04 October 2006

Lettera da Lhasa numero 29. Oligarchia predatoria

Lettera da Lhasa numero 29. Oligarchia predatoria
by Roberto Scaruffi

Lo stretto significato etimologico di oligarchia è supremazia di pochi. Lo useremo in quest’accezione. Su questioni “pubbliche”, “di Stato”, basti applicare la definizione a quest’ordine di questioni. Ad oligarchia, in genere, si attribuisce il significato implicito di oligarchia predatoria, che è poi il significato corrente, dispregiativo, della parola. In genere, dal contesto si capisce se invece si intenda, come talvolta succede [per la storia del Giappone, in genere], per oligarchia, classe dirigente, od un gruppo ristretto di essa, con accezioni positive o comunque neutre.

All’opposto di oligarchie predatorie esistono infatti oligarchie modernizzatrici. Fu il caso dell’oligarchia modernizzatrice protagonista della cosiddetta restaurazione Meiji [明治維新] del 1867/68 in Giappone, che coniugò democratizzazione [*] e sviluppo accelerato secondo, di fatto, un modello all’inglese. Le similitudini, non puramente formali, sono molte. Le istituzioni formali erano invece di mutuazione euro-continentale. Ma il modello reale era inglese.

Non è il caso dell’oligarchia predatorio-compradora italica, ed altre, più simile a quella dell’Impero di Corea incapace di modernizzarsi ed alla fine dissolto con la colonizzazione diretta giapponese dal 1906 [che segue l’occupazione del 1905 e che dal 1910 diviene annessione al Giappone], che realizzerà la modernizzazione la Corea non riusciva a realizzare o non voleva realizzare. Tuttavia, trovandosi l’Italia ai margini di aree di persistente forte sviluppo, di cui un tempo, molto tempo fa, fu centro, ne ha sostanziose rendite di posizione che ne mascherano, un po’, la realtà e la natura, sebbene la cronica inettitudine del Regno, poi Repubblica, d’Italia ed il controllo estero di centri chiave dell’economia e dello Stato italici siano sempre più evidenti. Quando non si domina, s’è dominati. Se s’è dominati, s’è decadenti. Se il dominio subito aumenta, la decadenza è aumentata.

Se si vogliono cercare oligarchie modernizzatrici si guardi agli Stati sviluppisti [developmental States], a cominciare dal britannico. In nessuno d’essi si hanno modernizzazione e sviluppo accelerati per prodigi magici derivanti da in astratto parlamentarismo “democratico”. Parlamentarismo e democrazia formale hanno storicamente altre funzioni (di consenso e di controllo della “Corona”, da parte dei contribuenti) che s’accompagnano a modernizzazione e sviluppo accelerato pur non essendone la causa prima.

D’altro canto sia il giacobinismo francese, che se sue derivazioni nazi-fascio-comuniste, non sono una soluzione del problema della modernizzazione e dello sviluppo, ma risposte deboli e non risolutive a problemi lo Stato e le sue classi dirigenti non hanno la forza, competenza, maturità, per affrontare con strumenti ordinari ed ottimali. Le varie varianti del giacobinismo francese, che sono “autoritarie” e “fasciste” secondo le vulgate correnti, nazicomuniste dato che coprono sia soluzioni supposte destre che supposte sinistre, sono sia indice di patologie di cui non sono la cura, che esse stesse patologie che prolungano all’infinito situazioni d’immaturità. Lo spazio francofono ne è un ottimo esempio, nella pluralità delle sue varie componenti. Ma questi modelli nefasti hanno impazzato un po’ dappertutto, nel mondo.

Los ingleses, per ragioni di preservazione del loro monopolio, della loro egemonia, hanno sempre avuto interesse a “vendere” al mondo non la loro versione di Stato ed economia ma una loro finta versione. Il “modello” francese è sempre Stato ottimo, dalla Francia, alle Russie, alle Cine, all’Italia, per mantenere l’egemonia planetaria inglés. È infatti un modello di Stato, di società, di economia inferiore al modello inglés vero.

La differenza, dal punto di vista dell’oligarchia, è che nello schema inglés si ritrova una classe dirigente con una qualche sintesi unitaria, mentre, nello schema franco-giacobino, prevale piuttosto la frammentazione che, pur quando trova sintesi, le trova deboli perché al prezzo di eccessive contrattazioni e compromessi equivoci. Lo schema inglés è aristocratico, pur non chiuso né mummificato. Quello nazicomunista francese é soviettistico-consiliare. Aristocrazia democratica versus populismo democraticistico di aristocrazie mummificate, o che tendono alla rapida mummificazione quando di nuova creazione (vedi il caso delle rivoluzioni “proletarie” o “fasciste” e loro rapide involuzioni).

Si potrebbe opinare che in Italia, invero come in un po’ tutti gli Stati oligarchici predatorio-compradori, esiste il potere di troppi, senz’essere potere di tutti, senz’essere reale democrazia, e che dunque non è vera oligarchia predatoria. Sono aspetti concettualmente differenti e tuttavia invitabilmente combinati nella realtà. Lo schema predatorio rappresenta un modello di dominio debole, dunque con proliferazione di centri di potere incontrollabili ed incontrollati.

Dove esiste un’oligarchia modernizzatrice, dunque una vera classe dirigente nazionale, che persegue sia i propri interessi che quelli collettivi, essa assicura la cornice di legalità e sicurezza entro cui la competizione dei singoli si può dispiegare. Si scavi nel modello inglés e ci si chieda come nel concreto funzionano i suoi vari aspetti e la sua classe dirigente.

L’altra faccia delle oligarchie predatorie è invece una gestione inefficiente, inefficace e pasticciata dello Stato, proprio perché la predazione immediata, e l’autoperpetuazione di chi la pratica, prevale su tutto il resto. L’arraffo sostituisce lo sfruttamento scientificamente organizzato delle risorse. Di conseguenza, l’altra faccia del potere oligarchico è uno Stato largamente incontrollabile perché privatizzato/feudalizzato da burocrati corrotti ed altri profittatori, cui fa da complemento una società in cui proliferano le corporazioni predatorie ansiose solo d’assicurasi proprie rendite immediate contro tutti e contro il loro stesso interesse non immediato.

The difference between patrimonial domination and modern bureaucracies, as Weber describes the two, is precisely that in the patrimonial state public and private roles were mixed and in the modern state these roles are more clearly distinguished. The modern state distinguishes offices and persons. The office is public, and its files, rules, and finances are distinct from the personal possessions and character of individuals. As public administration and finance were separated from the household and personal wealth of the ruler, the modern state became, in effect more public; the person and family of the ruler, more private. That the domestic sphere has generally become more private is one of the classic themes of modern sociology and the history of the family.
http://www.princeton.edu/~starr/meaning.html

Tipica, dove non vi sia un vero Stato, è la confusione tra pubblico e privato. Il pubblico è la facciata, la maschera. La privatizzazione di fatto del pubblico la sostanza. Un concetto usato è quello di Stato patrimoniale, la cui definizione si trova nella citazione sopra riportata.

L’oligarca dell’oligarchia cui ci riferiamo qui è un oligarca proprietario di tipo predatore, che opera in un contesto di Stato di fatto patrimoniale: lo Stato è innanzitutto funzione dell’arricchimento dei gruppi malaffaristici lo controllano, l’oligarchia, e di chi vi “lavora”. Provvedere servizi ai sudditi è, nello Stato di fatto patrimoniale, attività strumentale, di copertura, spesso solo finta, per la predazione da parte di oligarchie e burocrazie. L’oligarchia predatoria e le burocrazie predatorie realizzano sistematiche e continue predazioni sia con copertura legale che sotto la forma di truffe vere e proprie. Se le predazioni sono operate da gruppi di grandi dimensioni ed influenza, essi cercano di liquidare, legalmente od illegalmente, chiunque cerchi di ostruirli.

L’Italia ne è un ottimo esempio. Se l’oligarchia fosse illuminata non sarebbe realmente tale, non sarebbe l’oligarchia predatoria cui ci stiamo riferendo. Un’oligarchia illuminata, modernizzatrice, guadagna di più senza predazioni. Se un’oligarchia non ne è capace, deve ridursi ad attività predatorie.

Un’oligarchia illuminata è una élite modernizzatrice, non l’oligarchia predatoria autoperpetuantisi al di fuori d’ogni concorrenza. Tertium non datur, almeno concettualmente. Sebbene nella pratica esistono sempre gradazioni ed assortimenti differenti, locali, dei fenomeni. Un’oligarchia illuminata, sarebbe classe dirigente, capace dunque di porre argini al proprio interesse immediato. Questo non vuol dire che l’“oligarca illuminato” sia più povero. Semplicemente, parte [o la realtà storica e contingente lo obbliga a partire] dal presupposto sistemico che se tutti sono più ricchi anche lui può essere più ricco. Per essere tutti più ricchi occorrono proprio quei meccanismi concorrenziali, democratici [di democrazia economica, che poi è l’unica vera democrazia sostanziale], con conseguente mobilità sociale, che sono quelli un’oligarchia predatoria non vuole assolutamente perché ne sarebbe presto distrutta. Al contraro, in tutti gli Stati e spazi oligarchici conta ciò che si ha con le relative capacità di ricatto reciproco, contano la “famiglia”, il nome e le connessioni, l’affidabilità di cosca, non il singolo che fa e funzionale ad organizzazioni si muovano in realtà concorrenziali e mobili.

Si potrebbe opinare che fattori di status contino un po’ dappertutto. È certo vero. Ma è questione di rilevanza qualitativa di questi fattori. Il fattore chiave per distinguere una condizione oligarchico-predatoria da una che non la sia, o la sia meno, è la concreta possibilità di mobilità sociale. Nell’Inghilterra della modernizzazione la mobilità sociale fu sostanziale, e continua ad esserlo. In essa, l’aristocrazia continua ad esistere in vario modo ed a vari livelli. Tuttavia, i suoi componenti cambiano. Non è cosa da poco, per la dinamicità sistemica e la ricchezza comune.

Nelle realtà oligarchiche, gli interessi ed i micro interessi devono controllare milizie o, il che è lo stesso, il capo della polizia, od il giudice od il procuratore del luogo, a seconda dei contesti specifici. Gli esempi possono spaziare dal Libano, alla Colombia, a realtà ben più vicine da vari punti di vista. Cambia la struttura etnico-sociale. Cambiano i livelli di sviluppo sociale ed economico. Ma la sostanza di base è la stessa, dal punto di vista di cui ci stiamo occupando.

Non che esistano da nessuna parte un perfetto libero mercato e meccanismi legali perfettamente ed impersonalmente funzionanti. Tuttavia sono proprio meccanismi legali di gestione dei conflitti e del contenzioso in ultima analisi per il benessere collettivo, anziché per preservare l’immobilità monopolistica dell’oligarchia predatoria e la correlata corruzione e micro-corruzione burocratia e corporativa, che fanno la differenza qualitatitiva rispetto ai meccanismo mafiosi soviettistici dove non c’è, magari, neppure un FBI ed un giudice a Washington, se polizia e giudice del luogo sono comprati o messi lì dal padroncino o dal grosso padrone del luogo. Naturalmente, questo sia detto senza alcuna mitizzazione dell’imperfezione di quelle come di altre realtà.

Nello Stato di fatto patrimoniale, dove dominino oligarchie predatorie con correlate burocrazie e corporazioni predatorie, questa sua natura privatistico-predatoria è suo elemento costitutivo, in un modo o nell’altro. Non si passa da un contesto predatorio ad uno sviluppistico, per riforma od autoriforma interna. Neppure con cambi di governo, che non hanno vero rilievo. Tanto meno con colpi di Stato che, alla fin fine, dovrebbero, con burocrazie inevitabilmente esse stesse corrotte e predatorie, porre rimedio a situazioni di deterioramento e predazione. Non è neppure detto che si possa davvero uscire da un ordine predatorio od illudersi d’orientarlo verso altre finalità.

Non è, comunque, nostra intenzione fornire qui ricette. Le realtà storiche e loro involuzioni ed evoluzioni possono essere, nel concreto, le più diverse. Ricette universali non esistono. Quanto alle specifiche, dipende dalle concrete forze in campo e da quello che possono e vogliono davvero fare.

Vediamo piuttosto dei luoghi comuni correntemente prodotti nei circuiti accademici e poi inculcati in un modo o nell’altro nelle teste delle masse. La “politologia”, meglio definita come pollitologia, contemporanea è un’arte di costruzione del discorso, di un “discorso” suadente e comprensibile, quanto falso ed ostruttivo di comprensione di realtà. Le citazioni del testo qui sotto riportato sono usate solo perché espongono con precisione e chiarezza posizioni rappresentative. Non ci interessa, né sappiamo, né vogliamo sapere, chi sia l’autore. Discutiamo solo i contenuti specifici.

Il vantaggio d’un testo che scaturisca dalle ideeo circolanti nell’accademia latino-americana, come del resto internazionalmente, e che in quell’area s’è fatto tanto uso del concetto, o forse solo dello slogan, d’oligarchia. L’oligarchia era il potere. Un potere che, essendo venuto a mancare il riferimento dell’Impero spagnolo, era inevitabimente entrato in interazione coi nuovi padroni del mondo, los ingleses. Costoro avevano più interesse a favorire la permanenza di situazioni di predazione, cui copartecipare, che interessarsi ad uno sviluppo competitivo che avrebbe creato concorrenti per loro temibili.

Del resto, in America Latina, tutte le “culture” e pratiche sedicenti antiimperialiste o nazionali o nazionaliste, non hanno mai rappresentato alternative sviluppiste alle oligarchie predatorie o compradore o in cointeresse con l’Impero inglés. Non a caso sono state facilmente sconfitte dall’Impero inglés, oppure lasciate perdere quando o non avessero il controllo di risorse naturali decisive o la loro “minaccia” fosse solo retorico-declamatoria. Ma, anche fossero riuscite, senza uno sviluppo accelerato ed internazionalmente competitivo al massimo avrebbero costruito solo dei falansteri spietati e pauperisti per le masse quanto dispensatrici di rilevanti privilegi per le alte gerarchie di regime divenute nuova oligarchia burocratica. Se ricchi di materie prime, le materie prime sono una ricchezza solo se vendute ed il mercato d’acquisto è poi quello delle aree più sviluppate, in primo luogo quelle ingleses. L’alternativa alla dipendenza è sempre e solo lo sviluppo accelerato, non l’“orgoglio” della povertà che poi è solo povertà per le masse schiavizzate da burocrazie pur eventualmente gongolanti di retorica “rivoluzionaria”. Col “nazionalismo” della povertà, le masse popolari si trovano gabbate sia dal pauperismo che dalla repressione sia materiale che ideologica: una totale alienazione sia materiale che spirituale.

Gonzalo Battocchio García, El neopopulismo como alternativa al sistema de partidos políticos, Universidad de Viña del Mar, Instituto de Relaciones Internacionales, Diploma en Relaciones Internacionales, 15 de octubre de 2004.

INTRODUCCIÓN
Las profundas y aceleradas transformaciones valóricas que durante los Últimos veinticinco años han experimentado muchas de las sociedades democráticas occidentales surgidas después de la Segunda Guerra Mundial, están propiciando una inusual renovación de las crisis de confianza que periódicamente surgen entre los ciudadanos, los partidos políticos y las instituciones representativas del poder popular.
Ello como consecuencia de los cambios sociales derivados de la consolidación del capitalismo de mercado, el establecimiento del consumismo y la información de la opinión pública que promueven los medios de comunicación masiva.
Hasta hace poco acotadas al descontento habitual de las masas hacia la clase política de turno, por la incapacidad de esta última para limitar el poder de las oligarquías, preservar -cuando no aumentar- las conquistas sociales y acortar la brecha entre ricos y pobres, las crisis de confianza han mutado en un abierto rechazo de los ciudadanos hacia sus representantes elegidos, la omnipotencia de los partidos, la arrogancia de la burocracia gobernante y la invasión de la vida privada por parte de instituciones privadas u organismos pertenecientes al Estado.
A lo anterior se suma la incapacidad del aparato político de entregar soluciones concretas y efectivas a los problemas que ha traído para el hombre común una modernidad que se caracteriza por el debilitamiento de la tradicional relación de clases y de las identidades, la apertura casi total de las fronteras, la pérdida de relevancia de los Estados nacionales, la expansión de formas productivas altamente tecnologizadas y la dinámica impuesta por un sistema financiero global, que -en general- es percibido por la gente como un incentivo a la competencia desmedida, al individualismo y la inequidad1.
En otras palabras, las personas comunes y corrientes están hartas de un proceso que anula el sentido de bien común e impulsa la idea de una sociedad en la que la democracia, entendida como el baluarte de la comunidad civil, se pone al servicio de las elites tecnocráticas y de los intereses económicos de un grupo reducido de particulares, sean éstos personas, empresas o Estados.
El mundo de hoy ha pasado a ser una fábrica en la que las decisiones importantes no se toman por la colectividad ni por el Estado y en que la política (entendida como el interés por lo que ocurre en la polis) se ha quedado atrás y ha dejado de ser un elemento aglutinador de voluntades que, al mismo tiempo, facilite la generación de las ideas.
Este fenómeno, que algunos teَricos vinculados a la izquierda definen como “una implacable máquina destinada a destruir la democracia”2, ha generado en respuesta una corriente de pensamiento anidada en sectores de la clásica derecha europea que postula el objetivo de reequilibrar el principio de representación de la sociedad democrática liberal, en favor del titular original del poder que sustenta a la misma: el pueblo.
Bautizada como Neopopulismo, la corriente descrita es más bien un movimiento democrático de características transversales, que busca consolidarse como alternativa al sistema tradicional de partidos, que a ojos de la gente ya no ofrece amparo frente a las condiciones psicológicas impregnadas de resentimiento, desilusión y desencanto que presenta la sociedad planetaria actual.
Basado en el principio de la representación popular directa, el Neopopulismo postula como doctrina vital el derecho de los ciudadanos a fijar los límites más allá de los cuales sus representantes -los políticos “profesionales”- jamás deben ir; y de hacerlos entender que el mandato que se les ha conferido es temporal y en ningún caso personal, por cuanto no corresponde que existan cuerpos intermedios cuyo sentido o finalidad sea intervenir la natural relación que se debe dar entre el individuo y el soberano3.
Estas concepciones son cuestionadas por algunos analistas y politólogos que no resisten la tentación de encuadrar al Neopopulismo en el marco de una simple evolución de añejos y fracasados movimientos totalitarios (fascismo, nacionalsocialismo) o de fórmulas netamente populistas y caudillescas, como las que durante décadas han florecido en el variopinto campo de regímenes políticos que es Latinoamérica4.
Si bien es efectivo que el Neopopulismo reconoce en el qualunquismo su origen, este movimiento está distante de la definición de “populismo antipolítico que algunos teóricos5 utilizan para identificar indistintamente a ambos. Pues, en lo concreto, el Neopopulismo aspira a instaurar el modelo esencial e inevitable del pluralismo social. Esto es, la necesidad de reestablecer la dinámica primordial del sistema político democrático -hoy tan atomizado- que hace suyo el contrato social, la tolerancia, la no violencia, la legalidad y la representación popular directa plasmada en instituciones equilibradas.
Lo que plantea el Neopopulismo es conformar un espacio donde, en forma efectiva y eficiente, el ciudadano común pueda agregar y articular intereses para encauzar los conflictos propios del sistema político cuando éste decae. Es decir, el debate público y la confrontación pacífica, no la imposición ni la aniquilación. ¿Acaso no es ésa la doctrina vital de la democracia?
¿Acaso no es ésa la ideológica que promueve la mayoría de los partidos políticos tradicionales -y que casi ninguno consigue implementar- en nuestra sociedad?
La pregunta que en verdad cabe hacerse al respecto es por qué a pesar de referirse simplemente a lo esencial, a lo ya escrito por Aristóteles y Rousseau, entre otros, el Neopopulismo representa hoy una oleada de auténtica novedad. Al punto que en países considerados democráticamente “maduros” como Italia, Austria o Francia, donde transfigurado en movimientos cuyos nombres varían considerablemente, cada día adquiere más fuerza e intención de voto.
Incluso ya está viendo la luz en algunos países de latinoamericanos, particularmente en Chile, cuyos ciudadanos parecen estar cansados de permanecer y deambular por la sombra de la democracia.
1 Fenómeno que Margaret Thatcher bautizó como “Tina” (There is no alternative) y que se origina en el acelerado desarrollo empírico-técnico que a partir de la segunda mitad del siglo XX hizo que la mayoría de los países occidentales industrializados evidenciara un notable crecimiento económico.
2 J.F. Revel “Cómo terminan las democracias”, Rizzoli, Milán. 1983.
Los críticos de izquierda, según López-Calera, han culpado “al capitalismo, a sus crisis y contradicciones, de que no se haya producido una auténtica democratizaciَón social y económica y que el Estado contemporáneo sea, pues, un poder opresor”. Cito de “La construcción del Estado regulador y la relación con la sociedad civil” de Eduardo Araya Moreno. Revista Estado, Gobierno, Gestión Pública N1. Santiago de Chile, marzo 2002.
3 Definición planteada sobre la base de lo señalado por el profesor de la Universidad de Florencia, Marco Tarchi, principal teَrico sobre el Neopopulismo, durante la conferencia “Neofascismos y Neopopulismos”, que dictó el 29 de agosto de 2004 en el Instituto de Relaciones Internacionales de la Universidad de Viña del Mar, Chile.
4 Referencia a los regímenes de Chávez, Fujimori, Menem y otros, que el periodista peruano Alvaro Vargas Llosa plasma en su libro “La fauna política latinoamericana”. Random House Mondadori-La Tercera, Santiago de Chile, septiembre 2004.
5 Referencia de Javier Varela, profesor de Historia del Pensamiento Político de la UNED de Valencia, aparecida en un artículo titulado “La apuesta de Julio Anguita” y que publicó el diario El País de España, el 2 de marzo de 1997.

L’incedere retorico si sviluppa qui, nel testo sopra riportato, attorno alla identificazione di cambiamenti negativi che avrebbero evidenziato la usuale incapacità delle solite classi politiche, tra di loro equivalenti, a limitare poteri oligarchici, estendere non meglio identificate “conquiste sociali”, ridurre le ineguaglianze, rendere la politica gradevole ed accettabile anziché aumentare l’onnipotenza dei partiti, impedire l’arroganza delle burocrazie di governo e la loro invasività della vita privata. Qui s’innesca il timore, il terrore, che la risposta a questa supposta crisi possa la responsabilità personale del politico che produca vera modernizzazione.

Il testo è in effetti piuttosto sconvolgente, sconvolgente rispetto alla realtà. L’operazione è tipica dell’intellettualità autoreferenziale. Ci si immagina una mitica età dell’oro. Essa verrebbe sconvolta dal progresso globale che si riflette inevitabilmente anche in realtà non di sviluppo accelerato. La risposta desiderata sarebbe il ritorno all’età dell’oro immaginaria: un “quieto” tirare a campare solito. La risposta temuta è quella che sembra verificarsi: la ricerca di vie di sviluppo, di salto qualitativo, che permettano d’uscire dall’avvitamento economico-sociale solito.

Gli ultimi 25 anni, secondo il testo, vi sarebbe stata una trasformazione di valori dell’area occidentale che avrebbe riproposto in forme inusuali la normale crisi di fiducia tra cittadini da un lato e politica e istituzioni dall’altro. Ciò deriverebbe dal consolidamento del capitalismo di mercato, dal dilagare del consumismo e dalla azione dei mass media sull’opinione pubblica. Lo scontento usuale del cittadini nei confronti della politica e dello Stato sarebbe acuito dalla maggiore onnipotenza di politica e Stato e dalla penetratività sia di organizzazioni private che statali nella vita privata dei cittadini. Queste sono, in verità, più “preoccupazioni” di piccolo-borghesi e burocrati corrotti che di indistinti “privati cittadini”.

Forme di modernizzazione avrebbero indebolito le tradizionali relazioni di classe e identitarie, aperto quasi totalmente le frontiere, fatto perdere rilevanza agli Stati nazionali, espanso la produzione ad alta tecnologia, imposto dinamiche del sistema finanziario globale che sarebbero percepite dalla gente come incentivo alla eccessiva specializzazione delle competenze, individualismo ed ineguaglianza. La politica sarebbe stata incapace di dare risposte a tutto ciò. Per cui “la democrazia”, intesa come baluardo della società civile, si pone al servizio delle tecnocrazie e di interesse economici di gruppi ristretti che consistono ora in individui, ora in imprese, ora in Stati. Anche queste sono più “preoccupazioni” di piccolo-borghesi e burocrati corrotti che di indistinti “privati cittadini”. Al popolino che vive da sempre di lavori insensati e parcellizzati, non gliene importa nulla che il colto debba diventare pure specializzato per vendersi sul mercato del lavoro.

Il mondo odierno si sarebbe trasformato in una fabbrica le cui decisioni importanti non sarebbero assunte né dalla collettività, né dalla Stato, e dove la politica ha cessato di amalgamare volontà e facilitare la generazione di idee. Per teorici della sinistra, tutto ciò rappresenterebbe un processo di distruzione della democrazia. Mentre, la destra classica europea si sarebbe proposta di riequilibrare la rappresentanza democratica in favore del popolo. Ciò avrebbe generato il neopopulismo, un movimento trasversale visto come alternativa al sistema tradizionale dei partiti.

In realtà, con neopopulismo, usato come termine deprecativo per forme politiche non si sa come definire altrimenti, si connotano varie forme di leaderismo, inevitabilmente mediatico nell’era contemporanea, ora dei tendenza più liberale ora più burocratico-statalista.

Il testo qui citato si muove nel filone della critica al cosiddetto neoliberismo, altro termine deprecatico per definire soluzioni modernizzatrici progressiste che devono dunque, inevitabilmente, cercare di svincolarsi delle regole del gioco perdenti [rispetto alla modernizzazione ed al benessere diffuso] delle burocrazie corrotte ed immobiliste. La logica sostanziale della critica, o supposta tale, al cosiddetto neoliberismo è dunque reazionaria, di reazione conservatrice a forme di modernizzazione che comunque avanzano anche solo in modo riflesso per via dell’evoluzione globale con connesse rivoluzioni sia produttive che comunicativo-mediatiche. Il discorso si cerca di far passare è infatti una valorizzazione di una vecchia politica, pur da risanare, da contrapporre a tutto ciò che cerca di rompere (non è detto poi vi riesca) le insipienze, inettitudini, danni, inutilità di forme politiche hanno condotto solo all’avvitamento nell’arretratezza e nella subordinazione. La vecchia politica è quella dei partiti tradizionali ideologico-religiosi, dove certo gli affari [personali e di cricca] si fanno, le selezioni dei quadri politici e di potere avvengono al di fuori delle organizzazioni per iscritti e militanti ridotti a servitori e questuanti, e tuttavia capaci di presentare [costose: la produzione ideologica costa!] facciate valoriche che sono solo falsità ed inganni per le masse.

Per il partito tradizionale, come per il sindacato tradizionale, vale ciò che vale per la criminalità organizzata: esistono e possono esistere e perpetuarsi solo se parte del potere. O lo Stato ed i poteri oligarchici lo usano, ed eventualmente se ne fanno un po’ usare, oppure il partito resta setta di illusi che non possono andare oltre vana propaganda. Il partito ed il sindacato esistono perché danno posti e coperture, perché hanno fondi, perché sono nel circuito del potere e ad esso funzionali. L’organizzazione davvero rivoluzionaria o ha altre protezioni o deppure decolla. Nessuno può impedire azioni individuali che sono sempre indeterminabili, indeterminabili come la follia [o meno: non ci interessa qui giudicare chicchessia] di chi si fa cecchino e fa il tiro a segno coi passanti, od il singolo che fa un’azione terroristica più tradizionale. Tuttavia organizzazioni grandi e piccole non vivono senza protezioni e consensi interni ed esteri, eventualmente solo temporanei e funzionali ad operazioni qualche potere ritiene utili.

Partito tradizionale, come sindacato tradizionale, qualunque ne sia il colore ostentato, significa, in contesti burocratico-oligarchici, salvo contingenze particolari, partito funzionale alle burocrazie corrotte ed all’oligarchia parassitaria. O è da esse voluto. O è ad esse funzionale e subordinato. Oppure non può esistere. Più è funzionale ad esse, più esso è influente. Per fare un esempio, la supposta eccezionalità e peso del PCI, è stata solo questa. Era il partito di Confindustria e Mediobanca, dunque dell’oligarchia parassitaria. E così il suo sindacato, la CGIL. E, pur ora frazionato e senza URSS, continua ad esserlo. Tutto il resto è appunto ideologia, fantasia propagandistiche per chi se le voglia credere. La propaganda è prodotta proprio perché sia creduta a livello di massa e di masse. L’analisi, che non è cosa per masse, deve necessariamente vedere le cose con gli strumenti della scienza, dunque senza ideologie [nel senso marxiano]. Certo si può pure dare da bere che si creino partiti con decine di migliaia di funzioanri ben pagati, con quotidiani e riviste, con l’obolo degli iscritti e che sia un partito “onesto”, cioé non dipendente dai meccanismi della corruzione burocratica e parassitismo oligarchico dominanti. Così come si da correntemente da bere, che si creino armate del popolo o rivoluzionarie o di liberazione e si facciano lunghe marce o grandi guerriglie o guerre rivoluzionarie con la fede e rubando la pistola al poliziotto ch’esce di casa. Tuttavia, la realtà non funziona a questo modo, seppur i libri storia, i filmetti ed i fumetti lo facciano credere. Senza soldi, o traffici li facciano produrre, e senza coperture si finisce alla Che Guevara con la sua banda di agenti degli apparati di sicurezza cubani in trasferta boliviana e pure qualche supervisione d’altra provenienza.

Nei paesi anglofoni, il leaderismo politico è istituzionalizzato. Personalmente credo che il leaderismo, come dote personale, il carisma, non esista quasi mai davvero. Esso è fabbricato. In fondo, l’operazione psicologica rilevante è quello che altri credono. Quello che gli altri credono è quello si riesce loro a far credere. Togliete ogni potere ad un leader supposto carismatico ed, in genere, nessuno ne subirà davvero il fascino. È il potere o la possibilità d’averlo che dà carisma. Infatti, è meccanismo corrente ora creare, ora distruggere, il carisma dei leader. I media se ne occupano ogni giorno. O ti rappresentano accanto al focolare con “buone” letture in realtà non hai mai fatto né mai farai, oppure coinvolto in traffici “bassi” ed “oscuri”.

Quando la politica assume all’improvviso una forte connotazione leaderistico-carismatica non istituzionalizzata, ciò avviene per svolgere una qualche funzione i partiti tradizionali o soliti non possono adempiere. Il leader “unico” può essere creato dall’oligarchia, o da sue frazioni, oppure nascere contro le oligarchie parassitarie e le burocrazie corrotte. Quest’ultimo è stato il caso di Berlusconi in Italia. L’esperienza compre oramai quasi 13 anni. Strenuamente combattuto dalle burocrazie corrotte e dall’oligarchia, lui non le ha tuttavia combattute altrettanto strenuamente. Non importa ora discutere qui se sia per queste sue parziali arrendevolezze e compromessi che ha tuttora circa un 50% di consensi [il suo fronte, alle recenti elezioni], e lui il leader del partito maggiore, oppure se sia per questo che abbia solo un 50% di consensi. In contesto di burocrazie corrotte ed oligarchie parassitarie, nessuno opera contro di esse a meno che non le liquidi. Cosa che in Italia non è avvenuto. Neppure ci s’è davvero provato. Le rivoluzioni vere non sono tuttavia cosa d’un momento. A volte le situazioni restano aperte, oppure semplicemente continuano ad avvitarsi od involvere per lunghi e lunghissimi periodi. Non esistono soluzioni necessarie, se non dopo che si sono verificate. L’inevitabile evoluzione verso il bene c’è solo nei catechismi.

L’aspetto cui evidentemente taluni o molti preferiscono dare una connotazione negativa, mentre rappresenta un salto qualitativo di fronte a partiti tradizionali insipienti, corrotti e burocratico-oligarchici, è la responsabilità personale del leader. Per cui un rapporto in qualche modo diretto tra leader a cittadini diviene qualcosa che si preferisce rappresentare come qualcosa di sconveniente o pericoloso [per cosa o chi?!]. Al contrario una politica sana, delle istituzioni sane, delle strutture statali sane, si basano su responsabilità personali e su programmi semplici, chiari e da realizzarsi. Un politico si deve sapere che cosa vuol fare e deve poterlo fare se vince su altri candidati ed altri programmi. È per questo che a livello nazionale si deve poter votare su ipotesi differenti ed averne una prevalente. Se tutti “vincono” e nessuno ha la maggioranza, dunque i poteri, per quello che ha avuto i voti per fare, gli Stati deperiscono, a meno che non vengano poi governati da poteri occulti. Vedi casi di regimi delle logge massoniche occulte alla francese ed alla belga, dove pur senza collassi dello Stato, alla fine si persiste nella subordinazione rispetto ai centri dello sviluppo mondiale. A regimi politici deboli e non democratici [il voto dell’elettore non conta nulla, tanto poi si fanno governi di coalizione, dunque di compromesso, senza veri programmi votati dagli elettori] supplisce, per esempio in Francia e Belgio, un regime delle logge coi propri programmi populisti di evitare il sottosviluppo pur evitando le sfide dello sviluppo internazionalmente davvero competitivo.

Problema [“tecnico”] semmai, dove emerge il leader “carismatico” [ho già detto che per me il carisma è una fabbricazione mediatica e di potere] è la sua istitutionalizzazione. Non la istituzionalizzazione del singolo ed eventualmente occasionale leader, quanto la istituzionalizzazione della responsabilità personale, che è poi l’unica forma vera di democrazia formale-rappresentativa. Dove l’elettore vota, e poi si governa su programmi o pseudo programmi di compromesso non c’è vera democrazia formale, né tantomeno sostanziale [semmai esista una “democrazia sostanziale”: lasciamo qui stare la questione che è sia linguistica che psicologico-filosofica]. L’elettore inglese alle politiche o quello americano alle presidenziali sa per cosa vota e sceglie in pratica tra due opzioni, che è l’unica vera scelta: il meno peggio od il meglio tra una alternativa. L’elettore francese, o quello tedesco, o quello italico, dà un voto che non conta nulla, tanto poi si fanno governi di coalizione, cioè con programmi, veri o finti, differenti da quello che ha ottenuto una maggioranza relativa e non è affatto detto che un’elezione col programma poi davvero adottato, ed eventualmente realizzato, avrebbe avuto la maggioranza delle urne. Si potrebbe opinare che è più democratica una maggioranza assoluta di compromesso che una relativa monopartica. In realtà non è così. Perché, se il sistema Costituzionale formale o di fatto configura un collegio uninominale nazionale [è il caso delle elezioni politiche britanniche e delle Presidenziali USA; lasciamo stare che ciò non dipenda dall’uniniminale di collegio britannico che non è maggioritario, e lasciamo stare che essendo l’elezione USA indiretta conti la maggioranza dell’assemblea dei delegati nomina poi il Presidente, non il numero di voti] le opzioni tenderanno ad essere due e solo due, ed ognuna cercherà di massimizzare la possibilità di vittoria pur rispecchiando differenze varie tra due blocchi pur compositi che si sono formati nel tempo ed ogni volta si riformano e rettificano. Ciò rende possibile scelte democratiche che in un sistema multipartitico non esistono, se non nella fantasia e nella propaganda. Un sistema multipartitico non è democratico. Lo è uno bipartitico, pur con partiti inevitabilmente compositi eppur con delle sintesi comprensibili all’elettore.

Istituzionalizzata la responsabilità personale, essa permea poi inevitabilmente tutto il sistema e tutta la società. È ben strano, e del tutto corrotto e criminale, un servizio pubblico funzione di chi vi lavora anziché funzione del cliente. Un servizio pubblico responsabile di fronte al cliente deve invece ottimizzare costi e risultati, con tutto ciò che significa. Lo stesso vale per la politica che è o funzione del politico o funzione del cliente-elettore. La politica funzione del politico è la politica di sistemi oligarchici e burocratici corrotti-parassitari, che sono le forze garantiscono la copertura all’autonomia della politica e la manovrano ed usano per propri fini privati. O uno Stato funziona ed è amministrato come un’azienda efficente oppure serve interessi di singoli contro quelli di tutti, non compatibili e funzionali con gli interessi di tutti. Non solo non è davvero democratico, ma non è neppure basato sulla responsabilità personale, un sistema politico basato su governi di coalizione, e tutto quel che ne consegue a livello di apparti dello Stato, dove non si sa di chi siano colpe e meriti di ciò che viene fatto o non viene fatto.

Se l’emergere di leader “carismatici” di rottura di sistemi oligarchici e burocratici corrotti-parassitari non viene poi istituzionalizzata secondo il principio della responsabilità personale e della possibilità di attuare un programma chiaramente predefinito e votato dall’elettore, oligarchie e burocrazie corrotto-parassitarie continuano la loro azione nefasta. In tal caso, strombazzate [da media interessati] “rivoluzioni” politiche sono solo fandonie “vendute” da chi ha interesse a diffonderle sul mercatino della persuazione delle masse. Il caso italico, col nefasto rigetto referendario della Costituzione “inglese” nel giugno 2006, e la conseguente riaffermazione della Costituzione non democratica ed oscurantistico-reazionaria del 1948 [e rettifiche (secondarie) successive], è esemplare e rappresenta un momento di forza rilevante della forze della corruzione burocratica e del parassistismo oligarchico.

Ma anche dove compaiano leaders universalmente rappresentati come di grandi promesse e grandi clamori positivi, anche internazionali, o le istituzioni e tutte le strutture statali vengono ricostruite secondo il principio della responsabilità personale oppure i clamori coprono una realtà solita che non vuole e non può cambiare.


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NOTE

[*] Quelle sul “fascismo” giapponese sono fandonie propagandistiche ingleses. Basti un esempio, qui: perfino durante la guerra c’erano elezioni competitive, nel senso che ci si poteva candidare ed essere eletti, cosa realmente avvenne, come indipendenti dal partito maggiore. Il militarismo era ed è altra cosa, molto inglese&americana. Nulla in comune con fascismo e nazismo che, pur profondamente differenti tra di loro, sono state risposte locali e provvisorie volute dagli stesi centri finanziari ingleses a situazioni di crisi cui si era stati incapaci di rispondere in modo maturo, cioé all’interno delle strutture formali dello Stato liberal-democratico. Nell’area inglés esiste piuttosto un vero militarismo di stampo “nazi-fascista” [per usare una categoria corrente, che significa tanto nell’immaginario, quello creato da fumetti, romanzetti e filmetti, ma non ha alcun valore scientifico, sebbene l’accademica politicante la ami e la usi tanto per straparlare e per ostruire ogni comprensione della realtà, comprensione che è sempre oltre le categorie oggetto di investimenti affettivo-emozionali positivi o negativi]. Lo diciamo come constatazione. Non diamo mai giudizi di valore nonostante l’uso di un linguaggio spesso colorito. La storia [anche corrente] è storia, senza Il Male, senza Il Bene. Quanto detto sul militarismo, vale per l’esaltazione nazionalistica correlato delle politiche imperialistiche derivanti dallo sviluppo economico competitivo. Si trovi un solo Stato, di qualunque colore, in qualunque epoca che, in situazioni di forte sviluppo, od anche solo di pretenziosità talvolta, non abbia tali politiche e con le stesse connotazioni piratesche e barbare, per chi sia interssato ad enfatizzare pirateria e barbarie. Non esiste. ...e nell’ultimo mezzo millennio, o solo negli ultimi secoli, le aree più dinamiche sono state quelle ingleses... Se ne tirino le conseguenze del caso, se si crede. Tra l’altro è tutto ben visibile nella vasta letteratura e produzione mediatica sul militarismo e sull’esaltazione nazionalistica ingleses, se non si chiudono occhi ed orecchie.
Il Giappone aveva in comune con Germania ed Italia solo l’aggressione economica subita dall’impero inglés e la guerra che ne è conseguita [alla Germania la guerra, che non voleva e per cui non era preparata, è stata dichiarata dagli anglo-francesi; l’Italia, accodatasi alla Germania già in guerra, la guerra agli anglo-francesi l’ha invece dichiarata; il Giappone la ha dichiarata agli USA ma nessuno ha voluto ricevere la dichiarazione ed il Giappone ha comunque attaccato, attacco che tutti s’aspettavano sebbene non sapessero dove, per cui non è proprio stato l’attacco a tradimento pure gonfiato da propaganda e filmetti di guerra e successivi]. Null’altro. Non si dimentichi che il Giappone, al contrario delle Cine ed aree limitrofe, ha avuto il feudalesimo in comune con quella parte d’Europa che l’ha egualmente conosciuto (in particolare Nord Italia, parte della Francia e parte della Germania). Feudalesimo è sinonimo di libertà locali ed individuali. Il feudalesimo è antitetico ad autoritarismi e totalitarismi forti, all’inglese.