15 June 2007

Lettera da Lhasa numero 59. Nazionalismo cinese come costruzione maniacale

Lettera da Lhasa numero 59. Nazionalismo cinese come costruzione maniacale
by Roberto Scaruffi

Zhao Suishen (趙穗生), A Nation-State by Construction. Dynamics of Modern Chinese Nationalism, Stanford University Press, Stanford, California, USA, 2004.
(Zhao Suishen, 2004).


Per affrontare la questione del nazionalismo, in genere i vari autori ricorrono alla sofistica. Il nazionalismo non è questione semplice. Non è neppure semplice, anzi è impossibile, affrontare produttivamente la questione sulla base dei conformismi usuali. Per cui, si trovano continue oscillazioni tra il già scritto e lo sforzo di nuove definizioni, in genere per nulla innovative o migliori delle precedenti.

Perché non trattare il nazionalismo come una delle tante utili droghe od utili patologie sociali? In fondo, fa parte dello speziario sociale per produrre automi da fabbrica e da campo. Non si può dire a dei poveracci: “Guarda, il tuo compito è crescere, lavorare, riprodurti, guardare la tv, sformarti, farti venire il cancro e morire, eventualmente in guerra.” Bisogna pur condirla loro, in qualche modo.

Tutti i fanatismi escono dalla sfera di valori propriamente umani per divenire compattazioni di gruppo per altri usi. Non che neppure così la questione divenga semplice. Esistono forme identitarie difensive in un mondo avverso o vissuto come avverso. Il mondo è sempre avverso quando sia dominato da gruppi, per cui ogni gruppo si giustifica con l’altro e gli altri gruppi. Così come esistono forme identitarie con dimensioni immediatamente aggressive, dunque di imposizione rispetto agli altri gruppi. Nella pratica, non è che il confine tra i due aspetti sia netto né semplice come lo è, forse, concettualmente.

Del resto, non è neppure semplice, forse neppure possibile, definire dei valori propriamente umani, dunque comuni a tutti gli individui, visto che poi le concrete forme e circostanze d’esistenza sono differenti, dunque i valori, le identità, sono differenti. Esiste un’unica specie umana? Esistono dei diritti e dei doveri umani? Tutto sembra semplice nella sloganistica. Tutto si complica non appena s’abbia a che fare con individui reali. Allora, in tal caso, si torna a logiche di guerre di tutti contro tutti e di ciascun gruppo contro tutti gli altri gruppi. Per cui, ecco che ogni gruppo ha gerarchie al suo interno, non certo indistinti individui tutti uguali o paritari. La logica è, dunque, quella dei rapporti di forza tra gruppi e nei gruppi, non di illuministiche definizioni idealistiche di valori.

Ovvio, come fa l’autore, dire che gli individui agiscano sulla base della percezione del loro interesse. Resta, tuttavia, sempre aperta la questione di come la percezione si formi, sia formata o fatta formare. Nella realtà sociale, la stessa percezione si forma per interazione. Non esistono degli astratti propri interessi al di fuori di meccanismi dinamici d’interazione. E si tratta qui d’internazione in un contesto gerarchizzato, quello del gruppo.

Già più banale e non preciso, basato su una incomprensione della mentalità cinese e cinesoide (o, eventualmente, nella scelta di non disvelarla, visto che l’autore è d’origine cinese), sostenere che il nazionalismo sia, nella RPC, sostituto del comunismo, a meno che ciò non si riferisca solamente ad aspetti di immagine. Il nazionalismo [xenofobo ed ossessivo] non è mai venuto meno in nessuna Cina ed è sempre stato religione del consenso. Che lo chiamino anti-imperialismo, anti-socialimperialismo, lo capisce anche un’analfabeta cinese a cosa siano contro. Il cinese, i cinesi, sono contro il mondo esterno. È una forma di campanilismo, o addirittura d’individualismo esasperato, pur senza coscienza di valori e diritti individuali, che si copre dietro la “cultura cinese” quasi a fingere che si prosperi in uno spazio non ristretto essendo lo spazio cinese piuttosto vasto. Già il familismo ossessivo del cinese, e lo stesso isolamento e solitudine del cinese all’interno di quello il cinese chiama “famiglia” (si veda come sia prospera, ancor più che altrove, la prostituzione nelle Cine), dà la dimensione di come sia ristetta la base del campanilismo, del localismo gretto, dell’individualismo cinesi. Il “nazionalismo” (xenofobia manical-ossessa, in realtà) cinese, quello spontaneo del cinese, è dunque maschera d’una solitudine profonda e disperata.

Quanto al nazionalismo generico, quello “sociale” [“siamo l’avanguadia comunista”, “siamo l’avanguardia del proletariato mondiale”, oppure “la grande proletaria” di Pascoli e, poi, Mussolini] o di Stato, il perché d’esso o ha una qualche razionalità immediata, oppure si tratta di fobie con basi più mediate ed eventualmente deviate, o può ritorcersi contro chi o come usi tali fobie. Esistono vissuti individuali e collettivi, l’uso che ne fa il potere, la reazione di chi venga usato dal potere sulla base dei vissuti indivuali e collettivi suoi come del potere.

Se il campanismo ed il familismo gretto di spazi già (o, di fatto, tuttora) feudali ha una spiegazione forse diretta nelle condizioni esterne, quello di spazi imperiali “millenari” deve avere spiegazioni nella natura un po’ fasulla di tali ampi spazi socio-politici. Nelle Cine, burocrazie supposte weberiane mal si conciliano con l’ossessivo familismo e campanilismo. Lì, il paradigma imperial-burocratico[-“weberiano”] deve esser fasullo in qualche sua parte. Nei grandi spazi moderni ingleses, per esempio, il familismo ne esce a pezzi, il campanilismo pure, per quanto, per ragioni del tutto ideologiche si cerchi di difendere un’immagine di famiglia che altre ideologie, di Stato, oltre alla condizioni d’esistenza, hanno contribuito a distruggere in nome di spazi più vasti (lo Stato, il Paese [Country]) e di altri valori (il successo professionale personale sul mercato).

In realtà, il cinese si sente cinese perché è sempre stato indotto (dal potere centrale che ne ha sfruttato l’ignoranza e le paure ossessive) a sentirsi tale e con caratteristiche peculiari (la paura dell’altro e dunque la creazione d’una fissazione identitaria per controbilanciare la paura del mondo esterno), indipendentemente dal regime specifico. S’è fatta una catasta delle paure identiche di unità psicologicamente identiche o simili e s’è appiccicata su d’essa l’etichetta di “cinese” che copre un miliardo e mezzo d’unità concentrate nelle Cine ma diffuse dappertutto nel mondo, accomunate, oltre che da paure simili da una lingua scritta simile ed in genere più o meno comprensibile, quando scritta, a tutti i cinesi se capaci di leggere la propria lingua. Dall’Impero non proprio millenario viste continue rotture, dagli Imperi, sarebbe meglio dire, basati non proprio sulle troppo facili e sommarie semplificazioni idrauliche alla Wittfogel, s’è passati ad una immaginaria Repubblica “nazionalista” (si veda la storia della nonRepubblica che non sostituisce l’Impero che collassa e si frammenta apertamente, senza alcuna vera rivoluzione che nessun Sun Yat-sen dirige e senza che ad esso subentri un altro regime), alla Cina poi detta “comunista” con la cosiddetta Cina nazionalista in realtà relegata a Taiwan che persa dal Giappone come conseguenza della sconfitta bellica del 1945 era già stata assegnata dagli Alleati (ingleses e loro subordinati) “alla Cina”. In pratica, nel 1945, los ingleses danno Taiwan al KMT e tolgono ad esso la Cina continentale che il KMT perde del tutto nel 1949: un “bello” scambio! Ora, da qualche tempo, questo KMT forsennatamente anti”comunista”, pur non più maggioritario a Taiwan tra la popolazione, ma dominante nelle istituzioni reali, sente l’attrazione irresistibile della Cina “comunista “ o già “comunista”.

Secondo l’autore, la sostituzione del “comunismo” col “nazionalismo” si verifica con forza, nella RPC, dal 1989. In fondo, una sostituzione del genere, solo a livello d’immagine, è un completamento della visione, o della politica, o della paranoia, della RPC come sola Cina, dunque col diritto naturale di dominare tutti i territori e le comunità cinesi nel mondo. La visione d’una sola Cina è già una visione fortemente etnico-nazionalistica, nella forma, che va ben oltre il cappello politico, maoista, su d’essa, accettato, dal 1972, dagli USA, col Comunicato di Shanghai. È fortemente etnico-nazionalistica, almeno nell’espressione, perché si enuncia un programma d’estensione a tutti i territori cinesi della giurisdizione della PRC. Non è tuttavia profondamente nazionalistica, nella sostanza, perché il governo della RPC intende appropriarsi d’un sentimento etnico evidentemente non così profondo e sicuro nei singoli se usabile da regimi del momento che si sentono non così forti se devono farselo riconoscere dai padroni del mondo, del resto ben felici di riconoscerlo ad una RPC loro creazione coloniale proprio per indebolire lo spazio cinese. Dal “noi siamo la Cina comunista”, cioè la Cina assegnata al protettorato sovietico, sottocampo povero del mondo a dominazione inglés, si passa al “noi siamo la Cina”. Già prima il cinese si sentiva e veniva fatto sentire innanzitutto cinese, per quanto, poi, esaltazioni ossessivamente xenofobe a parte, non si sapeva bene che fosse “il cinese”, a parte la lingua scritta ed le paure xenofobe. Ora, indipendentemente da come viva uno specifico regime, “il cinese” si continua sentire tale. Esistono meccanismi mafiosi interiorizzati per cui, per esempio, il cinese evita di criticare l’altro cinese di fronte al non cinese. Oggi come oggi, con la stessa Taiwan sempre meno RoC, nessuno a Taiwan criticherà Pechino anche se si ritenga sottoposto ad altra catena geranchica. Ad ogni modo il cinese, è innanzitutto parte di una catena gerarchica e non si chiede mai a che serva quello che fa. Si sente cinese e dunque obbedisce agli ordini “cinesi”. Anche se gli ordini fossero di fatto contro la Cina. Il cinese non si interroga mai, davvero, sulla conseguenze di ciò che gli viene ordinato e fa, purché si senta sottoposto ad una gerarchia che appaia in qualche modo cinese e che appaia ad esso come “il potere”. Sono logiche pidocchiesche, o servili-schiavistiche, difficile da immaginare per chi segua criteri umani, ed invece comprensibilissime per chi con lo stipendio prenda “la linea”, la fede, la subordinazione ad una gerachia qualunque essa sia. Il fondo, “il cinese” è pidocchio manipolabile da chiunque, come succede da millenni e come succede ancor più da quando sotto dominazione inglés, dominazione che li ha drogati, ha distrutto l’Impero ed ora li usa come schiavi a bassissimo costo.

Lo Stato è “comunista” da sempre nelle Cine. La lingua cinese, con connesse “tradizioni” e, dunque, comportamenti conformi, è costitutiva della razza, nella percezione del cinese, percezioni largamente create dal potere centrale e sue burocrazie periferiche. Le tradizioni sono tuttavia sdoppiate tra quelle d’uno Stato che si vorrebbe pure religione, sola religione, e religioni che invece vivono in parallelo allo Stato che non ha saputo né estirparle né appropriarsene. Nella varie Cine (uguali, livelli di reddito a parte, pure in questo), lo Stato controlla le religioni in modo puramente amministrativo-poliziesco, che è sempre un controllo debole in quella sfera. Lo Stato “comunista” è una strutturale incapacità tipica di Stati deboli o rimasti deboli di gestire democrazie e libertà economiche come invece fa lo Stato cosiddetto liberale, all’inglese. Nella RPC, il “nazionalismo” non subentra al “comunismo”, così come il “comunismo” non era alternativa all’ultraxenofobia solita cinese. Restano l’ultraxenofobia ed il “comunismo”, che è il falansterio di automi schiavi del potere, con correzioni linguistiche, non di contenuto né di percezione o vissuto psicologico. Semmai sostituire ad un linguaggio “internazionalistico proletario”, che sono poi formule per mascherare e praticare il proprio imperialismo, un linguaggio che affondi completamente nelle tradizione cinese dichiarandosene gli organici continuatori è un’accentuazione del “comunismo” alla luce delle cessazione della concorrenza esasperata con altro nazicomunismo, quello tecnologicamente più avanzato russo. Cessata l’esigenza della concorrenza coi russi per i favori ingleses, puntando alla surbordinazione diretta a los ingleses, i cinesi si rivendicano non più come la seconda avanguardia della “rivoluzione mondiale” (scopiazzamento linguistico delle pretese russe; anche lì erano solo formule propagandistiche per vendere il proprio imperialismo) bensì come la vecchia, vecchissima, Cina che punta ora all’intesa diretta con los ingleses in vista, eventualmente, confidando sul numero e sullo sviluppo accelerato, di superarli dominando loro cinesi il mondo in un futuro non distantissimo. Dal cercare di “guidare” il “campo socialista”, la RPC si candida a guidare il mondo. O così suggerisce, senza dichiararlo in modo aperto e netto, e forse senza davvero crederci. Per cui al linguaggio “comunista” sostituisce il linguaggio nazicinese aperto. Non cambia la percezione ultraxenofoba oltre che nazirazziale del cinese della RPC, e di riflesso degli altri cinesi rispetto alla RPC, che, oggi, semplicemente grazie allo sviluppo quantitativo di cui il cinese ora [una parte minoritaria] ha vantaggio, ora vede e sente solo dai media, si sente in posizione più forte rispetto al passato rilativamente al mondo esterno di cui ha sempre avuto e continua ad avere terrore. Non cessano l’avversione forsennata a los ingleses [di cui di fatto cinesi continuano ad essere colonia che se preferiscono negarselo], né alle Russie (che tuttavia oggi non preoccupano più, o non più molto, essendovi, per ora, il rapporto diretto con los ingleses). La RPC è semplicementa passata, o così crede, dallo stadio di paria mondiale, che deve solo gestire il falansterio di automi, allo stadio di chi crede o s’illude di divenire protagonista mondiale. Il futuro dirà se questa credenza abbia davvero una qualche base. Un’esposione-frammentazione della RPC ed il superamento del cinese lingua logografica, sostituendola con una lingua alfabetica, cui s’accompagnerebbe immediatamente un’autentica rivoluzione linguistica e culturale, sarebbe il rapido superamento del mito della “civilizzazione cinese millenaria” e porterebbe ad ancor più rapide ed esplicite differenziazioni d’uno spazio cinese che è già ben più differenziato e frammentato di quanto si preferisca lasciar trasparire. Oggi sembra unito e compatto perché il potere si presenta come un unica grande mafia che si rapporta col singolo cinese come Il Potere mentre non è davvero così. Il cinese è troppo schiavo, pauroso ed ignorante [come gli ingleses e tanti altri, i cinesi sono dei veri sottosviluppati culturali pur, talvolta, con vaste conoscenze tecniche ...che son cosa incorrelata con la comprensione dei meccanismi sociali, ma a differenza degli ingleses e taluni altri, i cinesoidi sono al 100% schiavi con la mentalità da tali] per osare farsi domande su chi si vende come Il Potere pur non essendolo davvero proprio perché Il Potere assoluto ed indiscutibile è una finzione che suppone servi felici d’esser servi che l’accettino per vocazione innata al servilismo.

Comunque, l’operazione, puramente linguistico-propagandistica cinese, è la stessa che fanno gli USA quando, come giustificazione per politiche imperialistiche, s’inventano lo scontro di civiltà contro un’insurrezione islamica che loro stessi hanno prodotto in funzione anti-URSS ed anti-UE. Prima c’era il “nazismo” ed i “musi gialli” nipponici, prima ancora altro, poi, il “comunismo”, poi si sono dovuti o voluti inventare qualcos’altro. In realtà, non è detto che ci si debbano inventare delle castronate suggestive per catalizzare paure delle masse, anche se si fatto è quello che viene fatto. È una forma di immoralità od amoralità doversi inventare delle droghe sociali con cui un po’ addormentare un po’ mobilitare masse evidentemente considerate come schiavi o peggio da orientarsi a piacimento.

Le identità forti sono dotate di forte spiritualità, dove il territorio non è elemento esseziale. Infatti, le identità forti scarseggiano nei tempi e nei luoghi. Anzi, il passagio da coesioni puramente identitario-spirituali alla fondazione di una patria, porta ad un allentamento della coesione identitaria, pur essendo sempre un vantaggio, dal punto di vista difensivo, avere, da qualche parte nel mondo, una patria, dunque uno Stato, con una qualche forza. Ma, appunto, come contrappeso, il divenire “nazione” come tutte le altre porta a forme di allentamento identitario prima basato, su comuni vivere e sentire al di là dei territori e dei luoghi, solo con un immutabile fissato nelle testa e nei prossimi di famiglia e gruppo.

Si costruiscono allora identità fondate su una concezione animale, pidocchiesca, del territorio per cui dove è il tuo gruppo supposto etnico, esso è tuo come pidocchietto di una grande gruppo etnico-nazionale-territoriale attraverso il quale, e solo attraverso il quale, tu pidocchietto esisti davvero. Al territorio viene fatta acquisire una valenza etnica, così come allo Stato territoriale che viene concepito come Stato d’un gruppo etnico prima ancora che uno Stato entità legale. Lo Stato esiste perché esiste un gruppo etnico con territorio, non solo o soprattutto perché lo Stato abbia giurisdizione su dei sottoposti. Uno Stato fondato innanzitutto su principi di legalità sembra improbabile soprattutti negli spazi cinesi. Lo Stato cinese esiste perché si considera etnicamente cinese, con varianti per Stati cinesi minori o particolari come Singapore o Taiwan-RoC. La legge e le leggi sono facciate per conformarsi a supposti modelli che appaiono come standard internazionali. Gli Stati cinesi, anche molti altri, sono Stati mafiosi dove la legge è un qualcosa che c’è perché deve esserci ma non veramente informativa della vita sociale, della convinvenza tra singoli e gruppi.

Ci si dovrebbe interrogare a fondo cosa sia la nazione, il gruppo etnico, per la psiche individuale e di gruppo. Si vive nella nazione perché non si altro, oppure si usa la nazione per avere carne da fabbrica e da macello per propri interessi di classi dirigenti? Le tradizioni, le ritualità interiorizzate fin dalla più tenerà età e che dunque sembrano essenziali, indispensabili, divengono maschera per relazioni di sfruttamento mascherate dall’accettazione d’una identità mentre in realtà c’è chi si para dietro quest’identità per sfruttarla e per sfruttare chi si ne senta parte ma in posizione d’inferiorità. Più chiara ed onesta una relazione mercantile, mercenaria, con libera scelta individuale naturalmente.

Con la guerra britannica dell’oppio del 1840-42, la Cina “millenaria” è per sempre visibilmente distrutta e sottomessa da ovest da los ingleses. Con la guerra cino-giapponese del 1894-95, la Cina è visibilmente sottomessa dall’est prossimo. Inferiore agli stranieri “barbari occidentali”, ma pure inferiore agli “inferiori” prossimi, nipponici. Di fronte a potenze esterne, la Cina “millenaria” mostra la sua inferiorità tecnologica. La “cultura millenaria” non è competitiva. Il nazionalismo patologico maniacal-ossesso, se in una potenza competitiva serve per ragioni di compattamento interno per operazioni esterne, in sconfitti e non competitivi è un modo per non fare i conti con la realtà o per farli in modo del tutto stravolto. Ciò vale per le Cine come per altri nazionalismi o xenofobie fasulle come l’Italica dove la “cultura millenaria”, che non era comunque italica ma romanico-latina, diviene rifugio dall’includenza del presente, e pure del passato recente e meno recente.

Nazionalismi e xenofobie sono patologie, talvolta utili ed utilissime, spesso, invece, del tutto devastanti. Tuttavia, restano comunque patologie. Saranno, forse, indispensabili, in vere potenze, per essere tali. Ci sarebbe da chiedersi se non esistano metodi migliori per il presente e per il futuro. Forse esistono. Forse non esistono. Si noti che esistono altre forme identitarie, che non è detto siano necessariamente migliori o peggiori, fondate non sulla nazione territoriale ma sull’etnia del credo. Per quanto la stessa nazione sia una forma di credo. Dunque, i confini tra le differenti forme non sono mai netti. Inevitabilmente, almeno al giorno d’oggi o fino al giorno d’oggi, queste altre forme identitarie si mescolano all’etnia più propriamente nazional-territoriale ed, eventualmente, “razziale”. La stessa razza non è una caratterizzazione così netta come nelle semplificazioni. Alla fin fine, un po’ tutte le categorizzazioni identitarie sono costruzioni della testa eppur tanto più indistruttibili in quanto assimilate come naturali, mentre non è per nulla detto lo siano. Sono tutte forme di rifugio. È il “rifugio”, sia micro (famiglia) che macro (nazioni, etc), assolutamente naturale oppure patologico o con valenze miste?

(Zhao Suishen, 2004) prende in esame differenti categorizzazioni del nazionalismo e del nazionalismo cinese.

“Ethnic nationalism sees the nation as a politicized ethnic group defined by common culture and decent, shared historical experiences, and usually a common language. The nation may emerge from an “imagined political community” that is subject to political manipulation, although it may not necessarily be unreal and fabricated. (...)
“Ethnic nationalism was the mainstay of Chinese nationalism at the turn of the twentieth century when revolutionaries of the Han ethnic majority led a state-seeking movement to oppose European imperialism as well as the minority Manchu rulers.” (Zhao Suishen, 2004, p. 21).

“Liberal nationalism defines nation as a “socially mobilized body of individuals who believe themselves united by some set of characteristics that differentiate them (in their own mind) from outsiders and who strive to create or maintain their own state.” It aspires to a strong and assertive self-awareness among citizens who are nationals of a state regardless of ethnicity, religion, lineage, or any other similar factor. Nationalism thus implies popular awareness of, and some degree of civic participation in, politics. A government is not considered legitimate unless it is thought to represent its nationals.” (Zhao Suishen, 2004, p. 23).

“Liberal nationalism was introduced to China in the twentieth century to regenerate the nation through comprehensive and social reforms. Liberal nationalists identified with the Chinese nation-state against foreign imperialism and, at the same time, pushed for recognition of individual rights against authoritarian states led by both the KMT and the CCP. As a result, while the incumbent political elites attempted to make use of liberal nationalism forces to confront foreign pressure, they often found themselves in constant tension with liberal nationalists on the domestic front.” (Zhao Suishen, 2004, p. 24).

“State nationalism defines the nation as a territorial-political unity and an organizational system to gather citizens of a given territory – voluntarily or not – to produce public goods for its members and make sovereign collective decisions. State nationalism is similar to what Jean-Dominique Lafay has called the “holistic view of nationalism,” which conceives of the state as a “superbeing, with its own aims and rights. This superbeing is the sovereign judge of the national interest, and it has a natural right to promote this interest, whatever the consequences for the sovereignty and welfare of the other nations or for the sovereignty and welfare of domestic individuals.”
“State nationalism is promoted by the incumbent state elite who speak “in a nation’s name, successfully [demand] that citizens identify themselves with that nation and subordinate other interests to those of the state.” (...) The distinction between state nationalism and ethnic nationalism in rather like the distinction between the nationalism of the people who possess a state, and the nationalism of those who do not.
“In twentieth-century China, incumbent political elites from both the KMT and the PCC were strong advocates of state nationalism.” (Zhao Suishen, 2004, p. 24).

Tuttavia, inevitabilmente, lo stesso nazionalismo è suscettibile di usi differenti. Essendo uno strumento di manipolazione, occorre saperlo usare per manipolare secondo i propri fini senza magari finirne manipolati da altri, per quanto disponendo del potere è l’uso e la forza stessa del potere che rende accessori gli strumenti usati. La fonte originaria del dominio sta sempre nel potere e nel suo esercizio, prima che nella sfera ideologico-propagandistica. L’individio, come singolo e come gruppi, si crea la sue giustificazioni per farsi asservire dal potere e vive secondo esse le ideologie propinate dal potere. Se non si lascia asservire non è perché l’ideologia del potere sia debole ma perché il potere è debole. Tutte le ideologie del potere non hanno in genere grandi forza né sofisticazioni intrinseche. Vengono percepite, o si finge di percepirle, come forti solo se il potere è percepito come forte.

“The crucial strategic issue for the communist state is how to prevent nationalism turning from a tool into a threat. The solution was the adoption of a strategy of pragmatic nationalism, which is largely a situational matter and essentially contextual, whose content is continually reconstructed to fit the needs of its creators and consumers. Narratives of pragmatic nationalism typically become “invented histories or traditions.”” (Zhao Suishen, 2004, p. 29).

Alla fine, è il singolo che crede perché deve e vuole, non perché le credenze propinate sia intrinsecamente suggestiva ed irresistibile. È il potere che è più o meno irresistibile. Dunque, l’intensità con cui il singolo si adegua ad esso.

Il nazionalismo cinese è la costruzione del “noi”, “la cultura millenaria”, “la cultura più antica”, “i migliori dell’universo”. Sono tutte fandonie come quelle di tutti i nazionalismi e di tutte le credenze. Le si crede, perché le si vuole credere. Ci se le fabbrica perché si vuole essere sottomessi, si vuole sentirsi parte, o fingere di sentirsi parte, di qualcosa che transcende il proprio essere immediato.

Sono decisamente forzate certe generalizzazioni storico-culturali di (Zhao Suishen, 2004) che vuole trovare delle spiegazioni lineari all’essere e sentirsi cinese.

“Before the nineteenth century, China was a universal empire and not a particularistic nation-state. The self-image of Chinese people was “culture centric” rather than nationalistic.” (Zhao Suishen, 2004, p. 41).

Come si fa a parlare di impero universalistico o universale quando proprio una caratteristica cinese, differente da altri vasti imperi o regni o repubbliche, è sempre stata proprio il volersi difendere dal mondo anziché conquistare il mondo? Se si guarda alla storia della marina cinese, se ne vede subito il suo carattere accessorio, del tutto secondario. Mentre i grandi imperi con ambizioni universali (da Roma antica al Regno Unito agli USA) danno grande importanza alla marina sia militare che mercantile strettamente interconnesse.

La relazione con l’acqua, inclusa l’acqua dei mari, del cinese è timorosa. Il cinese rifiuta la vita dunque rifiuta le acque. Rifiutando le acque e la vita, rifiuta di conquistare il mondo. Si rifugia nella terra, con ansie puramente difensive. E finisce sconfitto da qualunque dominatore universale, dunque privo delle stesse paure e freni del cinese.

Può far comodo parlare del cinese come dotato d’una immagine di tipo culturale o centrata sulla cultura. Ma, se si scava, l’unica “cultura” e la “cultura” del potere, il servaggio al potere. Cioè il potere che era riconosciuto come potere sia da chi si considerasse cinese che da chi si considerasse, pur suddito o schiavo dell’Impero, non cinese. Il potere centrale e periferico, a sua volta, considerava cinesi taluni e non cinesi tal’altri dei suoi sudditi o schiavi. Il potere creava dunque un’immagine ed un’auto-immagine. Allo stesso tempo, il potere era vissuto, pur sempre potere, dunque da temersi, ora come della stessa nazionalità da chi si viveva come cinese, ora come d’altra nazionalità da chi si considerasse non cinese. Ciò significa che l’aspetto etnico-“culturale” (le tradizioni), cui il potere non era per nulla estraneo, aveva inevitabilmente riflessi differenti sulla massa dei sudditi o schiavi dell’impero. La ritualità del potere era inevitabilmente vissuta come propria, o come variamente propria, da taluni, magari la grande maggioranza, e come variamente estranea da altri.

Quando l’autore fa seguire alla frase sull’Impero universale quella sull’autoimmagine “del popolo cinese” [“The self-image of Chinese people was “culture centric” rather than nationalistic.” (Zhao Suishen, 2004, p. 41)] opera delle confusioni concettuali ed induce delle confusioni terminologiche nel lettore. Se si intende popolo nel senso giudirico, popolo sono i sudditi o schiavi, o cittadini dove esistano dei cittadini, d’un potere centrale. Se un potere centrale è universalistico, la “cultura” rispetto al potere è la cultura del cittadino o suddito oggetto o soggetto di diritti (potrebbe essere il caso dell’Impero romano), oppure dello schiavo o suddito oggetto o soggetto di doveri. Se oltre a ciò esistono delle culture “nazionali”, cinesi o altre in questo caso, e se la nazionalità maggiore è la nazionalità del potere centrale, improbabile che l’entità statuale del potere centrale non abbia una componente nazionalistica nel senso etnico-nazionale. Di certo, qualunque gruppo etnico è nazionalistico, per lo stesso fatto d’essere gruppo-etnico nazionale. Il nazionalismo può essere ora sopito, o parzialmente sopito, rispetto alla scena pubblica (si veda la pur occidentale Jugoslavia di Tito), ora pubblicamente affermato. (Zhao Suishen, 2004) vuol far qui credere che un gruppo etnico-nazionale cinese maggioranza, e pur rilevante, d’un Impero cinese esistesse silenziosamente, almeno dal punto di vista del nazionalismo di cui sarebbe stato privo, e che lo stesso potere centrale con tutta la sua burocrazia anche periferica avrebbe trovato la sua coesione ideologica in una cultura non nazionalistica, dunque in una cultura senza componenti nazionali semmai possano esistere nazioni (nel senso etnico-culturale) senza nazionalismo. È facile però, ad un certo punto, far vivere al cinese la dinastia Qing/Manchu come straniera.

Pur particolarmente lobotomizzato, il cinese, come ogni altra nazionalità, riconosce il suo simile di “razza” per una gamma di comportamenti linguistici e di vita, o perché altri suggerisce che taluni siano simili, della stessa razza. Su questo crea un’identità che è la base d’ogni nazionalismo. Esistono poi nazionalismi del potere che sono una gamma più vasta, descrivibile con spazi concentrici, a seconda del grado di identificazione col potere e, simmetricamente, di riconoscimento e considerazione da parte del potere.

Che il nazionalismo sia una patologia latente, soprattutto tra non realmente umanoidi (e che dunque non si identifichino nella “razza” umana ma se ne debbano inventare altre), come in effetti si rivelano la stragrande maggioranza dei supposti umani, è mostrato, nelle Cine, dalla facilità con cui si faranno vivere i Qing/Manchu non solo come dinastia responsabile della sottomissione cinese, bensì come dinastia da spazzarsi via in quanto non cinese. Al cinese, inferiore di fronte agli stranieri, viene propinata una traslazione della “colpa” del tipo “non siamo noi cinesi gli inferiori ma la dinastia Qing/Manchu.” Essendo, quella cinese, un’inferiorità tecnologica e sistemica di fronte agli stranieri supposti barbari è davvero d’una illogicità unica una tale credenza che, tuttavia, viene facilmente instillata proprio perché i Qing/Manchu non sono han, non sono di “razza han”, pur non essendo poi tanto semplice neppure identificare una vera unica “razza han”. Tuttavia, le razze o le nazioni si identificano spesso per differenza. I Qing/Manchu erano del nord, di estrazione territoriale mongola, con qualche peculiarità linguistica ed altre. Per contingenze storiche avevano soppiantato la dinastia Ming, han. Ecco che ciò era sufficiente per essere vissuti come stranieri. Più la Cina era costretta a fare i conti con proprio ritardo e la propria inferiorità, la “colpa” veniva traslata sulla dinastria “straniera”. Quando gli han la affondano ed affondano la Cina, il fatto che fossero han non garantisce alcuna rinascita cinese. Non era questo il punto. I nazionalismi più sono strumentali, più sono deviazioni per altri fini. Nel nome della razza cinese-ha, si afffonda la Cina Qing/Manchu, senza costruire una Cina cinese.

Ecco che un KMT che nessuno riconoscerà come nuova dinastia, infatti il già Impero si feudalizza apertamente, sostituirà (come immagine, più che nella storia reale) la dinastia “non cinese”. Si trasla sui Qing/Manchu l’inferiorità cinese. Li si liquida come non cinesi, ad opera di clan mafiosi “cinesi”. Un KMT di fanatici pasticcioni dovrebbe essere la nuova dinastia. Il KMT è solo la facciata di clan mafiosi che neppure si fanno troppi problemi e non impegnarsi neppure nella finzione. Il KMT è “lo Stato” per il mondo, mentre il potere sono i vari clan mafiosi locali. Infatti, la Cina che ne emerge è una Cina ancor più disastrata di quella imperiale. Los ingleses dominavano e disastravano le Cine già sotto l’Impero. Los ingleses continueranno a dominarle ancor meglio, affondato l’Impero.

Le distinzioni artificiose tra Imperi universalistici ed i cosiddetti Stati-nazione particolaristici, così come tra Impero corrotto e immaginaria “nuova Cina” del KMT e poi del PCC, è meglio si lascino rimpiazzare dal racconto delle storie reali. Sei “particolaristico” quando non puoi permetterti di più. Da “universalistico” ti dissolvi quando, impossibilitato a gestire il “paradiso” dell’ordine mondiale pacifico e stabilizzato, il ciclo che si conclude deve lasciare spazio alla “barbarie” che si riimpone. La “Cina millenaria” che s’illude di ricostituirsi e perpetuarsi, invece che esplodere prolifica, e di riinvigorire le sue schegge mescolandosi alla “barbarie”, sarà il prodigio che si compie od il cadavere già in putrefazione che s’illude? Meglio non aspettarsi mai prodigi dalle storie reali. Nell’Asia dell’Est il prodigio c’è già stato: il Giappone, che scaturiva da un prolifico feudalesimo di lotte fucina di trasformazioni e ricostruzioni. La Cina non ha quelle caratteristiche.

L’autore illustra il concetto di nazionalismo cinese come concetto recente. Così facendo, confonde forma per sostanza. La xenofobia ed il nazionalismo che ne è complemento, non sono sentimenti nascano sul nulla o per semplice fabbricazione sull’automa condizionabile e poi condizionato, se non esistono già o in embrione o sotto altra forma. Il mito della cultura millenaria, della Cina centro del mondo (che è nella stessa scrittura cinese: 中) dunque superiore a tutti pur mescolato alla xenofobia esasperata dunque alla coscienza del voler essere superiore pur non essendolo (è tipico di chi si voglia superiore non esserlo, essendo la superiorità assoluta sugli altri un non senso; le “superiorità” sono solo competizioni e conquista quotidiana su punti specifici), etc. esistono da sempre. Non sono creazioni nuove. Certo, l’asservimento aperto della Cina da parte di chi nei fatti s’è mostrato superiore ha cambiato la percezione delle classi dirigenti della Cina, dunque dei loro sudditi o schiavi. Al senso di superiorità s’è aggiunta la frustrazione di non esserlo. Del tipo: “Siamo superiori ma non ci se lo riconosce. Oh, che cattivi barbari da punire e distruggere!”

“Strikingly, scholarly, studies have not found the term minzu (nation) or Zhonghua minzu (Chinese nation) used in the Chinese classics. Instead, in the parlance of the average Chinese before the nineteenth century, the term tianxia (universe), as a away of referring to the acumen of civilization to which the Chinese people belonged, was used much more commonly than any term that might refer to the nation.”
(Zhao Suishen, 2004, p. 45).

Tianxia è, comunque, in cinese, non l’universo ma il mondo, la terra sotto il paradiso o sotto i cieli. Se i cinesi si giudicavano e si giudicano il centro del mondo, che è anche un modo per dire che hanno terrore di tutto ciò possa esister al di fuori di quel centro che sono o dicono di essere loro, ecco che sinonimo di cinese e di nazione cinese era il termine mondo. È questione terminologica, non di percezione differente. Il cinese riferisi alle dinastie per caratterizzare la loro storia è l’animalesco o schiavistico riferirsi al padrone, sebbene, nella maniacalità burocratica cinese, lo stesso padrone era ed è schiavo, pur privilegiato, dell’ordine generale, della casema, o campo di concentramento o di lavori forzati, si trovava e si trova a dirigere.

Nazionalismo, come concezione organicistica che prescinde dall’individuo e dai suoi diritti ed unicità, è consono alla tradizione cinese “millenaria”. Il nazionalismo risolve tutto nel gruppo, nel gruppo di automi identitici, coalizzati e coesi in un’unica identità. “Nazione” è gruppo che agisce come un tutt’uno. Chiunque si viva come automa, ed automa tra automi, si nega come individuo (in effetti l’automa da falansterio schiavistico non è individuo umano) e si esalta come gruppo, come nazione. C’è poi chi usa quest’aberrazione, come chi ne è usato. È come i kamikaze: c’è chi li recluta e fanatizza e c’è chi li usa. C’è chi si suicida. C’è chi fa suicidare gli altri, mai sé stesso. “Siamo la nazione”, “Siamo il gruppo”, “La nazione ti chiede di...”: c’è che si sottomette e c’è chi sottomette, usa, collabora per usare i sottomessi. Al contrario, il popolo di Dio che si libera dalla schiavitù si dà dei comandamenti che richiedono obbedienza, dunque responsabilità, individuale. L’individuo è tale perché responsabile di fronte a Dio. Il servo o schiavo lo è solo di fronte al gruppo, di fatto di fronte al padrone. L’assenza di religiosità del cinese è tutta qui. Ha padrone, non Dio. È schiavo, non individuo. È lo stesso motivo per cui anche altrove si lotta contro la religiosità (che è altra cosa da conflitti con gerarchie chiesastiche che spesso hanno poco di religioso): si vogliono schiavi del potere, dello “Stato”, non individui.

Se, in Cina, si passa dallo schiavo che deve semplicemente obbedire al padrone, lo Stato con le sue burocrazie onnipresenti, allo schiavo fanatizzato col nazionalismo, è perché si passa da una dominazione normale sulla popolazione schiavizzata ad una dominazione che necessita di fanatici per far fronte alla situazione creatasi con la dominazione inglés sulla Cina, per quanto gli stessi ingleses, come dominatori superiori, abbiano usato il fanatismo nazionalista (che può essere usato per sviluppo, per sottosviluppo, o per altro) per tenere la Cina sottosviluppata per un’altro paio di secoli e per un mezzo secolo dopo la seconda guerra mondiale. In effetti, la stessa pseudorivoluzione nazionalista [quella cosiddetta del KMT sebbene non ci sia nessuna rivoluzione, né tantomeno del KMT; c’è un KMT, ci sono gruppi mafiosi e comandanti militari, c’è una disgregazione dell’Impero], che distrusse l’Impero, si risolse in un’aperta feudalizzazione della Cina già imperiale. È un po’ squallida una pseudorivoluzione i cui pseudo capi debbano supplicare i mafiosi e feudatari militari del Sud per costruire un minimo di Stato formale che neppure riescono davvero a costruire e che non si impone sul vasto ex-impero, ma solo su parti limitate di esso.

In effetti, la stessa fanatizzazione nazionalista del cinese ha funzionato solo dal punto di vista della sua percezione xenofoba rispetto allo straniero, non per costruire un vero Stato. In Cina, dopo la caduta dell’Impero, agli inizi del XX secolo, neppure c’è mai stata una vera guerra di conquista o riconquista interna. Le capacità di combattimento del cinese, pur fanatizzato, sono sempre restate nulle o basse, dal PCC che non ha mai neppure combattuto contro i giapponesi, al KMT che, pur militarmente nettamente superiore al PCC, non aveva i mezzi per potersi davvero confrontare coi giapponesi, alla stessa “vittoria” del PCC sul KMT costruita più sulla demolizione-corruzione del KMT da parte de los ingleses (che hanno optato per consegnare la Cina, vasto campo di lavori forzati, ai più sottosviluppisti ed ai secondini più barbari) che su una vera guerra aperta tra le due fazioni. Certo, è stata costruita una storiografia di battaglie, talune vere e sanguinose, molte inventate giusto per rappresentare una grande guerra sociale e nazionale da parte dei vincitori voluti da los ingleses, ingleses che hanno fornito la copertura propagandistica internazionale al regime di lavori forzati sottosviluppisti (neppure per un qualche sviluppo militare “pesante” alla russo-sovietica) , “il comunismo”, da loro voluto per la Cina.

Neppure c’è stata guerra contadina con rivoluzione agraria in Cina. Certo né ha parlato la propaganda oxfordista, col PCC e Mao rappresentati come nuova Cina, Cina che si liberava. Ora lo dicono, che era solo propaganda. Non dicono ancora che Mao è stato fabbricato ed imposto da qualche servizio loro. Ma lo si capisce, se si vuole. Si veda la stesso lavoro di Jung Chang e Jon Halliday, Mao. The Unknown Story, Jonathan Cape, 2005. Ricerca straordinaria ed utilissima, si blocca ai perché dell’affermazione di Mao. Si rappresenta un Mao inviso a tutti i suoi. Eppure riemerge sempre, e non per una qualche sua abilità visto che si impone con mezzi facilmente contrastabili se in gioco vi fossero solo lui contro tutti o contro altri. O è stato un caso del destino, od c’è altro che si preferisce non dire. Infatti, la ricerca, pur accuratissima, evita, in genere, sue eventuali connessioni ingleses ed altre, o, meglio, il perché, se davvero è così, servizi ingleses abbiano in qualche modo fabbricato, protetto e promosso lui contro tutti gli altri. Ne esce un prescento da Mosca che pur Mosca non vede bene e che lui tradisce in continuazione. Appunto, il classico personaggio che sarebbe stato facilmente eliminato se non vi fosse stata qualche protezione irresistibile, dunque potentissima ed esterna alle Cine, che dura fino alla morte dello stesso. Non crediamo “all’agente di”. Le storie reali non funzionano mai a questo modo. Non vogliamo dunque ipotizzare favolette poliziesche. Sta di fatto che, quando non si abbiano mezzi e stutture sociali ed istituzionali per condizionare chiunque sia al potere formale, le potenze lavorino puntando su personaggi che evidentemente hanno il modo di condizionare da vicino, in qualche modo. Interessante il ruolo forse decisivo di Kang Sheng (康生) come agente operativo cinese nella creazione e manipolazione di Mao. È Mao che non sembra all’altezza del personaggio Mao ed è inspiegabile la sua ascesa e permanenza al potere nel PCC e, poi, nella RPC.

Che ora la Cina stia avendo un considerevole sviluppo quantitativo (che può continuare per un po’ come saltare tutto in qualunque momento), pur con l’irrisolto e, sembrerebbe irrisolvibile, nodo del dualismo tra un 300,000 “cittadini” ed un miliardo di “campagnoli”, non cambia che la RPC sia stata per mezzo secolo un campo di lavori forzati sottosviluppisti voluto da los ingleses. Ora si trova strutturalmente indadatta ad una vera rivoluzione industriale e di servizi. Per il momento, l’occidente ed i giapponesi ne sfruttano la manodopera a bassissimo costo. Mentre nessuno sembra capace, tanto meno i cinesi con la loro pseudo “cultura millenaria”, di realizzare una vera riforma agraria che getterebbe centinaia di milioni di “campagnoli” sul mercato del lavoro cittadino. Il mercato del lavoro cittadino ne avrebbe invero bisogno, ma lo Stato, che è debole ed arretrato, non è capace di gestire i problemi sociali e di ordine pubblico che creerebbe una vera rivoluzione industriale in Cina. Allora si punta da una continuazione del campo di concentramento, pur con una parte minoritaria d’esso, le cosiddette città, che si sviluppa anche come livelli di reddito e stili apparenti di vita. Improbabile, nonostante il passaporto interno, che il modello possa reggere, coi media che portano dappertutto le immagini del benessere ...cui tuttavia la stragrande maggioranza neppure può sperare di vivere anche solo in prossimità, magari come servo all’interno dei palazzi delle ricchezze. Gli stessi costruttori di palazzoni vivono spesso accampati nei palazzi in construzione, dove lavorano dal mattino presto a sera tardi, tutti i giorni della settimana e dell’anno, per poi passare ad altri palazzi in costruzione finché siano in condizione di lavorare. Oppure vivono in “case” pure peggio, nelle aree dove abbiano casa e famiglia.

Che un nazionalismo, che sia qualcosa di più della solita xenofobia esasperata del cinese, possa davvero vivere a livello di massa come mezzo di sudditanza spirituale delle masse cinesi non è affatto detto. Facile alimentare il nazionalismo esperato tra i beneficiari del benessere. Più improbabile venderlo ai depredati come consolazione dell’essere depredati in cambio del vedere i successi della patria in tv, pur con l’elettricità per vedere la tv che è troppo cara per il cinese medio, se deve pagarla a prezzi di mercato. Costoro, o li si domina con la forza spietata, o salta tutto. Tuttavia la forza pura ed aperta non è un grande strumento di consenso, pure tra gli schiavi. I bassi livelli di reddito e di consumi del proletariato non sono neppure convenienti dal punto di vista economico. Eppure non è detto la RPC possa permettersi altro, nelle condizioni date.


Zhao Suishen (趙穗生), A Nation-State by Construction. Dynamics of Modern Chinese Nationalism, Stanford University Press, Stanford, California, USA, 2004.