

L’“insegnamento” strumentalmente assunto da Bordiga dalle Russie è la centralità del partito, rispetto ad ogni altra organizzazione operaia: “I socialdemocratici e gli unitari ci oppongono che gli organismi economici e politici attualmente posseduti dal Partito sono i migliori strumenti per la conquista del potere politico. Ma ciò è erroneo. Essi parlano in questo modo dei Comuni delle provincie e Cooperative come di fortilizi utili alla causa della rivoluzione. Questo concetto è errato. Questi organismi sono strumenti di conquista solo in quanto sono nelle mani di un Partito che si sappia servire di essi per poter abbattere il potere della borghesia. Se questa condizione non si avvera, questi sforzi diventano nuove catene per il proletariato. Ed è questa un’altra ragione perché da un partito rivoluzionario si deve escludere la parte socialdemocratica.

Gramsci guarda ai consigli di fabbrica, secondo lui ed altri il contropotere vivente e che già prefigura la società futura. Bordiga guarda al Partito che solo può evitare l’immiserimento sindacalista o fabbrichista. Nessuna delle due componenti del poi PCd’I ha però organizzato i drappelli per prendere i palazzi del potere e proclamare la Repubblica Sovietica d’Italia. Il movimento dei consigli di fabbrica, soprattutto chi ne dava un’interpretazione rivoluzionaria, accuserà i socialisti d’averli isolati nazionalmente. Invero, l’occupazione delle fabbriche riguarderà il triangolo industriale che non era certo tutta l’Italia, ma ne era sempre il cuore produttivo. Bordiga, cosciente, che senza “crollo” dello “Stato borghese” nessuno può dare il colpo per metter sé al governo, si limiterà a constatare che il partito rivoluzionario non esisteva e doveva essere dunque costruito. Di lì la scissione che era all’ordine del giorno di quel congresso del PSI, scissione russo-sovietica non certo davvero rivoluzionaria. Infatti, Bordiga, pur stragrandemente maggioritario nel PCd’I da lui creato, verrà rapidamente commissariato dal Comintern che pagherà i suoi funzionari italici e con loro e di brogli metterà poi formalmente in minoranza Bordiga per avere così il suo partitino satellite di avventurieri che tutto dovevano a Mosca. Il PCI sarà partito di massa [*] grazie al sostegno Alleato [**], non certo per quel PCd’I creato da Bordiga nel ’21 e sopravvissuto, con Togliatti, come banda di mercenari dei servizi di sicurezza sovietici che li usavano per le loro operazioni estere.

Le visioni riformistico-fabbrichiste di Gramsci, con la nuova società che nasce dalle unità produttive e rimpiazza la vecchia, e quelle rivoluzionario-sovietiche [di soviet territoriali, politici, sotto controllo di un mitico Partito di puri fanatici] di Bordiga, col suo Partito che educa e sottomette avanguardie e masse, si risolveranno, nella realtà, nella divisione tra i disposti a mettersi al servizio di Mosca in cambio di stipendi ed altro e coloro che resteranno fuori dal mercato degli agenti di Mosca. Già bordighiani, non tutti [infatti Togliatti, ex-bordighiano, non farà ammazzare pure Bordiga sia perché costui è fuori dal mercato politico “Alleato” ma anche perché temeva che qualcuno dei suoi “fanatici seguaci” non avrebbe lasciato impunito il delitto], diverranno “gramsciani” dunque agenti moscoviti. I gramsciano-togliattiani non discuteranno il “soviettismo” reale e faranno gli scondizolatori ligi di Mosca, salvo ritorsioni ed esecuzioni se cercheranno d’abbandonare la Chiesa moscovita e non si sottometteranno ad altre più potenti. I bordighiani resteranno legati al loro soviettismo e rivoluzionarismo mitizzato e mitico.

Per Bordiga, avversario d’ogni visione democratica, il soviet è importante solo se sotto la direzione del partito, partito di cui ha una concezione metafisico-religiosa, il partito come strumento della Storia, il braccio secolare dello Spirito Santo. Il Partito è lui Bordiga e chi è d’accordo con lui [***], oppure lui Bordiga ed apostoli di fede lavorano per preservare questo immaginario partito puro per quando la storia reale sarà pronta a comprenderlo e dar esso il posto di direzione assoluta ed indiscutibile che ad esso spetta. La clausura come purificazione di sé ed espiazione per chi non capisce, in attesa che il Cielo ristabilisca ognuno nel proprio ruolo, il Partito come direzione assoluta e fanatica ed i proletari come massa di manovra obbediente perché altrimenti non è proletariato vero, non è pronto. È semmai proletariato in sé, ma non per sé. Un’immaginaria traversata nel deserto mentre invero attorno tutto è in grande movimento e non v’è alcun deserto, ed il Paradiso quando il deserto sarà finito. L’“invarianza del marxismo” come Bibbia formato mega-enciclopedia oppure immaginata per chi non avesse neppure qualche confidenza con qualcuno dei volumi della mega-Bibbia, di cui comunque importante è l’intepretazione, che è data dal Partito, Bordiga e correligionari. Se “il marxismo” è “invariante” non occorre la democrazia, che comunque è vero non risolva problemi teorici e, talvolta neppure pratici. Ma neppure la non-democrazia risolve alcun problema. Resta, inoltre, la questione di come si faccia a sapere che chi si dichiara il Vate assoluto di quell’invarianza del marxismo con cui sola si può [secondo questa scuola di pensiero] creare il partito, educare il proletariato ed instaurare la sua dittatura, lo sia davvero. La Fede non necessita di dimostrazioni. Uno è stato a Mosca. S’è scontrato con Lenin e con Stalin. Sa. Studia. S’appassiona. Ecco che deve essere Il Messia.

È Bordiga stesso a dire esplicitamente cosa sia per lui il “socialismo moderno”, la “sua forma teoretica”: “[...] non è un sistema di opinioni in materia puramente politica o anche economico sociale, ma una concezione integrale del mondo in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue parti.” [Amadeo Bordiga, Critica alla filosofia. Escursione con il metodo di Marx intorno alla teoria borghese della conoscenza e alla non-scienza d'oggi, I. APPUNTI EPISTEMOLOGICI (1926-27),
www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ] Di questa casta monastica bordighiana prima sono “finiti” i singoli militanti, poi è finita pure quella finzione di Partito. Non che altri “partiti comunisti” o “partiti comunisti rivoluzionari” abbiano dato migliore prova si sé... Ci limitiamo solo a constatare un fatto. Questi si sono estinti. Certo, di questo filone, altre sigle sono apparse o precedenti eresie si sono, almeno come nome, perpetuate. Altri [i togliattiani e post togliattiani o simili, ed altre derivazioni della Casa moscovita stalinizzata, inclusi gli stalinisti “critici” trotskysti e simili] anguilleggiano tra panfili, salotti, presidenze nello “Stato borghese”, posti in parlamenti od altrove, o fanno i fessi “di base”.

La scuola bordighiana d’oggi, o qualcuno d’essa, dà questa classificazione teorica di Gramsci: “Sul piano dell'epistemologia Gramsci faceva parte di quella corrente variamente definita – neokantismo, pragmatismo, vitalismo, neo-positivismo, esistenzialismo, ecc. – che Lenin, anticipando successivi invarianti, criticò in quanto empiriocriticismo. Oggi la corrente sopravvive come nuova forma di vitalismo, negando la possibilità di trattare i dati sociali con gli stessi criteri con cui si trattano i fenomeni della natura. Con il ritorno a tali vecchie dicotomie si nega quindi la possibilità stessa di conoscere, di avvicinarsi alla realtà oggettiva, di prevedere gli eventi, insomma di far scienza unitaria fra società e natura, che sarebbero mondi separati.”
[ www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ]
Sia esatta o meno questa definizione, la fretta dell’adesione alla bibbia-enciclopedia del già tutto scritto nei libri del “marxismo inavariante” fa dimenticare che Lenin [Vladimir Il'ič Ul'janov, 22 aprile 1870..21 gennaio 1924)], più preoccupato di catechistica politica che di questioni metodologiche, in Materialismo ed Empiriocriticismo (1909) lancia certo vecchio materialismo francofono contro nuove correnti di pensiero contro cui lui voleva polemizzare. Che quello usato da Lenin fosse marxianesimo o epistemologia scientifica è del tutto improbabile. Le politicanterie non si conciliano per nulla con la ricerca scientifica. Lenin stava solo conducendo una lotta di frazione all’interno del bolscevismo: infatti, nel giugno 1909, Alexander Bogdanov (22 agosto [vecchio calendario russo] 1873..7 aprile 1928), un medico dai molteplici interessi, “colpevole” di apertura a correnti empiristiche del tempo (nel 1904-1906, aveva pubblicato i suoi tre volumi di Empiriomonismo), contro cui era stato scritto Materialismo ed Empiriocriticismo, sarà escuso dal CC bolscevico e espulso dalla stessa frazione bolscevica. In realtà faceva ombra a Lenin, cui stava contendendo la direzione delle frazione bolscevica.

La stessa definizione di realtà oggettiva non è risolvibile in formule e dipende dalla strumentazione usata e dalla possibilità d’usarla: affermata l’esistenza d’una realtà oggettiva, non s’è risolto come afferrala e che uso farne. Quanto alla fede, che è quello interessava affermare al Lenin vate della sua Chiesa, essa non necessita di razionalizzazioni. S’esiste, tanto più essa sia potente è certo espressione di forze materiali potenti. Ch’essa sia d’avanguardia, progressista [nel senso di progresso, non di buonismi sinistristi], rivoluzionaria [nel senso di trasformazioni modernizzatrici, non le solite rivoltate che cambiano il colore per riproporre, magari in peggio il solito] non è affatto detto. La fede bolscevica è lì, sotto forma di storia d’idee e d’eventi per chiunque la voglia analizzare in modo materialistico, non col solito idealismo che fa dipendere dalle conclusioni desiderate l’“analisi” svolta.

Nel 1926-27, Gramsci (a Ustica dal 7 dicembre 1926 al 20 gennaio 1927) e Bordiga erano assieme al confino ad Ustica. La solita fonte bordighiana appena citata c’informa d’una conversione di Gramsci:
“L'approccio alla teoria della conoscenza non era un modo per risolvere una discussione occasionale fra due dirigenti di partito, ma uno dei cardini su cui si stava giocando nientemeno che il futuro della rivoluzione e che a Lione aveva solo trovato un’occasione per diventare esplicito. Racconta lo stesso Bordiga:
““Dichiarai che non si è in diritto di dichiararsi marxisti, e nemmeno materialisti storici, solo perché si accettano come bagaglio di partito tesi di dettaglio, riferite vuoi all'azione sindacale, vuoi alla tattica parlamentare, vuoi a questioni di razza, di religione, di cultura; ma si è sotto la stessa bandiera politica solo quando si crede in una stessa concezione dell'Universo, della Storia e del compito dell'Uomo in essa. Sono certo di ben ricordare che Antonio mi rispose dandomi ragione sulla fondamentale conclusione da me così enunciata, ed ammise anzi che aveva allora scorto per la prima volta quella importante verità”.”
[ www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ]
Un Gramsci che, almeno per un momento, sarebbe trasceso dalla politica alla fede totalizzante bordighiana. Tuttavia, mentre Bordiga si dedicherà al suo partito scuola di fede totalizzante in tempi avversi e senza Stati e forze lo sostenessero, Gramsci ritornerà alla finzione di dirigente del PCd’I, pur di fatto espulso e mortalmente combattuto dalla Chiesa moscovita che lo considerava cosa sua da eliminare in modo ben più radicale che una banale detenzione temporanea in Italia.

E meno male che gli stessi ambienti scrivono: “Marx afferma infatti che può essere felice solo chi non inganna sé stesso; chi non assume posizioni basate su verità astratte e staccate dalla realtà; chi non ubbidisce all'attimo fuggente ma ad idee ben radicate. Sarà per contro "annientato" chi, avendo abbracciato idee dimostratesi false alla luce dell'esperienza, non vedrà salvezza che nell'illusione e nell'autoinganno. Tutto ciò è certo detto en passant, senza consapevolezza completa, ma, come vedremo, sarà il motivo dominante del primo capitolo dell'Ideologia tedesca: "Ogni profondo problema filosofico si risolve con la massima semplicità in un fatto empirico". La filosofia, come la religione, non è altro che il rifugio, la via di fuga nell'illusorio, un surrogato ideale della realtà su cui si può opinare.
[ www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ]

Appunto, dopo tante ideologie, che non sono né metodologie scientifiche per dinamiche sociali, né teorie e pratiche rivoluzionarie, basterebbe vedere le cose come sono nella loro materialità. Tolti colori, stendardi, inni, opuscoletti, libri e libroni, qual’è la differenza tra il sistema sovietico, fin dagli inizi, ed il solito servaggio russo, e tra il sistema maocinese ed il solito schiavismo cinese e cinesoide? Le differenze esistono nella accentuazione burocratica, conseguenza della “proletarizzazione” delle burocrazie, non nell’essenza di fondo: ad una differenza di composizione sociale interna d’una casta di regime non corrisponde un’alterazione dei meccanismi di base del sistema stesso. La struttura si dota d’una sovrastruttura e d’una infrastruttura corretta, eventualmente in peggio [dal punto di vista dell’efficienza sistemica]. Eppur Bordiga ed epigoni s’erano trovati una Russia Sovietica mitizzata, eventualmente solo nei suoi inizi, e se l’erano gelosamente conservata nei decenni. In effetti una fede è protetta da qualunque analisi critica. Tutto nella fede. Nulla contro la fede. Il “marxismo” diviene cosa da conclamare, non un metodo materialistico d’analisi di tutto, “marxismo” stesso incluso.


[*] Un po’ più piccolo del PSI alle prime elezioni, ma con ben più soldi e strutture.

[*] Così come, quando i russi erano amici dell’Italia di Mussolini, i togliattiani cooperavano variamente con la polizia “fascista”. “Caso Silone” a parte, troppo complesso per parlarne qui, ed altri episodi d’antifascismo in cui il PCd’I togliattiano era sempre contro gli antifascisti (vedi GL), di certo i togliattiani facevano eco alle calunnie messe in circolazione dal fascismo, o ne erano addirittura il tramite:
http://perso.orange.fr/italian.left/Comunism/Comuni40.htm . I togliattiani, sotto la copertura dei servizi di sicurezza sovietici, giravano l’Europa senza problemi. Ed, in Russia, i servizi sovietici eliminavano senza problemi i comunisti italiani “dissenzienti” [non sufficientemente servili] lì rifugiati. Ai buoni rapporti tra Unione Sovietica ed Italia “fascista” corrispondeva l’impunità di chi Mosca volesse proteggere e la non ingerenza “fascista” in faccende di liquidazioni volute dai sovietici. Vi sono pure storie di “comunisti” fatti cadere, cioé denunciati dai togliattiani alla polizia italiana che li arresta e li ammazza perché non trapeli la fonte della spiata. Di mezzo vi sono sempre togliattiani di grande fedeltà al boss e di sicura carriera. Anche nella liquidazione di Gramsci, lo Stato italiano non si preoccupa di fare serie indagini (uno in discrete condizioni di salute muore dopo due giorni di vomito dopo aver mangiato cibo preparato da un’agente sovietica nota alla polizia italiana, e neppure gli fanno una banale autopsia; anzi danno l’autorizzazione alla cremazione pressantemente richiesta dalla cittadina ed agente sovietica che gli ha preparato la minestirna fatale!). Lo stesso Togliatti era divenuto cittadino sovietico. Devono, poi, aver fatto carte false, per farlo ridivenire italiano, quandi sovietici ed alleati lo mandano in missione in Italia come garante, di parte sovietica, degli accordi spartitori tra Mosca e los ingleses.

[***] Lui che si finge testa collettiva o molteplice: “In questo momento io non lavoro con la mia testa, lavoro con la testa di Marx, con quella degli altri due morti, con tutte le teste di voialtri vivi che state in questa stanza e di tanti altri. Una volta che abbiamo acquisito un indubbio punto di vantaggio – quello di liberarci dal soggetto singolo –, il mondo che osserviamo non è più esterno, ne facciamo parte, è pieno di altri uomini che pensano come noi, è pieno di altre teste in relazione tra loro.” [Amadeo Bordiga, Critica alla filosofia. Escursione con il metodo di Marx intorno alla teoria borghese della conoscenza e alla non-scienza d'oggi, III. DAL MITO ORIGINARIO ALLA SCIENZA UNIFICATA DEL DOMANI,
www.quinterna.org/rivista/16/Rivista%2015-16%20completa.pdf ]